“Da calciatore pensavo molto, forse troppo. Pensavo che eravamo trattati benissimo ma bastava un calcio a un ginocchio per essere fuori da tutto.” – Bruno Nicolè
Ok, quali sono i momenti da ricordare? C’è la prima partita in Serie A, a soli sedici anni. C’è la prima rete, a diciassette anni e qualcosa. La firma con la Juventus, meno di un anno dopo. Il primo titolo – il primo di sette, per essere precisi – un campionato, vinto quando di anni ne aveva diciotto. Il primo gol in Nazionale; anzi, i primi gol, perché ne fece due, entrambi all’esordio, a Parigi contro la Francia, e anche lì di anni ne aveva solo diciotto. Il suo nome nella classifica del Pallone d’Oro, un mese più tardi. E poi, ovviamente, la vittoria del Bernabeu, la prima di una squadra italiana, nei quarti di finale della Coppa dei Campioni, e qui di anni ne aveva 22. Fine.
Un tempo, in italiano, Talento Sprecato non si pronunciava Antonio Cassano, ma Bruno Nicolè. Era figlio di un Veneto povero e affamato, ma pieno d’energie e di voglia d’andare di fretta, e la fretta è sempre una brutta bestia, se non la sai tenere a bada. A sedici anni era la nuova speranza di un calcio italiano che veniva dalla tragedia di Superga e dalle figuracce dei Mondiali del 1950 e 1954, e che di lì a poco avrebbe clamorosamente fallito la qualificazione a quelli del 1958; a ventitré era un giocatore sul viale del tramonto; a ventisette si ritirava per sempre e andava a vivere come uno qualunque.
Forse fu una particolare congiunzione astrale a farlo nascere proprio a Padova, una piccola città con un piccolo club, dove però lavorava un certo Mariano Tansini, un lombardo che la Serie A la conosceva bene, e aveva grande fiuto per il talento. Se è vero che tra la sventura e il suo opposto ci passa giusto una lettera, l’incontro tra Nicolè e Tansini aveva già un che di profetico: l’allenatore delle giovanili del Padova era stato una promessa, ai suoi tempi, tanto da arrivare in Nazionale e poi al Milan; sui giornali lo chiamavano Caviglia di Vetro, perché bastava un tocco un po’ scomposto e andava in frantumi. A ventisette anni, Tansini lasciava Milano per Napoli, e cinque anni dopo si ritirava, portandosi a casa tutte le promesse che aveva preferito tenere per sé.

Con Tansini, Nicolè vinse un campionato Primavera; altri allenatori gli avrebbero lasciato almeno un annetto ancora per farsi le ossa, ma Nereo Rocco, che sedeva sulla panchina della prima squadra, aveva visto quella fretta che il ragazzo si portava appresso, aveva pensato che doveva essere come un cavallo che ha voglia di correre e non ne vuol sapere di riposarsi nella stalla. Rocco, quando ancora faceva il centrocampista, aveva assistito alla fulminante ascesa di Gino Colaussi, con cui debuttò alla Triestina nel 1930, sebbene fosse di due anni più vecchio; al suo esordio, Colaussi segnò subito un gol al Bologna, divenendo il più giovane marcatore della storia della Serie A. Nicolè non segnò proprio all’esordio, ma fece comunque due reti in tutta la stagione, e oltre a Colaussi solo Amadei e Piola erano stati più precoci di lui. Una delle due la fece alla Juventus, Umberto Agnelli se ne innamorò e offrì in cambio al Padova 70 milioni di lire più una stagione di prestito dello svedese Kurt Hamrin. Rocco accettò la cessione, rammaricandosi che ci fossero voluti pochi giorni per concludere la trattativa, mentre ai suoi tempi la Juve aveva dovuto stare dietro a Colaussi per quasi dieci anni. Ventura e sventura: Colaussi arrivò a Torino a due anni dal titolo mondiale vinto in Francia, e dopo poche impalpabili partite la stampa lo definì “un limone spremuto”; due anni dopo fu scaricato al Vicenza, e a ventotto primavere la sua carriera era ormai avviata alla fine.
