Essere figli d’arte, nel calcio, non è più facile o più difficile che esserlo nella vita reale. Ci ricordiamo chi ce l’ha fatta e ci dimentichiamo tutti gli altri: per ogni Sandro Mazzola o Paolo Maldini ci sono un Edson Cholbi Nascimento o un Diego Sinagra. E poi c’è Jordi.
Quando nasce, la dittatura franchista è ormai alle corde. Barcellona è l’epicentro di una rivolta civile che germoglia nel Camp Nou, dove la dirigenza blaugrana ha scelto, nell’estate precedente, di dare il via a grossi investimenti per riportare il club a vincere lo scudetto che manca da quattordici anni. Da tre stagioni, in panchina siede il maestro del totaalvoetbal Rinus Michels, ma solo da questa stagione il Barcellona s’è impreziosito con due fuoriclasse assoluti: il peruviano Hugo Sotil e l’olandese Johan Cruijff. Il Profeta arriva in Catalogna, si porta con se la moglie Danny, con cui è sposato da cinque anni e da cui ha già avuto due figlie, Chantal e Susila. Danny ha da poco scoperto di essere incinta di un maschio, che nascerà a febbraio: i Cruijff, nel frattempo, si sono ambientati talmente bene a Barcellona che decideranno di chiamarlo come Sant Jordi, il patrono catalano, ma dovranno volare a registrarlo all’anagrafe di Amsterdam, perché Franco aveva vietato l’uso del nome in quanto possibile simbolo indipendentista. Pochi mesi dopo, il Barcellona avrebbe vinto il campionato.
La vita di Jordi trascorre per un po’ in Spagna, fino a che nel 1981 suo padre non riporta tutti in Olanda per sette anni, dove terminerà la carriera da giocatore tra Ajax e Feyenoord, per poi iniziare quella da allenatore. Nel 1988, accetterà di tornare a Barcellona per guidare la squadra catalana e Jordi, che al rientro nei Paesi Bassi era stato ammesso nei giovanissimi dell’Ajax, inizierà a giocare nella cantera del Barça. Gioca nello stesso ruolo di suo padre, come attaccante o centrocampista offensivo, e ha più o meno lo stesso fisico. Nel 1994, appena ventenne, sarà proprio Johan a farlo esordire in prima squadra.

È senza dubbio una promessa: nei due anni precedenti si è messo in mostra, sebbene giovanissimo, in Segunda División, e proprio nell’ultima annata è stato il miglior realizzatore della squadra allenata da Quique Costas, con 14 reti segnate che hanno piazzato il club all’ottavo posto in classifica. Il suo impatto in prima squadra è ottimo: a dispetto della giovane età e del fatto di essere solo un rincalzo, Jordi mette a segno 9 gol in tutta la stagione, tanti quanti Ronald Koeman e Hristo Stoichkov, i due migliori realizzatori del Barcellona. Davanti sembra avere un radioso futuro.
Il ciclo di Cruijff (inteso: Johan) però è ormai al capolinea: dopo sette anni di successi e di gioco sensazionale, la squadra sta calando, nel 1995 arriva solo quarta nella Liga e si ferma ai quarti di finale di Champions League, dimostrando di non essersi ripresa dalla durissima sconfitta della finale di Atene del 1994, contro il Milan di Capello. Nel maggio del 1996, a due giornate dalla fine della stagione, l’olandese lascia la panchina per problemi di salute al suo vice Carles Rexach e annuncia il ritiro. Jordi capisce che è venuto il momento di lasciare il nido e, in estate, passa al Manchester United per 1,4 milioni di sterline e quattro anni di contratto. “Era probabilmente un anno troppo presto, per quel trasferimento” dirà più tardi.
