“Se non siamo presenti anche nel calcio, siamo politicamente deboli.” – Recep Tayyip Erdogan
Quando da ragazzino, negli anni Sessanta, vendeva limonate per le vie del porto di Kasimpasa e sognava un futuro da calciatore, magari al Fenerbahçe, Recep Tayyip Erdogan non s’immaginava certo che, un giorno, sarebbe stato lui stesso ad amministrare il mondo del calcio e addirittura l’intera nazione. Nel 2003, pochi anni dopo essere uscito di prigione per incitamento all’odio religioso, diventava primo ministro grazie al partito da lui stesso fondato, Adalet ve Kalkinma Partisi – il Partito della Giustizia e dello Sviluppo – e iniziava una forte politica di accentramento dei poteri. Nel 2013, a causa di un progetto di demolizione del Gezi Park di Istanbul sorse una protesta molto partecipata, partita come ambientalista ed evolutasi come pienamente antigovernativa, concentrata nella vicina piazza Taksim, che fu duramente repressa dalla polizia e si concluse con 5 morti, 8mila feriti e oltre 2mila persone arrestate. L’anno seguente, dopo la modifica della legge elettorale verso un sistema presidenzialista, Erdogan vinceva nuovamente le elezioni e assumeva la carica di Presidente della Turchia. Nello stesso anno, l’imprenditore Goksel Gumusdag metteva insieme diverse aziende private legate da rapporti d’affari al governo e acquistava il piccolo e semisconosciuto Istanbul B.B., lo rinominava Istanbul Basaksehir – dal nome del quartiere in cui ha sede – e iniziava a costruire un club molto ambizioso.
Perché se c’è una cosa che a Erdogan, grande appassionato di calcio, è sempre mancato è stato proprio il supporto del mondo del calcio. Parte dell’opposizione più fastidiosa al suo ultradecennale governo si concentra proprio negli stadi: il Galatasaray e i suoi tifosi sono da tempo schierati con la loro bandiera Hakan Sukur, ex-centravanti dell’Inter e del Parma, messo all’indice dal governo in quanto fedele al “grande nemico” Fethullah Gulen; il Fenerbahçe è notoriamente il club delle classi popolari della capitale e vicino all’esercito turco, che dalla rivoluzione di Ataturk è la principale forza riformista del paese, e per tanto è da tempo una spina nel fianco del regime di Erdogan, come testimoniano i numerosi arresti che il governo ha effettuato tra i militari nel 2008 e dopo il fallito golpe del 2016. Aggiungeteci poi il Besiktas, che tra i propri supporters annovera il Carsi, un gruppo anarchico che non si occupa solo di calcio ma è molto impegnato in iniziateive sociali, in prima fila sia nelle proteste di Gezi Park che in quelle antigovernative del 2016, nelle quali promossero una tregua momentanea con gli ultras delle altre squadre per fare fronte comune contro il Presidente.

Il primo passo della conquista del football turco è stato mosso a casa sua, a Kasimpasa: dal suo arrivo ai vertici della politica nazionale, Erdogan ha iniziato a destinare fondi statali al club calcistico locale, favorendo la ristrutturazione dello stadio che ora porta il suo nome. Dal suo ritorno in Super Lig nel 2012, il Kasimpasa è passato dall’essere un club anonimo del calcio turco a una delle sue più solide realtà, centrando in due occasioni un sorprendente sesto posto. Oggi, il Kasimpasa vanta tra i suoi giocatori il trequartista egiziano Trezeguet, visto agli ultimi Mondiali, e da pochissimo anche il portiere in prestito dall’Udinese Simone Scuffet, e attualmente è settimo in campionato.
Ma il Basaksehir è tutta un’altra storia: ha alle spalle appena 29 anni di vita e, fino a poco tempo fa, era solo un minuscolo club di proprietà di aziende municipali di Istanbul, sito a una trentina di chilometri dal centro; poi il governo ha approvato una legge che ne imponeva la cessione a soggetti privati, e si è “fatta avanti” la cordata di Gumusdag, che ha rilevato la società per l’irrisoria cifra di 2,5 milioni di euro. Goksel Gumusdag non è solo un imprenditore che ha le mani su molti affari in Turchia, è anche iscritto ad AKP e sposato con una delle nipoti della moglie del Presidente. L’operazione è stata studiata talmente a tavolino che, mentre il club passava di proprietà, venivano anche terminati i lavori per il nuovo moderno stadio, intitolato all’ex-allenatore di Milan e Galatasaray Fatih Terim, e inaugurato ovviamente davanti a Erdogan in persona. Nei successivi cinque anni, il Basaksehir ha iniziato il proprio percorso d’ingresso tra le grandi del calcio turco, e oggi può vantare una rosa con nomi di prestigio come il portiere della nazionale Volkan Babacan, il difensore nazionale tedesco ed ex-Stoccarda Serdan Tasci, l’ex-terzino di Arsenal e Manchester City Gael Clichy, il centrocampista olandese ex-Juventus Eljero Elia, il regista svizzero già di Udinese e Napoli Gokhan Inler, l’ala di Atletico Madrid e Barcellona Arda Turan, e attaccanti molto noti del calcio internazionale come il togolese Emanuel Adebayor – ex di Arsenal, Manchester City, Real Madrid e Tottenham, Pallone d’Oro africano nel 2008 – e il brasiliano Robinho, con un passato in Real Madrid, Manchester City e Milan.

