Nei giorni che precedevano il ballottaggio delle presidenziali in Francia, la stampa locale ha svelato il retroscena dell’amicizia tra il Presidente in carica Emmanuel Macron e Kylian Mbappé, il più famoso calciatore francese in attività. Subito si è iniziato a dire che questa notizia fosse stata fatta volontariamente trapelare dall’ufficio stampa di Macron per attirare un po’ di voti in vista della sfida contro Marine Le Pen, che già aveva sconfitto nel 2017. E se questo era lo scopo, possiamo tranquillamente dire che ha funzionato, dato che Macron si era riconfermato prendendo il 58,5% dei voti (anche se erano molti meno rispetto a cinque anni prima). Poi però dev’essere successo qualcosa, perché appena due mesi dopo, alle elezioni legislative, il partito del Presidente ha perso 63 seggi, mentre quello di Le Pen è balzato da 8 a 89.
Spiegare un fenomeno complesso come un’elezioni politica attraverso la notizia dell’amicizia tra un candidato e un noto sportivo sarebbe chiaramente una semplificazione, ma non si può escludere che possa aver avuto un peso. E quindi qualcosa dev’essere successo: se il sostegno di Mbappé è servito a sconfiggere Le Pen ad aprile, perché non è bastato a farlo a giugno? Di sicuro i francesi non si sono dimenticati di questa storia in soli due mesi, anche perché Macron non ha perso l’occasione di ricordarla, stavolta addirittura parlando in prima persona. Forse il problema sta proprio qui, in ciò che ha detto nei giorni che hanno preceduto il voto legislativo, e in generale in quello che è successo attorno a Mbappé in quei due mesi tra un’elezione e l’altra: stiamo ovviamente parlando del suo discusso rinnovo con il Paris Saint-Germaine.
Breve ripasso: Mbappé aveva il contratto in scadenza, e aveva da mesi deciso di non rinnovarlo e di trasferirsi al Real Madrid; il PSG era rimasto fiducioso fino all’ultimo di riuscire a convincerlo, e al termine di maggio ci è effettivamente riuscito, formulando un’offerta che ha destato scalpore e scandalo. Si parla di un contratto triennale da 56 milioni di euro netti a stagione e 118 milioni di bonus alla firma, oltre a un potere decisionale senza precedenti nelle questioni tecniche del club. Un accordo che ha fatto discutere molto, che alcuni hanno definito – con non poca naïveté – “immorale”, e che è stato possibile solo per il fatto che il PSG è nelle mani della famiglia reale del Qatar, le cui possibilità di spesa sono apparentemente senza limiti.
Già nelle rivelazioni della stampa francese di aprile si era ipotizzato che Macron avesse approfittato del suo rapporto col calciatore per chiedergli di restare a Parigi. La motivazione era tutt’altro che sportiva – dato che il Presidente è notoriamente tifoso del Marsiglia, storico rivale del PSG – ma espressamente politica: mantenere il più forte calciatore francese nella Ligue 1, un campionato dal livello piuttosto basso e con tanti problemi di appeal che si riflettono anche sul lato sponsor e diritti tv, significava rinsaldare l’immagine del calcio transalpino, attualmente il migliore al mondo a livello di squadre nazionali. Ma quelle erano, ai tempi, tutte speculazioni, mentre a inizio giugno, in vista delle legislative, proprio Macron era intervenuto per fugare ogni dubbio: in un’intervista a Le Parisien, il Presidente confermava di aver telefonato a Mbappé per consigliargli di restare a giocare in Francia. Non una mossa da tifoso, ma da appassionato di calcio, aveva precisato Macron, anche se l’intento era ovvio: ricordare agli elettori francesi che, se potevano continuare a osservare la più grande stella del calcio mondiale nei loro stadi, era merito suo (sottinteso: non di Le Pen, che è sempre stata molto critica verso i calciatatori, soprattutto quelli di etnia mista).
