“Diede ai neri la speranza che ci fossero delle brave persone bianche.” – Desmond Tutu
Si era ripromesso che non avrebbe più allenato. Poco importava che il suo nome significasse football: Stanley Matthews, la leggenda assoluta del calcio inglese e il primo Pallone d’Oro della storia, in panchina aveva avuto una sola brutta esperienza, ma sufficiente a fargli dire basta, come una terribile delusione d’amore. Un paragone non così azzardato, in verità: il Port Vale era stata la sua squadra del cuore, avrebbe voluto giocare lì, da adolescente, se non avesse ricevuto un’offerta migliore dai rivali dello Stoke City. Appena appesi gli scarpini al chiodo, alla veneranda età di cinquant’anni, aveva subito accettato di allenare il Port Vale per salvarlo dalla bancarotta, accordandosi per venire pagato solo con il rimborso spese. Non servì a nulla, e due anni dopo il Port Vale fu espulso dal campionato; così i dirigenti gli chiesero di intercedere presso la Football League, perché senza campionato il club sarebbe fallito, e Matthews, che con gli incravattati signori del football non aveva mai avuto un bel rapporto, dovette mettere da parte l’orgoglio e implorare clemenza. Gliela accordarono, ma il Port Vale gli doveva ancora 9mila sterline; non era da gentleman fare troppe storie per del vile denaro, così decise di dimettersi dalla carica di allenatore della prima squadra per dedicarsi solo alle giovanili, per il tempo necessario a che la società saldasse il debito. Nel 1970, accettò solo 3mila sterline per chiudere la faccenda e lasciò il lavoro.
Erano passati cinque anni da quel giorno, e a Soweto la temperatura era ben diversa da quella dell’estate inglese. Lui ci era abituato, perché erano oltre vent’anni che girava per l’Africa, ogni estate, nella pausa del campionato, per allenare piccoli club dilettantistici locali. La prima volta era stato nel 1954, quando fu invitato dal governo sudafricano su suggerimento di Lubbe Snoyman, portiere dei Johannesburg Rangers che aveva conosciuto Matthews durante una tournée in Inghilterra l’anno prima, e disputò alcuni match con delle squadre locali. Poi, la cosa prese piede, e Sir Stanley si ritrovò a visitare il Mozambico, la Rhodesia, Zanzibar, il Kenya e la Nigeria, divenendo una sorta di ambasciatore del calcio. Nel 1957, toccò al Ghana, dove il presidente Kwame Nkrumah stava cercando di usare il calcio come collante culturale di un paese che aveva appena ottenuto l’indipendenza, e fece organizzare per Matthews alcuni incontri d’esibizione con la maglia degli Hearts of Oak, permettendogli di confrontarsi così con leggende del calcio africano dell’epoca come il regista James The King Adjaye e il suo “emulo” africano Baba Yara, detto The King fo Wingers, entrambi allora militanti nell’Asante Kotoko.

Ma quando tornò in Sudafrica, nel 1975, scoprì un paese molto diverso da quello che aveva conosicuto nel suo primo viaggio: la povertà e la miseria dell’Africa le conosceva bene, ma non sapeva cosa volesse dire vivere a Soweto, l’enorme sobborgo di Johannesburg cresciuto attorno alle miniere d’oro e trasformatosi presto in un ghetto nero in una città dominata da un 20% di bianchi. I bantu, che vivevano lì ben prima dell’arrivo degli europei, erano relegati ai margini della società, impossibilitati a usare le stesse fontane dei bianchi, gli stessi marciapiedi, gli stessi posti sugli autobus; nel corso degli anni Sessanta, la popolazione nera era stata sostanzialmente deportata nei sobborghi del sud del paese, i cosiddetti bantustan, e aveva bisogno di speciali passaporti per accedere alle aree urbane di inglesi e afrikaner. E ovviamente non poteva formare società sportive di nessun tipo, o praticare alcuno sport a livello professionistico. Un giovane politico comunista, Nelson Mandela, era in carcere già da dodici anni per essersi opposto alla segregazione razziale.