I presagi sembrano tutti chiarissimi, col senno di poi. Arrivò in una Juventus reduce dal deludente periodo di transizione di Sandro Puppo, e che ora puntava tutto sulla coppia d’attacco composta da John Charles e Omar Sivori; non potendo giocare centravanti, Nicolè fu spostato all’ala destra, ma sembrò non preoccuparsi della differenza. Nel 1958, Gipo Viani lo chiamò in Nazionale e ci fu quella famosa doppietta allo stadio Des Colombes, che lo rese il più giovane marcatore della storia degli Azzurri. Il giorno dopo, sul Guerin Sportivo Gianni Brera aveva fatto titolare “Habemus Piolam: Ni-co-lè?”. Maledetti giornalisti portasfiga.

Ma Bruno Nicolè dev’essere una persona che conosce l’ironia. Quando Gianni Mura lo incontrò, non molti anni fa, dalle parti di Vicenza dove smaltiva la pensione, si vide mostrare una tessera da giornalista pubblicista. Qualche pezzo, qua e là, ovviamente di sport; il grosso dello stipendio se lo era sempre portato a casa come insegnante di educazione fisica, anche se decisamente anticonvenzionale: ai suoi studenti faceva prima di tutto scrivere, cercava di insegnare a pensare, oltre che a sudare. Disse che la parte migliore della sua vita era stata quella come professore, non quella come fenomeno del pallone.
Fisico da atleta, da centravanti tipico, ma delicato: uno scontro troppo duro, e dritto in infermeria; e durante la convalescenza prendeva peso, e faticava a rientrare in forma e in squadra. E a Nicolè veniva da pensare che la vita del calciatore è proprio amara ed effimera: basta un niente e sei qualcuno, basta un niente e sei nessuno. Nel 1961 era ancora mezzo infortunato, uno stiramento muscolare che non pareva troppo fastidioso: Giovanni Ferrari lo convocò di nuovo in Nazionale, e gli annunciò di volergli affidare la fascia di capitano, facendolo diventare il più giovane della storia, e Nicolè non se la sentì proprio di perdere l’occasione. Tornò a casa con il record e una gamba dolorante. Due anni dopo andò a Mantova, ma tra un acciacco e un altro giocò appena 19 partite; lasciò la Lombardia e scese a Roma, sponda giallorossa, ma rimase un comprimario; ci riprovò alla Sampdoria, ma durò appena otto match. A venticinque anni era un giocatore di Serie B, con l’Alessandria che non tanti anni prima aveva lanciato tale Gianni Rivera, un ragazzo che aveva battuto il record di Colaussi divenendo il più giovane marcatore della Serie A solo dietro ad Amadei, e che poi era approdato al Milan allenato da Nereo Rocco, divenendone la stella.
Ma l’infortunio più grave è quello che non è negli archivi. Erano già un po’ di anni che Bruno Nicolè aveva deciso di abbandonare il calcio, solo che non aveva ancora trovato il coraggio di dirlo pubblicamente. Scendeva in campo e non si divertiva più, ripeteva meccanicamente qualche movimento che aveva ormai mandato a memoria. I suoi sogni di ragazzino si erano avverati in fretta, forse troppo, e ora si scopriva adulto e non si riconosceva più in quei palleggi, in quei completi maglietta e pantaloncino, in quel continuo ripetersi di allenamenti e partite e stagioni. Quando vedeva il suo nome prigioniero di statistiche e tabelle, un magone acidulo gli serrava la gola. No, basta – si disse – meglio chiuderla qui.
Fonti
–AGAVE Claudio, Bruno Nicolè, veloce come il vento, Contra-Ataque
–Bruno Nicolè, Il Pallone Racconta
–MURA Gianni, Nicolè, il bel centrattacco che pesava troppo: “Il calcio? Dimenticato”, La Repubblica