E, ovviamente, il capitano Emre Belozoglu, già centrocampista dell’Inter, per un po’ considerato un fedelissimo di Erdogan, ma di recente finito al centro di un’inchiesta che ha visto coinvolti anche il compagno di squadra Turan, un altro ex-Inter e oggi allenatore Okan Buruk, e una leggenda del Galatasaray come Bulent Korkmaz. L’accusa è quella di far parte di una “branca del footbal”, cioè un gruppo di calciatori e allenatori vicini al Fethullah Gulen e nemici dello Stato. Ma sono in buona compagnia: Deniz Naki, attaccante tedesco di origine curda in forza all’Amedspor, nel 2018 è stato squalificato a vita dalla Federcalcio turca per aver criticato le azioni del governo di Istanbul contro i curdi di Afrin; in passato, le sue posizioni vicine al Pkk gli erano quasi costate la vita, quando degli ignoti gli hanno sparato mentre si trovava in Germania. E, cambiando per un attimo solo rettangolo di gioco, il cestista Enes Kanter, sotto contratto coi New York Knicks, è stato condannato a quattro anni di prigione per aver definito Erdogan “l’Hitler del nostro secolo”.
Ma non è solo calcio, tutto il quartiere di Basaksehir è stato rimesso a nuovo dall’alleanza che sta dietro al club: il governo che ha gestito fondi e permessi, l’azienda telefonica Vodafone che ha risistemato la rete di comunicazioni, il colosso ospedaliero Medipol che gestisce la locale clinica all’avanguardia, le banche Deniz e Ziirat che elargiscono prestiti e finanziano i progetti edilizi, a loro volta appannaggio della potente azienda di costruzioni Fuzul, favorita dal nuovissimo aeroporto finanziato da Turkish Airlines. Tutti sponsor con le mani in pasta nel club e nel quartiere, oggi divenuto un fiore all’occhiello della nuova Istanbul di Erdogan, islamista e conservatrice col mito dell’Impero Ottomano.

Nei suoi primi quattro tornei di Super Lig post-rifondazione, il Basaksehir si è piazzato sempre tra le prime quattro – due volte quarto, poi un secondo posto, quindi un terzo – ha disputato una finale di coppa nazionale persa ai rigori, una fase preliminare della Champions League, tre fasi preliminari e una fase finale dell’Europa League. E attualmente è primo in Super Lig, con sei punti di vantaggio sul Galatasaray campione in carica. Ma a pochi sembra importare, almeno per ora: la squadra plasmata in questi anni da Abdullah Avci, ex-tecnico della nazionale, a dispetto dei risultati ha ancora pochissimi tifosi. A fronte di uno stadio modernissimo da 17mila posti – in cui ogni match viene introdotto dalle immagini dei caccia turchi in azione in Siria – la media spettatori è di circa 5mila persone a partita, più del doppio di quanti ce ne’erano prima della rifondazione, ma pur sempre pochissimi, in grado di riempire meno di un terzo dello stadio. Tutti gli altri tifano quasi esclusivamente contro: il Basaksehir è la squadra del governo e degli estremisti islamici, in una città che invece da guarda da tempo – sia geograficamente che socialmente – all’Europa e al progressismo.
Ma il grande (e costoso) progetto di propaganda a mezzo pallone di Erdogan prosegue spedito e punta allo scudetto, e al conseguente sbarco nell’Europa che conta della Champions League, per aggiungere un altro tassello alla sua immagine. Perché il calcio è da sempre il più potente strumento di consenso al mondo, a prescindere dalla latitutidine o dall’epoca storica. E, in mano a dittatori o aspiranti tali, non è più tanto oppio dei popoli, ma “una macchina per produrre nazionalismo, xenofobia e pensiero autoritario”, per dirla con le parole del premio Nobel Orhan Pamuk.

Nell’immagine di copertina, Recep Erdogan in campo con la maglia del Basaksehir, il giorno dell’inaugurazione del nuovo club. Scelse d’indossare la maglia numero 12, poiché di lì a poco sarebbe stato eletto dodicesimo Presidente della Repubblica Turca. Dopo quel giorno, la maglia numero 12 del Basaksehir è stata ritirata.
Fonti
–ANSALDO Marco, Erdogan football club, i più fischiati di Turchia, La Repubblica
–BOTTARO Bruno, Le quattro anime di Istanbul, Rivista Undici
–FARINA Michele, La squadra pro Erdogan vince in Turchia anche senza tifosi, Corriere della Sera
–MASCIALE Giuseppe, Perché il calcio deve avere paura di Erdogan, Contrasti
–SERAFINI Luca, Lo sport è politica in Turchia, Rivista Undici
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