I Red Devils sono nel pieno dell’era di Alex Ferguson: Ryan Giggs, i fratelli Neville, Nicky Butt, Paul Scholes e David Beckham hanno già tutti fatto il loro esordio in prima squadra; Cantona è tornato dalla squalifica più in forma che mai; e, dopo il double della stagione precedente, il mercato estivo ha portato in dote al tecnico scozzese anche i norvegesi Ronny Johnsen e Ole Gunnar Solskjær, e il ceco Karel Poborský, stella dell’ultimo Europeo. Col senno di poi, si può dire che Manchester non è forse il contesto più adatto a lui: è una squadra con tanti giovani di talento e un gioco diverso da quello del Barcellona; in attacco, Jordi è chiuso da Cantona e Solskjær, e si deve riadattare a giocare interno a centrocampo oppure largo a sinistra, ma pure togliere il posto a Giggs non è cosa semplice. E di mezzo ci si mette anche un infortunio, che gli fa perdere gran parte della stagione.
Da qui in avanti, la sua carriera si arena. Gioca poco e senza brillare, e gli arrivi prima di Teddy Sheringham e poi di Dwight Yorke lo mettono sempre più ai margini della rosa di Ferguson, che nel frattempo vince quattro campionati, una FA Cup, due Charity Shield e la Champions League, che Jordi però non può festeggiare, perché a gennaio 1999 si è trasferito in prestito per sei mesi al Celta Vigo, dove però ha concluso poco. Nell’estate del 2000 ha 26 anni, l’età in cui devi decidere cosa vuoi essere da grande: lui, con tutto il pesante carico di aspettative che quel cognome si porta appresso, si trova invece a dover mettere un punto-e-accapo.

Ritorna alla sua amata Spagna: Vitoria-Gasteiz, nel cuore dei Paesi Baschi, dove ha sede il piccolo Deportivo Alavés. Non è l’Athletic Bilbao e non è nemmeno la Real Sociedad, bensì una squadra con alle spalle decenni di serie inferiori e che ha rivisto la Primera División solo nel 1998. L’anno prima, però, i biancazzurri hanno centrato un sorprendente sesto posto, che gli ha dato accesso, per la prima volta nella loro storia, alle coppe europee. Quindi, l’Alavés non sarà certo il Barcellona o il Manchester United, ma è comunque un’ottima piazza da cui ripartire.
Mané Esnal ha costruito una squadra solida senza grandi individualità ma con un buon collettivo. Tra i nomi più interessanti ci sono il terzino destro rumeno Cosmin Contra e la punta Javi Moreno, ma su tutti spicca soprattutto l’argentino Martín Herrera, miglior portiere dell’ultima Liga, chiusa dai baschi con la miglior difesa del torneo. Jordi fa parte dei nuovi arrivi (assieme Ivan Tomić, Delfí Geli, Josu Sarriegi, Jurica Vučko e Iván Alonso) che devono rinforzare la rosa in vista delle tre competizioni che si troverà ad affrontare, ma è indubbiamente quello da cui ci si aspetta di più: Esnal lo posiziona all’ala destra, ma gli dà possibilità di svariare sul fronte offensivo e diventare un valido sostegno per Javi Moreno.
Fin qui, l’Alavés è noto soprattutto per la sua solidità difensiva e un attacco che fa il necessario, ma nella nuova stagione le cose cambiano e, se in Liga arriva quasi a 60 reti complessive, in Coppa UEFA segna a raffica e specialmente in trasferta, dove riesce sempre a essere decisiva nonostante la condizione d’iniziale svantaggio: elimina in rimonta il Gaziantepspor per 4-3, espugna con un 3-1 lo stadio del Lillestrøm, e con lo stesso punteggio vince nuovamente in Norvegia ai sedicesimi contro il Rosenborg. Agli ottavi, a farne le spese dopo il 3-3 in Spagna, è l’Inter di Tardelli: la sconfitta nerazzura prende forma incredibilmente al 78′, quando Jordi avanza sul centrosinistra fino al limite dell’area e incrocia un rasoterra che, deviato da Bruno Cirillo, si insacca alle spalle di Frey.
