Il pallone nelle mani di Macron

“È una pessima idea politicizzare lo sport”. È iniziato così, con queste parole, il Mondiale di Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica francese, parlando a margine di un incontro avvenuto a Bangkok il 17 novembre, tre giorni prima del calcio d’inizio del torneo. Ed è finito con lui in campo, un mese e un giorno dopo, a consolare Kylian Mbappé dopo la finale persa, e subito dopo negli spogliatoi a dire ai giocatori della Francia di essere orgogliosi per aver fatto sognare milioni di loro connazionali. Un video, per intenderci, che è stato reso pubblico dallo stesso Macron sui propri canali social ufficiali. Oggi, il Presidente francese rappresenta meglio di tutti l’ipocrisia dei politici che parlano di sport.

L’ipocrisia, per esempio, del premier britannico Rishi Sunak, che pochi giorni dopo consigliava all’ex-calciatore e commentatore tv Gary Neville di parlare solo di calcio e non di politica. Bizzarro, visto che poi i politici non riescono a fare a meno di occuparsi di pallone. Perché in fondo è facile dire che non bisogna politicizzare lo sport: è un monito che i governanti occidentali (non ultimi quella della UEFA o della FIFA: era ben questo il succo della discussa lettera inviata da Infantino alle 32 nazionali partecipanti al Mondiale in Qatar) fanno soprattutto ai giocatori, di non immischiarsi nei loro affari. Ma non è poi diverso dall’uso arbitrario del termine sportwashing, la pratica di usare lo sport per ripulirsi il volto da accuse di violazioni dei diritti umani, solitamente rivolto come accusa a paesi non occidentali dalle tendenze fortemente autoritarie (dal Qatar alla Cina, dalla Russia all’Arabia Saudita), mentre lo stesso uso politico dello sport da parte delle democrazie occidentali sfugge alla stessa definizione. Resta un oggetto indefinibile, parte di una normalità che però nessuno vuole ammettere: i politici non politicizzano lo sport, eppure lo sfruttano.

Macron lo sa bene, perché la sua ascesa ha seguito da vicino quella del calcio. La sua vittoria elettorale nel 2017 è stata legittimata un anno dopo dalla conquista del titolo mondiale da parte della Francia. Una vittoria molto significativa, quella di una nazionale black-blanc-beur che il Presidente ha sfruttato simbolicamente per la sua propaganda: una Francia forte, vincente e multietnica, in opposizione alla visione razzista ed escludente di Marine Le Pen. E d’altronde una delle immagini di quel Mondiale è la sua fanciullesca esultanza in tribuna, a sbracciarsi in maniche di camicia, primo tra tutti i tifosi del paese. Cinque anni dopo, alle elezioni dell’aprile 2022, pochi giorni prima del voto ha probabilmente fatto uscire lui sui giornali la storia della sua amicizia con Mbappé, il miglior calciatore francese e uno dei migliori al mondo, giovane eroe dei ragazzi delle banlieues multiculturali ancora in attesa di un riscatto sociale che sempre più spesso deve avvenire attraverso il calcio.

Presenzia ai match decisivi del Roland Garros, alla finale dei Mondiali di calcio femminili del 2019 (tenutisi proprio in Francia), e ovviamente guarda con grande interesse ai prossimi Giochi Olimpici, che si disputeranno a Parigi nel 2024. Non stupisce allora che tre anni fa Olivier Beaumont e Pauline Théveniaud lo definivano su Le Parisien “Coach Macron”, il Presidente che si comporta come l’allenatore della nazione. Il suo approccio allo sport, sostengono i due giornalisti, guarda da un lato alla fidelizzazione dell’elettorato, a cui vuole mostrarsi, come sempre più spesso fanno i politici, come uno di loro; dall’altro alla diplomazia, uno strumento per stabilire contatti proficui con gli omologhi stranieri. “Per lui lo sport è soprattutto un mezzo per sfiorare il romanzo nazionale” scrivono Beaumont e Théveniaud.

15 luglio 2018: Macron esulta per il gol del primo vantaggio francese nella finale dei Mondiali sulla Croazia, allo stadio Lužniki di Mosca.

Pochi altri politici occidentali hanno politicizzato lo sport, e il calcio in particolare, quanto lui e con il suo medesimo successo. Per cui, le parole dette nel novembre 2022 sono prima di tutto una presa di posizione nei confronti degli altri; anzi, ancora di più un’implicita presa di posizione in difesa della Francia. Nello specifico, del capitano della nazionale, Hugo Lloris, che solo tre giorni prima in conferenza stampa aveva annunciato che non avrebbe indossato la fascia arcobaleno per “rispettare la cultura del Qatar”. Il portiere del Tottenham si era anche detto perfettamente d’accordo sul tema con il presidente della Federcalcio transalpina, il discutibile Noël Le Graët, un personaggio che a fine settembre aveva comunicato a L’Équipe, a nome della stessa federazione, di ritenere che Amnesty International stesse portando avanti una “campagna di stigmatizzazione” contro il Qatar.

