Pocho Gomorra

L’uomo che tutti cercavano fu trovato una sera che prendeva l’aria sul lungomare di Nizza, tranquillo come se vivesse in un’altro mondo. “Ultrà – gli dissero – sei in arresto!” E dalla Francia lo riportarono in Italia, e già sul blindato Ultrà pensava: “Mò basta, ci dico tutto”. E quando lo fecero scendere e lo portarono dinnanzi al magistrato, Ultrà disse tutto. E parlò anche di Pocho.

La storia inizia sette anni prima: è estate, e succedono due grossi affari. Per prima cosa, Pocho arriva in città: è un ragazzetto tarchiato che quando corre diventa una saetta; della città ne ha solo sentito parlare da lontano, ma il suo mito – ‘O Pibe de Oro – è anche l’idolo locale, e qualcuno azzarda già pesantissimi paragoni. La squadra di calcio del posto, i Partenopei, è appena tornata in Serie A, e ambisce a rinverdire i fasti di un tempo.

L’altra grande cosa è che il padre di Ultrà, ‘O Gran Capitone, finisce in manette. Pareva intoccabile: già a maggio l’avevano arrestato, ma in un paio di giorni era tornato a piede libero; insufficienza di prove, dolci parole! Ma stavolta è sul serio, e con ‘O Gran Capitone la famiglia perde l’uomo che l’ha resa quello che è: negli anni Settanta, coi suoi fratelli, si mise in testa di fare la rivoluzione ed entrò nella Nuova Famiglia, ribellandosi a Don Raffaè; poi, a guerra vinta, s’affiliò all’Alleanza di Secondigliano, e in breve divenne l’uomo che contava a Rione Miano. Quando la gente prese ad accastatare cadaveri su cadaveri a Scampia, pochi anni fa, fu a O’ Gran Capitone che chiesero di mediare per porre fine alla faida.

Ora, Ultrà ha preso in mano tutti gli affari di famiglia, dalla droga alle estorsioni, e ovviamente agli appalti; come Pocho, è un ragazzo che vive nel solco di chi è passato prima di lui. Quando ha un attimo corre allo stadio, rigorosamente in Curva A, dove sta la gente di Miano, ben separata da quella della Curva B, cioè di Rione Sanità e della Carogna, l’uomo più importante che ci sia sugli spalti. Ma ad Ultrà non interessa comandare dentro lo stadio, quanto farlo fuori: suo padre poteva starsene nelle prime file a teatro al Festival di Sanremo o in tribuna d’onore al Gran Premio di Montecarlo, e lui, piuttosto che starsene pigiato in curva, preferisce vedersi la partita da bordo campo, grazie ai favori di qualche amico che lavora per il club.

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Ultrà allo stadio, durante un derby del Sud.

E sempre grazie a un amico – Pepeccozze, che ha un ristorante alla moda sulla riviera, frequentato da tanti calciatori – Ultrà arriva a conoscere Pocho. Il ragazzetto non è che sia proprio pratico della città e pensa che in fondo anche a casa sua, in Argentina, ci sono alcuni tifosi un po’ più importanti degli altri, che in un modo o nell’altro gestiscono molti più affari di quanto sarebbe logico supporre. Viene da una cittadina alla periferia meridionale di Rosario, un po’ come Miano e Secondigliano stanno ai margini della città in cui vive ora, una città di mare che le ha relegate nell’entroterra.

Fatto sta che Ultrà ci tiene proprio a essere amico dell’erede del Pibe: il calcio conta tantissimo, lì da loro; ci sono tanti modi per guadagnarsi potere e rispetto, ma l’amicizia del fenomeno con la maglia numero 10 è il più comodo e il meno cruento che Ultrà abbia a disposizione. “Pocho, se tieni bisogno di qualcosa, chiama senza problemi” gli dice, e invece di dargli un foglietto con sopra un numero, gli dà un cellulare, “Il mio numero sta qua: usalo solo per chiamare me”. È una prova d’amicizia inequivocabile, un grande onore.

Così, in campo Pocho segna e soprattutto fa segnare, e i Partenopei tornano a far sognare i tifosi. La sera, quando deve festeggiare, va in una delle tante discoteche della città, consigliate dai veterani della squadra o dai tifosi più accaniti, ed è sempre l’idolo della festa. Finché una sera non incrocia la Carogna: “Tu qua non ci devi venire: questo posto non t’appartiene” lo avverte. Va bene divertirsi, ma nelle discoteche gira droga, ed è roba da cui un calciatore deve tenersi bene alla larga, per il bene della città intera: se lo ricordano tutti, come finì con il Pibe. E poi, la Carogna la droga sa che significa: gran parte della roba che arriva o che esce dalla città la controlla lui. Ma ciò che gli dà più fastidio è che lui sarà anche il capo-tifoseria più importante di tutti, ma Pocho non è amico fraterno suo, bensì del suo rivale. Arrivano quasi alle mani, prima che qualcuno lì separi e portì il calciatore fuori dal locale.

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La Carogna dirige la sua curva.