Jordi segna ancora nel turno successivo, nella trasferta di Madrid contro l’altra sorpresa spagnola, il Rayo Vallecano, sconfitto a Vitoria-Gasteiz per 3-0. Poi in semifinale contro i tedeschi del Kaiserslautern, un vero e proprio show: in casa, Jordi mettea referto due assist e segna un gol, e l’Alavés passeggia con un 5-1: per il figlio di Johan è in assoluto una delle migliori partite in carriera, in grado di ipotecare un sogno, una finale europea conquistata contro ogni pronostico e da protagonista. Al ritorno resta in panchina, ma i baschi vincono lo stesso agevolmente per 4-1. Intanto, a Manchester, Alex Ferguson si mangia le mani: lui, che in carriera ha saputo valorizzare i giocatori come pochi, aveva fallito proprio con uno chiamato Cruijff.

Il match che assegna la coppa si disputa a Dortmund contro il fortissimo Liverpool allenato da Gérard Houllier, che nel turno precedente ha eliminato di misura il Barcellona, togliendo a Jordi una finale contro la sua prima squadra. In un quarto d’ora, però, Markus Babbel e Steven Gerrard indirizzano il trofeo verso l’Inghilterra, e la favola basca sembra essere giunta al capolinea. Esnal decide per un cambio, quando non siamo neppure alla mezzora del primo tempo: fuori un difensore, Eggen, e dentro un attaccante, Alonso, che una manciata di minuti dopo riapre la partita di testa. Grande gioia. Poi c’è un contropiede improvviso, in puro stile Liverpool, Owen è in porta, Herrera lo stende, l’arbitro fischia, e McAllister ripristina il vantaggio dei Reds. Stavolta è davvero finita.
Ma l’Alavés che entra in campo per la seconda metà di partita ha tutta un’altra testa. Cruijff garantisce ordine alla manovra, Contra continua è sempre più imprendibile sulla destra, e alla fine si sveglia anche Javi Moreno: due gol in tre minuti, appena fuori dagli spogliatoi; 3-3. Ma siccome il Liverpool è pur sempre il Liverpool, Robbie Fowler s’incunea facilmente in area e scossa il tiro del 4-3, “E stavolta è davvero finita” pensano tutti. Il cronometro dice che i minuti stanno esaurendosi, e inavvertitamente scatta l’ora di Cruijff, quella in cui uno col suo cognome ha il diritto e il dovere di dire la propria. Calcio d’angolo, appare dal nulla e salta, più in alto di quanto sarebbe stato logico aspettarsi, e schiaccia in rete un pallone a cui nessuno avrebbe dato un centesimo. Ed è 4-4 e supplementari, più di quanto qualunque tifoso basco avrebbe mai saputo predire.
La storia potrebbe, e dovrebbe, anche finire qui. Perché è crudele e cinico raccontare di una squadra di outsider che, dopo una stagione a giocare praticamente senza riserve, crolla ai supplementari di un match di fine stagione, perde due giocatori per espulsione e infine subisce un (golden) gol su autorete. È ingiusto raccontare che Jordi, dopo quella storica rete che lo ha metaforicamente ricongiunto al padre Johan, poi ritorni in un comodo anonimato, a un’infruttosa seconda campagna europea e una frustrante retrocessione in Segunda, a campionati mediocri con Espanyol, Metalurg Donetsk e Valletta. No, la storia è più bello e più giusto fermarla qui, come una serie tv interrotta prima della fine per mancanza di fondi: Jordi Cruijff segna il gol dell’insperato pareggio in finale di coppa della più autentica squadra di underdog al mondo. Il figlio del Profeta è andato a predicare tra i poveri, e i poveri lo hanno seguito, fino in capo all’Europa. È una gran bella storia.
Fonti
–BALAGUE Guillem, Jordi Cruyff on Johan, Man Utd, Barcelona and managing in China, BBC
–WILLIAMSON Dan, Jordi Cruyff and a career unfairly spent in the shadows, These Football Times