Charlie Roberts era capofila. Uscì dagli uffici della società con un quadro sottobraccio, seguito da tutti i suoi compagni, ognuno con qualcosa in mano, con l’intenzione di andarli a vendere al negozio all’angolo della strada, appena fuori dalla sede, come forma di autofinanziamento. Iniziava così il primo sciopero del calcio.
Roberts era uno dei simboli del calcio inglese: difensore, nato e cresciuto nel Nord del paese – laddove il football aveva smesso di essere lo sport dei giovani e ricchi borghesi ed era diventato quello delle masse popolari – nel 1904 era stato il primo acquisto del Manchester United allenato da Ernest Mangnall, quando ancora il club militava in Second Division. Era il capitano del club e una di quelle persone che erano disposte praticamente a tutto per difendere la propria causa, specialmente quand’era sacrosanta.
Quella mattina, mentre lui e i suoi compagni di squadra si stavano allenando allo stadio di Bank Street, avevano appreso da un giornale che la società li aveva sospesi tutti, a poche settimane dall’inizio del campionato. La loro colpa era quella di essere rimasti fedeli al sindacato, gli unici in tutta l’Inghilterra: due anni prima, Roberts era stato tra i promotori, assieme all’attaccante Billy Meredith, della nascita della Players’ Union, l’associazione dei giocatori che pretendeva dai club paghe più alte e gli stessi diritti di qualsiasi altro lavoratore; ma quando aveva iniziato a diventare troppo insistente, le società riunite nella Football Association e nella Football League decisero di mettere al bando il sindacato e riportare all’ordine i giocatori. Solo i ragazzi del Manchester United, che erano stati tra i principali artefici della Players’ Union, si rifiutarono di ritirare la propria iscrizione al sindacato. Roberts decise di andare a protestare negli uffici del club, ma i dirigenti, capita l’antifona, fecero in modo di non farsi trovare.
Il calcio inglese aveva abbracciato il professionismo, sebbene in maniera molto riluttante, nel 1885, ma l’idea che i calciatori fossero lavoratori comuni non andava genio a nessun proprietario. Le società dovevano avere il pieno controllo dei loro giocatori, e poterli usare come oggetti: attraverso un sistema chiamato retain and transfer, era il club a decidere dove, quando e se si trasferiva il giocatore; esso poteva essere messo fuori squadra ma senza possibilità di andare a giocare altrove, e anche quando il suo contratto scadeva doveva avere il benestare del club per firmarne uno con un’altra squadra, altrimenti restava dove stava, senza giocare e senza paga. E stipendio era una miseria, tanto che costringeva i calciatori a trovarsi parallelamente un altro lavoro sacrificando così tempo ed energie che avrebbero dovuto spendere negli allenamenti settimanali.

Già nel 1898 era stata fondata l’Association Footballers’ Union, che aveva accusato le società di calcio di sfruttare i giocatori: il professionismo aveva alzato notevolmente il numero di partite da disputare in un anno, e quindi anche i guadagni dei club, ma non per questo si erano alzati gli stipendi. La decisione della FA di fissare un tetto massimo dei salari pari a 4 sterline a settimana, fu la goccia che fece traboccare il vaso, perché rendeva di fatto il professionismo esistente solo come vantaggio delle società e non dei giocatori, che continuavano a guadagnare come se fossero poco più che dilettanti. A guidare la protesta, che aveva unito oltre 250 calciatori, c’erano due scozzesi, Jack Bell dell’Everton e John Cameron del Liverpool: non è un caso che sia i giocatori che i loro club provenissero dal Nord britannico, dove già da vari decenni calcio e istanze sociali andavano spesso a braccetto.
La AFU, però, ebbe vita breve: non fu mai riconosciuta, fu spesso osteggiata dai club, e nel 1901 si sciolse, dopo che la FA aveva approvato il tetto dei salari a 4 sterline settimanali. Ma la sua esperienza era stata fondamentale per la sindacalizzazione dei calciatori. Meredith, quando ancora giocava nel Manchester City, ne aveva fatto parte e, sei anni più tardi, era stato tra gli ispiratori della Players’ Union: era scozzese, una stella assoluta del calcio dell’epoca, e nel 1906 si era trasferito, assieme al connazionale Sandy Turnbull, centrocampista, dal City allo United, completando una squadra da sogno che, nel 1908, vinse il suo primo titolo nazionale.