La notizia fa presto il giro della città, e la Carogna riceve un mandato di comparizione. No, non dal tribunale, ma da un’istituzione molto più temibile: Ultrà gli vuole parlare, alla sua corte a Miano. “Tu, Pocho, lo lasci stare. Tutta la città impazzisce per lui, quindi adesso ti ci vai a scusare. E poi non lo tocchi e non ci parli, o te la devi vedere con me.” Chiaro, ineccepibile: fuori dallo stadio, comanda Ultrà. Così la Carogna va da Pocho e si scusa: “Quello che ho fatto, l’ho fatto per te” si spiega. Pocho è un bravo ragazzo, non ama litigare – specialmente coi suoi tifosi – e tutto è alle spalle.

Il giovedì sera, il ragazzetto argentino si concede una visita a Secondigliano, per andare a vedere le partite di calcetto di Ultrà, da cui lo dividono pochi anni ma che fisicamente un po’ gli assomiglia, e pure lui – con le dovute proporzioni – la palla coi piedi la sa trattare mica male. Pocho dà anche qualche consiglio sportivo, già che c’è. Poi, altre sere, è Ultrà a farsi il viaggio fino a Posillipo, alla villona di Pocho, per giocare alla Play Station: sempre FIFA; perché entrambi, senza calcio, non ci sanno stare.

Ma dopo qualche anno, Pocho inizia a chiedere qualche soldo in più al suo club, e il Presidente non è uno che si può convincere come niente: è un uomo che s’incazza facile, che lavora nel mondo del cinema e ha sviluppato gli anticorpi alle prime donne. Quindi, quando Pocho chiede un aumento, i due iniziano a litigare e la faccenda finisce sui giornali; il Presidente prova a far passare il calciatore per un ingrato e un mercenario. Pocho chiede aiuto al suo migliore amico, come farebbe chiunque: “Ultrà, mi serve che la gente stia dalla mia parte. Amo questa città e questa squadra, mi sono sempre impegnato per loro: non merito forse un contratto migliore?”

Ultrà capisce perfettamente. Lo può aiutare, anzi è felice di farlo, “Ma tu mi devi fare un favore – premette – Anzi, una promessa: se finisce male e devi cambiare squadra, non ci tradire con i bastardi del Nord. Vattene all’estero, piuttosto.” E il patto tra i due è siglato. La domenica, per la prima volta nella storia, le due curve espongono lo stesso striscione: Pocho non si tocca. La tifoseria ha scelto il suo campo, il Presidente deve ingoiare il rospo.

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Lo striscione in difesa di Pocho, in una curva deserta per protesta contro il club.

Ma i Partenopei stanno vivendo un momento difficile, i risultati sono inferiori alle aspettative, e gli allenatori ruotano come le pale di un mulino. E, fuori dallo stadio, O’ Gran Capitone, dopo tre anni di 41bis, decide di parlare, e una scure si abbatte sulla famiglia. Al processo, tante condanne: Ultrà si prende vent’anni per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti. Fortuna sua, nessuno sembra sapere dove si trovi: chiede aiuto a Gigino Élite – uno che grazie a lui ha fatto fortuna e adesso dirige una gioielleria in centro – che gli fornisce un alloggio sicuro. Nel frattempo, una domenica è ancora allo stadio, a bordo campo come piace a lui, con il pass di un dipendente della ditta di giardinaggio che cura il manto. Le telecamere lo inquadrano involontariamente: sarà l’ultima sua immagine in quattro anni.

Poi, quando le maglie della giustizia iniziano a farsi strette come quelle dei difensori, Ultrà sceglie la fuga all’estero, e prima di scappare manda un suo uomo da Pocho con un ultimo messaggio: “Distruggi quel telefono che ti ho dato, è per il tuo bene”. L’ultimo pensiero prima della latitanza, Ultrà, ce l’ha per il calciatore amico per cui si tanto esposto. Pocho obbedisce, e i due non si sentiranno mai più. Andrà avanti a giocare coi Partenopei per altri due anni e poi, sempre più in rotta con il Presidente, sceglierà di andarsene; ovviamente, all’estero, perché una promessa è una promessa, soprattutto quando è fatta a un amico.


A Parigi, Pocho ha conquistato diversi trofei che, in Italia, gli erano sfuggiti. Dopo quattro stagioni, a 31 anni si è trasferito in Cina, dove ha chiuso la carriera nell’inverno del 2019.

Ultrà è stato arrestato nell’aprile 2014 in Francia, ed estradato in Italia. Ai giudici, ha detto: “Sono stato il mandante di tanti omicidi di cui non mi avete ancora accusato.” Tre anni dopo ha deciso di diventare collaboratore di giustizia; nel gennaio 2020, si è scoperto che gestiva ancora il clan dal carcere, dopo aver corrotto un agente della Polizia Penitenziaria.

Un mese dopo il suo arresto, appena prima di una finale di Coppa Italia a cui partecipavano i Partenopei, un giovane tifoso è stato gravemente ferito mentre si recava allo stadio: la Carogna ha così organizzato una protesta della curva, bloccando lo svolgimento della partita fino a che dirigenti e giocatori non hanno accettato di chiarire la situazione con lui personalmente, e ha così guadagnato fama a livello nazionale. Tre anni dopo, è stato arrestato per traffico di droga. Nella primavera del 2019 ha deciso di diventare un collaboratore di giustizia.

Questa è una storia vera, romanzata quel tanto che basta per farne una storia, e ispirata a diversi articoli di cronaca apparsi sulla stampa italiana.

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