Non è sfuggito a nessuno che tutta la Francia si è schierata in maniera compatta dalla parte di Doha: dalla stella Mbappé, che la scorsa estate accettava un controverso accordo con il PSG (peraltro, proprio dietro consiglio di Macron), al capitano Lloris, dal presidente della Federcalcio fino a quello della Repubblica, la nazione transalpina è stata l’unica a prendere addirittura le difese del regime del Golfo. E a ben vedere è così almeno dall’autunno 2010, quando secondo Joseph Blatter furono le pressioni di Nicolas Sarkozy (e Michel Platini, allora a capo della UEFA) a spingere il Mondiale del 2022 verso il Qatar, in cambio dello sbarco del fondo sovrano di Doha nel principale club di Parigi. Una grande convergenza di interessi sportivi e politici necessaria a proteggere l’alleanza strategica ed economica tra i due paesi, di cui oggi Macron è il principale garante. Dalle commesse militari per i caccia Rafale agli investimenti nel settore edilizio nella capitale, gran parte dell’economia francese oggi dipende dal denaro di Doha.

Ecco perché una conferma del titolo mondiale allo stadio Lusail sarebbe stata strategicamente importante. Ma, come segnala Claire Gatinois su Le Monde, Macron ha cercato lo stesso di trarre giovamento dalla sconfitta, ponendosi davanti alla squadra (ma soprattutto davanti al popolo francese) non solo come un membro del gruppo, ma come il suo vero leader. Si è fatto riprendere mentre parlava alla nazionale negli spogliatoi, come se fosse lui l’allenatore; subito dopo ha confermato Deschamps come ct, anche se questa sarebbe una prerogativa del presidente della Federcalcio. Non si può negare che, se lo stesso comportamento avvenisse in un altro paese – ad esempio, in Turchia – nessuno avrebbe problemi a lamentare le ingerenze inopportune del Presidente nella gestione dello sport (cose per cui la FIFA, altrove, ha dimostrato di essere pronta a comminare pesanti sanzioni). Ma siamo in Occidente, e questo ci appare stranamente normale.

Non a tutti, almeno. Su So Foot, Nicolas Kssis-Martov è stato piuttosto duro con il Presidente della Repubblica: “Il suo ruolo e la sua funzione non potevano manifestarsi in questo modo, in questo preciso momento, che non appartiene, nella tragedia e nella gloria, che ai giocatori ed eventualmente allo staff”. Macron vuole essere al centro dell’attenzione, vuole sottolineare al suo elettorato che lui e la Francia (del calcio e non) sono una cosa sola, ma il suo atteggiameno paternalistico arriva talvolta a sfiorare il protagonismo dispotico. La sua presenza nel calcio appare quasi sempre imposta a tifosi e spesso anche ai giocatori, come molti hanno sottolineato dopo le scene in campo con Mbappé. Ai suoi occhi, lo sport non è che “un prolungamento, un’estensione del dominio presidenziale” scrive ancora Kssis-Martov.

Macron durante un’amichevole per beneficenza, nel marzo 2021.

E allora perché non gettare la maschera e dirlo apertamente: quello che fa Emmanuel Macron è sportwashing. Certo, di sicuro non ha gravi e riconosciute violazioni dei diritti umani di cui farsi perdonare, e nemmeno è un governante autoritario (non potrà ripresentarsi alle prossime elezioni, essendo già stato eletto per due volte consecutive), eppure questa formula può essere applicata anche a lui, in un certo senso. Sicuramente deve riscattare la sua immagine davanti ad almeno una parte dell’elettorato: tra il secondo turno del 2017 e quello del 2022, ha perso circa 2 milioni di voti, mentre Le Pen ne ha guadagnati quasi 3. Le analisi demografiche raccontano che Macron va forte soprattutto tra gli elettori anziani, delle grandi città e con un reddito soddisfacente; all’opposto, gode di pochi consensi tra i giovani, i disoccupati, gli studenti, gli abitanti della provincia e delle periferie, i poveri. Una massa di votanti marginalizzati che Macron pensa di poter coinvolgere in quel grande romanzo nazionale attraverso l’identità sportiva e la promessa di vittoria che esso porta con sé. Lo sport che è al tempo stesso oppio dei popoli e strumento di relazione economica, con cui distrarre ma anche attraverso cui attirare investimenti. Lo sport per ri-costruire l’immagine della Francia, e quindi anche la propria. Non se ne può fare un uso più politico di questo.

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