Meredith non era solo uno dei più forti giocatori al mondo, ma anche un personaggio noto e politicamente molto schierato: aveva lavorato nelle miniere, da ragazzo, e aveva preso parte ad alcuni scioperi che ne avevano formato lo spirito di classe. Nel 1905 era stato accusato di avere tentato di corrompere il capitano dell’Aston Villa Alex Leake per fargli perdere una partita decisiva per il titolo, ed era stato squalificato dalla FA nonostante non ci fossero prove a suo carico; il Manchester City aveva promesso che avrebbe continuato a pagarlo anche durante la lunga squalifica, ma alla fine decise di lasciare perdere, e Meredith, in tutta risposta, scrisse ai giornali una lettera in cui spiegava che il tentativo di corruzione gli era stato commissionato dai dirigenti del club, rivelando anche altre pratiche illegali da tempo comuni al City, causando un terremoto che travolse tutto il club. Tra squalifiche, crisi dirigenziale e cessioni, i Citizens arrivarono alla retrocessione nel 1909.
Roberts e Meredith organizzarono una protesta senza precedenti nella storia dello sport: trovarono un campo e ogni mattina andavano ad allenarsi regolarmente coi loro compagni, per dimostrare che non era vero che non avevano voglia di faticare. La notizia si sparse, un fotografo venne inviato a vedere cosa stava succedendo e propose loro di scattare una foto, e Roberts, con istinto da grande sindacalista, prese una lavagnetta e ci scrisse sopra il nome della squadra: non Manchester United, visto che la società li aveva messi all’angolo, ma The Outcast FC, la “squadra degli emarginati”. La foto fece il giro del paese, e fu uno smacco terribile per la FA.
Negli ultimi vent’anni, gli scioperi erano divenuti una concreta realtà nella Gran Bretagna industriale, e non più solo nei lontani Stati Uniti. Il primo si era verificato già a fine Settecento, ovviamente in Scozia, ma un secolo dopo le proteste sindacali erano divenute sempre più diffuse e partecipate: nel 1888 erano arrivate a Londra con le fiammiferaie della Bryant & May, e l’anno seguente si erano spostate ai cantieri navali, allargandosi poi a Southampton (1890); nel 1898 avevano scioperato i minatori gallesi, e nel 1907 c’era stata un’altra protesta indetta dai lavoratori dei cantieri navali a Belfast. Ma nello stesso anno, per la prima volta, c’era stato uno sciopero al di fuori del settore industriale, quello degli impiegati della Holborn Empire Music Hall di Londra, che avevano incredibilmente ricevuto l’appoggio di molte importanti star della musica britannica dell’epoca.
Emarginare i giocatori del Manchester United, a costo di escludere la squadra dall’imminente stagione della First Division, sembrò la cosa migliore da fare per i propriertari dei club, per stroncare sul nascere quell’insubordinazione: in una prolungata prova di forza, i calciatori – che comunque di qualcosa dovevano pur vivere – avrebbero finito col cedere. Soprattutto perché solo un minima parte di loro era ancora schierata col sindacato, mentre la maggior parte aveva ceduto alle minacce dei club, decidendo che poco era comunque meglio che niente. Per questo divenne fondamentale l’intervento di Tim Coleman.
Prolifico centravanti inglese che l’anno prima aveva condotto l’Everton al secondo posto in campionato, Coleman raggiunse Meredith e Roberts e dichiarò pubblicamente la propria adesione alla Players’ Union. Il fatto che un altro giocatore, peraltro così popolare, si fosse schierato con il sindacato, ruppe la narrazione dei proprietari, secondo cui lo sciopero era solo un’egoistico ammutinamento di una sola squadra. Ben presto, altri calciatori rinnovarono la propria iscrizione alla Players’ Union, costringendo i club a fare le prime concessioni, per scongiurare un sciopero della categoria vero e proprio, che avrebbe potuto bloccare il campionato.
Fu solo l’inizio: ci sarebbero voluti quasi cinquant’anni prima che il sistema retain and transfer venisse abolito, e in mezzo altre battaglie sindacali furono combattute dai calciatori inglesi. Oggi, parlare di diritti dei lavoratori nel calcio fa storcere il naso a molti: la gente tende a identificare il calciatore con Cristiano Ronaldo e poche altre star strapagate, sottovalutando il fatto che la maggior parte del sistema è composto da giocatori di bassa categoria, che guadagnano molto meno per carriere che terminano di solito intorno ai 35 anni, lasciandogli spesso senza molte altre soluzioni lavorative. Si tende a tifare il club e non il giocatore, e si fa coincidere il club con il suo proprietario, dimenticandosi che, se un calciatore guadagna tanti soldi, il suo presidente ne guadagna molti di più, e infatti riesce a permettersi un’intera rosa di calciatori ben stipendiati. Nella dialettica lavoratore-padrone, a prescindere da quanto denaro circoli in un settore, il giocatore sarà sempre il lavoratore e il proprietario del club sempre il padrone.
Fonti
–MCMILLAN Ian, A forgotten part of Manchester United’s history, The Guardian
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