“Ripeto ciò che ho sempre detto: voglio il meglio per l’Argentina, in ogni modo. Non ho mai cercato di creare problemi a qualcuno.” – Leo Messi
1-1 con l’esordiente Islanda. 0-3 con la Croazia. A una partita dalla fine dei gironi, l’avventura dell’Argentina ai Mondiali di Russia pare essere già finita, e il colpevole additato da tutti non può che essere lui, Leo Messi. Nel Mondiale finora dominato dai gol di Cristiano Ronaldo, l’inconsistenza del suo grande rivale è la notizia più clamorosa.
Il leit-motiv è sempre lo stesso. Lo ripetevano pure l’altra sera, a ogni passaggio a vuoto degli argentini e a ogni gol o quasi-gol dei croati: Messi, con la nazionale, non combina niente. Niente, a parte due ori con le giovanili (al Mondiale Under-20 del 2005 e alle Olimpiadi del 2008), tre secondi posti alla Copa America (nel 2007, nel 2015 e nel 2016) e un secondo posto al Mondiale 2014. Certo, i titoli con l’Albiceleste scarseggiano, ma proviamo a mettere questi risultati in prospettiva: prima di lui, l’Argentina aveva ottenuto appena due argenti olimpici (nel 1928 e nel 1996, quando perse clamorosamente la finale con la Nigeria) e un oro nel 2004. Quattordici Coppe America, ma quasi esclusivamente concentrate tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta: tra il 1960 e oggi, la nazionale sudamericana vanta appena due titoli continentali, nel 1991 e nel 1993. Quattro le finali mondiali, due perse e due vinte (di queste, una vinta nel Mondiale della Vergogna del 1978).

Si dice che non regge il paragone con la Leggenda, Diego Armando Maradona, incarnazione suprema del calcio per gli argentini (e non solo per loro). Ma se dobbiamo fare un confronto sui numeri in nazionale, scopriamo che non sono poi così distanti: Maradona si è fermato sul gradino più basso del podio continentale, e non ha mai conseguito titoli olimpici. Maradona vanta 34 reti in 91 ncontri ufficiale con l’Argentina, mentre Messi è a quota 64 in 126 partite, ma basta un’elementare proporzione per notare come Leo abbia una media realizzativa di gran lunga superiore a quella di Diego. La differenza tra i due è solo il Mondiale vinto. Di più, la differenza tra i due è di soli 90 minuti: i 90 minuti in cui Maradona e compagni sconfissero 3-2 la Germania nel 1986, e i 90 minuti in cui Messi e compagni cedettero col medesimo scarto (1-0) sempre contro la Germania nel 2014. 90 minuti, due gol di differenza. Ecco il confine tra mito e sconfitta.
Perché Leo Messi, in verità, per l’Argentina c’è sempre stato: capocannoniere e miglior giocatore del Mondiale Under-20 del 2005; miglior marcatore della squadra (assieme a Lavezzi, Di Maria e Aguero) alle Olimpiadi del 2008; miglior giocatore del Mondiale 2014; miglior giocatore della Copa America 2015 (premio poi rifiutato, per non essere riuscito a vincere il torneo) e miglior marcatore argentino nella Copa America 2016. E, se non fosse stato per quella straordinaria prestazione in Ecuador all’ultima partita delle qualificazioni (al termine delle quali ha chiuso, tanto per cambiare, come miglior realizzatore della sua squadra), l’Argentina, a questi Mondiali, nemmeno ci sarebbe.
Eppure tutto questo non basta. Messi resta quello che, in nazionale, non combina nulla. Poco importa che l’Albiceleste continui ad avere l’imbarazzo della scelta in attacco e lacune clamorose in altri reparti del campo. Poco importa che, quando Messi è impalpabile, lo stesso si potrebbe dire delle altre numerose stelle argentine, che però fanno meno scalpore, attirano meno critiche e meno inquadrature. A ogni gol o quasi-gol della Croazia e ad ogni passaggio a vuoto dell’Argentina, le videocamere correvano ad inquadrare il suo volto, e i cronisti si arrabattavano nel tentativo di leggerci qualcosa: la delusione, lo sconforto, la tristezza, la depressione, lo scoramento. E, seguendo le immancabili regole di montaggio di Sergej Ejzenstein, la regia correlava il suo enigmatico volto con quello indiscutibilmente shockato dei tifosi sugli spalti: l’eroe che fallisce, e il suo popolo che soffre. C’è un che di tragicamente epico, in tutto ciò, degno più della mitologia scandinava che di quella latinoamericana.
E se invece, semplicemente, i problemi dell’Argentina fossero altrove, e fossero magari storici: quella di una nazionale di fenomeni che, il più delle volte, fallisce l’appuntamento con la gloria iridata? E se Leo Messi, dopo tutta quella sequela di prestazioni decisive, di imprese da Salvador de la Patria – in attesa che anche il resto della squadra prendesse a giocare come ci si aspetta – si fosse semplicemente stancato? Stancato di essere sempre decisivo e, quando non ci riesce, sentirsi dire che in nazionale non s’impegna, non lascia il segno, è un pesce fuor d’acqua? Forse questa è una tragica storia d’amore, prima che di calcio: quella di un amante come ce ne sono pochi, che ha sempre fatto di tutto e di più per la sua querida, vedendosi però rinfacciato ogni minimo errore; la storia di un amore mai pienamente corrisposto, mai pienamente in equilibrio, sempre un poco tossico. Lei forse non ti merita, Leo, ci hai mai pensato?
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