Il continente nero che lo aveva accolto non esisteva, in Sudafrica. Quella situazione gli evocava brutti ricordi, di quando, ancora giovane, il mondo stava vivendo lo spettro del Nazifascismo. Ricordava quella vergognosa partita che la Football Association organizzò in Germania contro la nazionale di Hitler, e prima del match i dirigenti inglesi scesero negli spogliatoi per dire che avrebbero dovuto salutare pure loro col braccio teso, in segno di rispetto verso il Führer. Era stato il momento peggiore della sua intera vita.
Così, tra le baracche di Soweto, Stanley Matthews decise di fare il più semplice e coraggioso atto che un uomo possa compiere davanti a una legge ingiusta: scelse di ignorarla. Come aveva fatto altrove, prese ad allenare una squadra di ragazzini, che venne simpaticamente chiamata The Stan’s Men, “gli Uomini di Stan”, pagando di tasca propria per l’attrezzatura e organizzando match contro altre squadre delle periferie nere di Johannesburg: i buoni rapporti con il Regno Unito erano troppo importanti, per il regime sudafricano, per intervenire contro una leggenda dello sport come lui; “finché se ne sta a Soweto – pensarono – non è affare nostro”.

Un giorno, Matthews chiese ai suoi ragazzi quale fosse il loro calciatore preferito, e questi risposero in coro “Pelé”, il fuoriclasse brasiliano che, all’epoca, aveva appena lasciato il Santos per chiudere la carriera ai New York Cosmos. Sir Stanley non ci pensò su troppo: “Andiamo in Brasile. Facciamo una trournée, come le squadre professionistiche”. In men che non si dica si accordò come sponsor con la Coca-Cola, e diede la notizia alla stampa; il caso esplose, per la prima volta una squadra dell’Africa nera andava a giocare fuori dal proprio continente e, sebbene la federazione sudafricana fosse bandita dalla Fifa, il presidente João Havelange pensò bene che non fosse il caso di porre alcuna obiezione alla trasferta. Così, neppure il governo del Sudafrica poté farci molto, se non mandare un paio di poliziotti sotto copertura a seguire la squadra. Anche la stella del Flamengo e della nazionale brasiliana Zico andò a incontrare i ragazzi di Sir Stanley, allenandosi assieme a loro. Si era appena aperta, per la prima volta, una crepa insanabile nel regime dell’apartheid.
Un anno dopo, in seguito alla decisione del governo di imporre la lingua afrikaans parlata dai colonizzatori in tutte le scuole al posto dell’inglese, Soweto divenne l’epicentro di una rivolta che durò dieci giorni, e fu duramente repressa dalla polizia, causando centinaia di morti e oltre mille feriti. In quel momento, tutto cambiò: le federazioni sportive di tutto il mondo iniziarono a boicottare le rappresentative sudafricane, a partire dalle Olimpiadi del 1976; nel 1977 il Commonwealth approvò l’isolamento sportivo del Sudafrica, mentre contemporaneamente entrava in vigore la convenzione dell’Onu che dichiarava l’apartheid un crimine contro l’umanità. Infine, nel 1990, il regime bianco crollava, dando spazio a libere elezioni vinte, nel 1994, da Nelson Mandela. Nel 1997, il Sudafrica vinceva in casa la sua prima Coppa d’Africa, con una squadra composta in maggioranza da giocatori neri. Molti dei misconosciuti pionieri del calcio sudafricano hanno ringraziato, negli anni, Stanley Matthews; Gilbert Moiloa, che iniziò a giocare negli Stan’s Man, lo definiì come “un uomo nero dalla faccia bianca”.
Fonti
–ANTHONY Scott, The Stanley Matthews football revolution made in Ghana, BBC
–GARDINER Susan, Stanley Matthews and politics, Footballand History
–HENDERSON Jon, Africa: Stanley Matthews – Wizard and King of Soccer, All Africa
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