La Fifa e l’immancabile fascinazione per le dittature

“Le prodezze sportive accrescono il prestigio della nazione e abituano gli uomini alla lotta in campo aperto.” – Benito Mussolini

Nikolay Mitrokhin ha definito la Russia una “dittatura elettorale”, in cui la quantità di democrazia “sta diminuendo di anno in anno”. Vladimir Putin governa ininterrottamente da 15 anni, gli oppositori politici vengono, di volta in volta, silenziati, screditati o addirittura fatti arrestare, e i giornalisti scomodi allo Zar vengono ritrovati morti in circostanze misteriose. E mentre la Russia è ormai tornata a essere una potenza mondiale, e la sua influenza – più o meno legittima – sulle democrazie occidentali è più forte che mai, il mondo del calcio segue la Coppa del Mondo organizzata nel paese di Putin, seguito ideale delle Olimpiadi invernali di Sochi 2014.

La sociologia politica spicciola ci insegna che esiste una sostanziale divisione tra mondo democratico e regimi illiberali. Ci piace pensarla così, che da una parte ci siamo noi – quelli progrediti – e dall’altra loro, fermi a uno stadio primitivo della Storia, a cui noi stiamo immancabilmente insegnando la democrazia. Eppure i confini tra questi due mondi sono sempre stati labili (oggi più che mai, a ben vedere), le sfumature di grigio sono innumerevoli, e le contaminazioni tra i due sistemi più ordinarie di quanto si creda. Così capita che la Fifa, nata nel 1904 nella democraticissima Terza Repubblica francese e oggi sita nella neutrale Repubblica svizzera, intrattenga sovente rapporti di commerciale simpatia con stati in cui le libertà individuali sono più prossime al miraggio che alla realtà.

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Italia – Spagna, 1934.

Già nel 1934, al suo primo Mondiale europeo, la Fifa preferì l’Italia di Mussolini alla Svezia. Il torneo divenne, così, l’occasione che il Fascismo attendeva per esportare nel mondo la sua immagine più pulita e di successo: l’esaltazione dell’uomo italico, della cultura dello sport e del nazionalismo. Tra l’idea e la sua realizzazione si frapponeva Ricardo Zamora, fenomenale saracinesca della Spagna: nel match tra gli iberici e la nazionale di casa, il pareggio fu frutto, più che dell’impegno degli Azzurri, del disimpegno dell’arbitro nel segnalare i falli contro gli spagnoli (in occasione dell’1-1, Schiavio impedì praticamente a Zamora di effettuare la parata). All’epoca non c’erano supplementari, ma si ripeteva la partita: guarda caso, Zamora non giocò il secondo match, e l’Italia vinse. Due anni dopo, pure il Cio cedeva alle lusinghe delle dittature e faceva organizzare le Olimpiadi ad Adolf Hitler; nel 1938, quasi per rimediare, i Mondiali furono disputati in Francia in una situazione di guerra imminente, e l’Italia s’impose di nuovo tra le polemiche e i saluti romani.

La Seconda Guerra Mondiale sembrò promettere che cose del genere non sarebbero più successe, e – seppur capitò che il Brasile di Pelé divenisse incolpevolmente il volto pulito del feroce regime di Emilio Garrastazu Medici – la promessa fu mantenuta, almeno finché la Fifa non accettò la candidatura dell’Argentina. Il 24 marzo 1976, ad accordi già siglati, una giunta militare fascista prese il potere nel paese sudamericano, e la Fifa tacque. Due anni più tardi, la Coppa del Mondo prendeva il via in un paese stretto nella morsa di una delle più sanguinarie dittature del Novecento, e mentre l’Albiceleste vinceva sul campo il governo di Videla faceva sparire nel nulla centinaia di oppositori politici, in un silenzio favorito (e forse pure incoraggiato, più o meno consapevolmente) dal mondo del calcio.

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La fiesta de todos di Sergio Renán è il film ufficiale del Mondiale argentino del 1978 e un manifesto culturale della dittatura militare.

Sotto la spinta dell’ammiraglio Emilio Massera, la giunta militare inserì l’organizzazione del torneo in cima alla lista delle priorità delle nazione; il Mondiale diventò il biglietto da visita del regime: “Qua in Argentina tutto funziona per il meglio”, si leggeva tra le righe delle dirette. Grazie al sostegno della Fifa – il cui vicepresidente Hermann Neuberger, dopo una visita in Sudamerica, ebbe a dire che “non esistevano premesse migliori per lo svolgimento del torneo” – la Giunta potè accedere a milioni di dollari di sponsor internazionali, grazie ai quali riorganizzò completamente il sistema dell’informazione nazionale. Letteralmente in contemporanea con le partite di calcio, nei segreti centri di detenzione i nemici del regime venivano torturati e uccisi nel disinteresse generale; uno di quei centri, la Escuela de Mecánica de la Armada, stava a pochissimi chilometri dallo Stadio Monumental di Buenos Aires. Tra il 1976 e i 1983 passarono di lì oltre 5.000 detenuti, e di circa il 90% di essi non si è più avuta notizia. João Havelange, presidente della Fifa, assicurò al generale Videla: “La FIFA non metterà in dubbio l’Argentina come organizzatrice e avrete tutto il nostro appoggio.”