Nel corso della sua ascesa politica, Marine Le Pen si è trovata spesso a parlare di calcio, non foss’altro perché tanti calciatori francesi non hanno in simpatia il suo partito. La sua posa è sempre stata quella della persona che non s’interessa di sport, ma questo non le ha mai impedito di applicare i suoi toni populisti all’argomento, solitamente cavalcando un certo malcontento verso i giocatori super-pagati, esponenti di un’élite sociale che rappresenta l’esatto opposto del tipo di elettore su cui vuole far presa (e spesso riesce a far presa) il Rassemblement National. Inutile dire che, se Macron è amico di Mbappé, lei non può che esserne distante, e lo aveva messo in chiaro già durante la campagna per le presidenziali. Interrogata da un giornalista a proposito del possibile trasferimento all’estero del giocatore, che all’epoca non aveva ancora rinnovato col PSG, aveva risposto che, una volta eletta Presidente, avrebbe fatto una tassa sulla ricchezza finanziaria, e che Mbappé avrebbe avuto “il piacere di pagarla”, detto con volutamente malcelata ironia.
Quindi, qui gli schieramenti sono abbastanza chiari e ben definiti: da un lato il fronte Mbappé-Macron, quello di un elettorato benestante delle grandi città, e dall’altro Le Pen, con i suoi elettori di provincia e tendenzialmente impoveriti dalla crisi, sempre meno tolleranti verso le élite ultra-ricche. E quindi anche verso un calciatore strapagato come Mbappé, che sarà anche un idolo dei francesi, ma che rappresenta anche un multimiliardario parigino al soldo di una potenza economica straniera (araba e fondamentalista musulmana, per giunta: una risorsa perfetta per la retorica di Le Pen) che anche nel mondo del calcio gode di scarse simpatie. Dopo il rinnovo di questa estate, il campione di Bondy ha iniziato a essere percepito come un’anomalia del sistema: un calciatore con un potere economico e politico smisurato ma in qualche modo “innaturale”, gonfiato dalle pacchiane ambizioni dei proprietari del PSG. Un mercenario, che dichiara amore a un club ma poi non ci si trasferisce perché un altro gli offre di più: emblema di una Francia senza valori, schiava del denaro. Per Macron, invece, l’attaccante rappresenta il simbolo del riscatto di un ragazzo della banlieue figlio di due immigrati: è il testimonial perfetto per il suo movimento.
Ma a livello sportivo, in questo momento Mbappé incarna sopratutto il Paris Saint-Germain, la squadra della capitale pompata dai petroldollari qatarioti, senza i quali fino a poco più di una decina d’anni fa non era niente. Un club che ha ucciso la competizione nella Ligue 1, perché nessuna società si avvicina anche solo lontanamente a reggere il confronto economico col PSG: il campionato francese è diventato un loro torneo d’allenamento in vista della Champions League, mentre tutte le altre squadre lottano per gli avanzi. Non solo sportivi, ma anche economici, perché i parigini inflazionano il mercato, fanno manbassa delle già scarse risorse economiche generate dal calcio locale e non hanno intenzione di sostenere uno sviluppo organico della Ligue 1, difendendo la loro posizione di privilegio. Lo sbarco dei qatarioti a Parigi, nell’estate del 2011, ha rafforzato solo il PSG e indebolito sotto ogni altro aspetto le sue avversarie.
Difficile non vedere il riproporsi, in questa dialettica perversa, di quell’opposizione divenuta ormai tipica della politica occidentale: da un lato le grandi città sempre più progressiste e cosmopolite, e dall’altro le province sempre più impoverite e conservatrici. Appoggiandosi a Mbappé, forse Macron ha commesso l’errore di sopravvalutare il peso positivo che il giocatore esercita sulla popolazione: egli è prima di tutto il campione di Parigi, e diventa quello della Francia quando gioca (e vince) con la Nazionale. Quando questo non avviene, Mbappé è più facilmente confuso con la capitale stessa, ricca e snob, che attrae risorse che il resto del Paese può solo sognare. Magari il rapporto tra il politico e il calciatore non ha avuto alcun ruolo concreto, né in positivo né in negativo, in queste elezioni, ma come sottrarsi a questo gioco intellettuale? Che pare perfetto, perché rimette al centro un problema attualissimo e ancora irrisolto: sarà anche vero che si governa dal centro (politico), ma non solamente con i (grandi) centri (urbani).
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