La fuga di Enrique Guaita

“Vegliate, o guaite, intorno al re prigione. / Egli era al lato dell’imperadore, / era lo specchio della sua persona. / Egli correva mare e terra in armi.” – Giovanni Pascoli

Era vestito completamente di nero e con una eleganza che non era abituale tra i direttori carcerari della Pampa. Così come il vestito, anche il volto di quell’uomo aveva qualcosa di funereo, con quel volto pallido, quasi marmoreo, ma dai lineamenti bellissimi: il naso regolare, le labbra sottili, rosse come il corallo, una fronte ampia solcata da una leggera malinconica ruga. Più o meno così, nel 1898, Emilio Salgari descriveva il protagonista del romanzo Il Corsaro Nero; non aveva idea di quanto questi tratti assomigliassero a quelli di un uomo che sarebbe nato ben dodici anni più tardi, e che avrebbe concluso i suoi giorni in povertà a Bahía Blanca negli anni Cinquanta del Novecento. Laggiù, era stato conosciuto come El Indio, decenni prima di finire alla scrivania della prigione – dal lato che non necessita di manette – mentre gli italiani lo avevano soprannominato proprio il Corsaro Nero, ma per l’anagrafe era Enrique Guaita.

Gli eventi che lo avevano portato dall’essere l’ala destra più forte del mondo al fumare distrattamente sigarette alla finestra di uno sperduto carcere argentino sono un’epopea troppo rocambolesca per essere credibile. Da quella finestra, fumando per ingannare il tempo più che per vizio, vedeva una strada lontana, oltre le alte mura, occasionalmente solcata da un’automobile. Per quanto poche potessero essere, erano lo stesso più di quelle che si vedevano in Italia negli anni Trenta: ricordava il rumore pesante e fiero del motore della Lancia Dilambda, e il teso silenzio che lo sovrastava. Roma – Santa Margherita Ligure, in tre senza dirsi una parola che non fosse pura snervante circostanza. Gli altri due erano Alejandro Scopelli e Andrés Stagnaro, entrambi più vecchi di lui di qualche anno, ma non per questo più tranquilli.

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Erano arrivati assieme in Europa solo due anni prima, facendo a ritroso il percorso dei loro nonni. A Roma c’era un signore di nome Renato Sacerdoti che voleva fare grande una squadra di calcio che portava il nome della capitale italiana, e aveva puntato tutto su quei tre oriundi; loro lo ripagarono con due stagioni di altissimo valore, Guaita su tutti, al punto da essere uno dei pilastri degli Azzurri campioni del mondo nel 1934. Durante una gara contro il Livorno segnò una tripletta, e le sue scorribande in maglia nera – che la Roma aveva dovuto indossare per distinguersi meglio dagli avversari amaranto – gli valsero il nomignolo salgariano. Anni dopo, quel romanzo gli capitò sottomano e ne lesse qualche pagina: il vero nome del Corsaro Nero era Emilio di Roccabruna, signore di Ventimiglia. Ventimiglia l’aveva vista solo una volta, quella volta: a Santa Margherita, i tre avevano abbandonato l’auto ed erano saliti su un treno che puntava al confine. Poche ore dopo, qualcuno telefonò alla sede della Roma: Guaita, Scopelli e Stagnaro erano stati visti a Ventimiglia, a salire su un treno diretto in Francia; si sarebbero poi imbarcati a Marsiglia, per fare ritorno in Argentina. Così, senza dir niente a nessuno, in fuga come dei ladri. Ci aveva pensato più di una volta, a tornare in Italia, ma non poteva; era un criminale laggiù, accusato di traffico di valuta: non potendolo punire, Mussolini aveva deciso d’infangarlo, e alla nuova Repubblica che sorse dopo la guerra sembrava importare ben poco della sua riabilitazione.

L’aria, in Italia, si stava facendo pesante, ai tempi in cui giocava. D’improvviso, certe persone venivano considerate non più bene accette; Sacerdoti, che pur dieci anni prima aveva preso parte alla Marcia su Roma, ora veniva insultato sulla stampa come “ebreo e contrabbandiere”, ed era stato costretto ad abbandonare la presidenza del club. Ogni giorno, i quotidiani e la radio tuonavano contro il vecchio nemico etiope – reo di essersi difeso con ogni mezzo e aver infine umiliato le truppe italiane nel 1896 – e per le strade si respirava il rancido odore della guerra imminente. Quella mattina di fine settembre, poco prima dell’inizio del campionato, i tre argentini avevano sostenuto la visita di leva ed erano stati ritenuti idonei a far parte del Corpo dei Bersaglieri. Gliel’avevano spiegato più e più volte che non c’era di che temere, che era solo una formalità e che i calciatori in guerra non ci finivano, ma vai a sapere. Aveva visto come trattavano gli ebrei, che erano italiani nati in Italia da lunghe generazioni di italiani nati in Italia, alcuni perfino noti sostenitori del Fascismo; cos’avrebbero potuto pensare di lui, che d’italiano aveva giusto il nome? Il 2 ottobre, Mussolini disse che con l’Etiopia si era pazientato fin troppo, e guerra fu. Ma gli argentini erano già partiti.

Stagnaro aveva convinto i dirigenti del suo vecchio club, il Racing de Avellaneda, a ingaggiare quei tre fuggitivi, di cui ormai in Italia si diceva peste e corna (Il Littoriale scriveva: “Di pecore travestite da leoni non abbiamo bisogno. Siamo contenti di questo gesto come di una liberazione.”), ma durò poco. A soli ventinove anni, dopo essere tornato all’Estudiantes, decise che valeva la pena di smetterla lì. Aveva ceduto a un’immotivata paranoia, buttando all’aria una brillante carriera? O era forse stato prudente, e se n’era andato appena in tempo, prima che fosse troppo tardi e che qualcuno gli chiedesse di schierarsi da una parte del conflitto che di lì a poco avrebbe travolto l’Italia? Rimorsi e rimpianti che durano una boccata di sigaretta.

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Nel 1955 una giunta militare prese il potere in Argentina, abrogò la Costituzione e mise fuori legge i partiti peronista e comunista; chi rivestiva qualche posizione di potere, anche piccola come quella del direttore di un carcere, fu sostituito senza troppi complimenti. Povero e disoccupato, Enrique Guaita non riuscì mai a lasciare Bahía Blanca. Qualche anno dopo, il suo ct Vittorio Pozzo arrivò a Buenos Aires con l’obiettivo di rintracciare quelli che erano stati i suoi oriundi – Luis Monti, Atilio Demaria, Renato Cesarini – ma Guaita dovette declinare l’invito; non gli scrisse che era gravemente malato e, anche se la salute gli fosse stata amica, non aveva abbastanza denaro per raggiungere Buenos Aires. Morì nel maggio 1959, troppo giovane, come si conviene ai pirati.

 

Fonti

AA VV, Guaita Enrico: Ascesa e caduta del Corsaro Nero, Storie di Calcio

BOCCHIO Mario, Bianco&Nero. Oriundi al tempo del Fascismo: ascesa e fuga di Enrique Guaita, Barbadillo

-BRIZZI Enrico, Vincere o morire. Gli assi del calcio in camicia nera 1926 – 1938, Laterza

CERASUOLO Gianni, Guaita, il bomber disertore, SuccedeOggi

ZUCCHIATTI Mattia, Enrique Guaita, la guardia carceraria campione del Mondo e la sua fuga avvolta nel mistero, Io Gioco Pulito

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