Argentina 1978 è stato uno spartiacque fondamentale nella storia politica dei Mondiali di calcio, come se la Fifa, una volta superato lo shock di aver coperto le nefandezze di un regime fascista, si sentisse in un certo senso legittimata a commetere altre piccole forzature: se erano riusciti a farla franca una volta davanti al tribunale dell’opinione pubblica, potevano riuscirci una seconda, e una terza, e così via. Nel 1986, Havelange avrebbe voluto i Mondiali nella calcisticamente periferica Colombia, accettando una bizzarra candidatura sostenuta da politici corrotti e dirigenti sportivi intrallazzatori come Alfonso Senior Quevedo, in un paese in cui il calcio stava rapidamente scivolando nelle mani dei narcotrafficanti come Gonzalo Rodriguez Gacha. Non fosse stato per la drammatica incapacità organizzativa delle istituzioni colombiane, tale da rinunciare all’ultimo al progetto, la Fifa non avrebbe posto alcun veto alla pioggia di narcodollari che avrebbero sostenuto le basi del torneo.

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Un murales su Neymar, leader del Brasile ai Mondiali casalinghi del 2014, vandalizzato dai contestatori.

E così si è arrivati ai tempi più recenti, dove tra una crisi economica e il bisogno commerciale di aprire il calcio a nuovi lidi (più di mercato che sportivi), i Mondiali sembrano essere divenuti monopolio quasi esclusivo di paesi a democrazia limitata. Nel 2010, con la scusa dei primi Mondiali africani, la Fifa ha chiuso un occhio e forse più sulle ripetute violazioni dei diritti umani commessi dal governo del Sudafrica (in particolare i vari casi di tortura e omicidio perpetrati dalla polizia); ha ignorato la violenta repressione avvenuta nelle favelas brasiliane per assicurare un tranquillo svolgimento della manifestazione nel 2014; ha affidato i Mondiali di questi giorni al ben noto regime russo di Vladimir Putin, e i prossimi si diputeranno – in barba al caldo opprimente, alla mancanza di tradizione calcistica e alla carenza di strutture – nel 2022 in Qatar, una monarchia assoluta retrograda e liberticida, sospettata di legami economici con l’Isis, accusata di avere sostanzialmente ridotto in schiavitù 2,5 milioni di persone per lavorare incessantemente alla costruzione degli impianti e di avere causato già la morte di molti di essi.

Da un po’ di tempo, anche la multinazionale Fifa si è adeguata in tutto e per tutto alle sue colleghe: il business è più importante dell’etica. Da un lato, la Federazione calcistica internazionale può sostenere progetti d’inclusione sociale, campagne contro il razzismo e l’omofobia, e dall’altro stringere sorridente la mano di regimi che si fanno beffe di queste istanze progressiste. Certo, in un’epoca in cui si è scoperto che i grandi eventi comportano esborsi economici difficilmente sostenibili, le grandi nazioni occidentali sono sempre meno inclini a gestire tornei che si svolgono ogni quattro anni (due, se contiamo anche Europei e Olimpiadi), e infatti non è un caso che si vada verso tornei sparsi su più nazioni, come i prossimi Europei itineranti del 2020 o i Mondiali del 2026 condivisi tra Canada, Stati Uniti e Messico.

Ma c’è qualcosa di più profondo, una sorta di predilezione della Fifa per quei regimi che, a differenza dei nobili paesi democratici, possono assicurarti organizzazioni puntuali e standard di sicurezza altissimi: basta guardare dall’altra parte, per non imbattersi nei metodi poco ortodossi con cui ti garantiscono il regolare svolgimento dello spettacolo. In cambio del favore, la Federazione internazionale accetta di prestarsi alla propaganda del regime, restituendo al mondo un’immagine cool della Russia e del Qatar, come in un’operazione di riciclaggio che, al posto del denaro sporco, lava la reputazione. È un patto col Diavolo di cui, alla fine, siamo tutti compartecipi: gli sponsor e chi ne compra i prodotti, chi prende parte al Mondiale e chi lo segue, per lavoro o per diletto. Raccontandoci la solita vecchia storia: che sport e politica sono due cose separate.

 

Fonti

AFFOLTI Stefano, Il Mundial fantasma, Gente di calcio

ANDREOLI Lorenzo, Un calcio alla libertà: storie di Mondiali e dittature, SportFace

BERNINI Alessandro, La storia del Mondiale: Il 1934. Impera il nazionalismo fascista, ma l’azzurro brilla… Italia campione, Il Tirreno

CASTELLANI Massimiliano, Argentina 1978: Così i Mondiali di calcio coprirono i massacri di Videla, Avvenire

DE SANTOLI Toni, Italia 1934: Fu vera gloria?, La Voce di New York

LATORRE Juan Camilo, Calcio, dittature e propaganda, L’Undici

– LLONTO Pablo, I Mondiali della vergogna – I campionati di Argentina ’78 e la dittatura, Edizioni Alegre

MARIANI  Federico, Dall’El Dorado ai Narcos: Inferno e Paradiso dei Millonarios di Bogotà, Io Gioco Pulito

PARISI Alberto, “Benvenuti ai Mondiali della tortura e degli omicidi”, Today

SALTARI Dario, La tragedia invisibile di Qatar 2022, l’Ultimo Uomo

TOMMASI Alessandro, Quando picchiarono Zamora, La Repubblica

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