Come sarebbe un Black History Month del calcio italiano

Ottobre, nel Regno Unito, è il mese dedicato alla celebrazione dell’eredità nera nel paese, il cosiddetto Black History Month. Anche il mondo del calcio partecipa tradizionalmente all’evento, con i club che ricordano i loro grandi campioni afrobritannici del passato. La stessa iniziativa è presente negli Stati Uniti e in Canada, anche se si svolge a febbraio e, ovviamente, vede altri sport in primo piano. Non c’è invece nulla di simile in Italia (ma neppure in altri paesi non anglosassoni, come la Francia), sebbene le persone nere siano presenti nella Penisola fin dall’epoca romana, e alcune hanno anche avuto un ruolo determinante nella storia del nostro paese (si pensi all’eroe risorgimentale Andrea Aguyar). Questo non impedisce di poter provare a tracciare una bozza della black history almeno del calcio italiano (per una storia nera italiana più ampia, la responsabilità la lasciamo ad altri esperti). Difficilmente qualcosa del genere si realizzerà mai, ma questo articolo vuole essere soprattutto uno spunto di ricerca, perché le storie dei primi calciatori neri in Italia sono quasi sconosciute e largamente ignorate, quando non avvolte nel mistero.

I pionieri: da La Paz a Montuori

La storia di Roberto Luiz La Paz è quella da cui è necessario incominciare. Centrocampista uruguayano nero nato nel 1919, arrivò in Italia nel 1946 e finì a giocare in Serie C con la Frattese. L’anno successivo fece il salto al Napoli, dove giocò un campionato in Serie A e poi uno in Serie B, mettendo assieme 33 presenze e 6 gol, e diventando quindi il primo calciatore di colore professionista in Italia. Tuttavia si sa pochissimo di come arrivò nel nostro paese e di come si svolse la sua carriera qui da noi: di sicuro, dopo la promozione in A del 1949 La Paz si trasferì in Francia, vestendo poi le maglie di Olympique Marsiglia, Montpellier e Monaco, ritirandosi dal calcio nel 1953. Cosa gli successe in seguito è ignoto, e oggi il suo nome sopravvive essenzialmente grazie a un piccolo club antirazzista di Parma, che ha deciso di chiamarsi proprio La Paz.

Nonostante la maggiore fama, contraddizioni e lacune circolano anche attorno alla figura di Miguel Ángel Montuori, attaccante argentino scovato dalla Fiorentina in Cile nel 1955 e poi diventato anche un giocatore della Nazionale italiana, in quanto oriundo. Prima che uno sfortunato incidente ne troncasse prematuramente la carriera nel 1961, a soli 28 anni, Montuori era stato una delle stelle della Serie A, e sebbene sia generalmente poco ricordato aveva origini afroargentine, probabilmente da parte di madre (ma la sua storia famigliare è ancora abbastanza oscura). Questo fa di Montuori il primo nero ad aver giocato con la maglia azzurra, retrodatando di ben 45 anni questo evento (generalmente attribuito all’esordio di Fabio Liverani, nel 2001). Ma non solo, perché il 28 febbraio 1959 a Montuori fu anche assegnata la fascia da capitano: è quindi anche stato il primo capitano nero dell’Italia. Per vedere un’altra volta un giocatore afroitaliano in questo ruolo si è dovuto attendere il 7 ottobre 2020, quando Stephan El Shaarawy – di origini egiziane – è stato capitano in un’amichevole contro la Moldavia.

Non vanno poi dimenticati, tra i pionieri di questa storia nera del calcio italiano, i fratelli Luciano e Italo Vassallo, figli di un militare italiano e di una donna eritrea ai tempi dell’occupazione coloniale. Pur non avendo mai giocato in Europa, i Vassallo erano cittadini italiani, e vestendo la maglia dell’Etiopia (che all’epoca inglobava anche l’Eritrea) vinsero una storica Coppa d’Africa nel 1962, torneo di cui Luciano fu tra i migliori giocatori. Ebbero poi dei problemi con il regime di Menghistu, che costrinsero Luciano a lasciare il proprio paese per trasferirsi a vivere dalle parti di Roma, dov’è poi morto nel 2022, un anno dopo il fratello minore, che lo aveva raggiunto in Italia. Luciano Vassallo è stato uno dei più grandi calciatori africani della storia, e se davvero ci fosse un Black History Month italiano, la FIGC dovrebbe farne il proprio simbolo delle celebrazioni.

Luciano Vassallo (a sinistra) in tempi recenti, accanto a Gianni Rivera, il primo italiano di nascita a vincere il Pallone d’Oro.

I primi stranieri neri in Serie A

Spesso si tende a pensare che l’arrivo dei giocatori di colore nel campionato italiano sia un fenomeno molto recete, e lo si fa risalire in particolare all’approdo del giovane ivoriano François Zahoui all’Ascoli nel 1981, dopo la riapertura delle frontiere. Zahoui era un trequartista ventenne che rimase in bianconero due stagioni, giocando una manciata di partire senza lasciare grandi ricordi. In realtà, Zahoui è stato solo il primo africano nero della Serie A, che già negli anni Sessanta aveva però annoverato diversi afrolatini. Questo fenomeno esplose nell’estate del 1962, dopo che il Brasile aveva vinto in Cile il suo secondo titolo mondiale: l’Inter portò in Italia la riserva di Garrincha, l’ala destra Jair, che diventerà una delle stelle del club nerazzurro, ma Milan e Napoli gli andarono a ruota, ingaggiando rispettivamente Germano e Cané. Il primo partì bene, venne prestato al Genoa ma lì trovò poco spazio, poi ebbe un incidente d’auto che lo tenne a lungo lontano dai campi, e nel 1965 tornò in Brasile. Cané invece diventò un idolo dei tifosi partenopei, e restò in Italia come allenatore per tutto il resto della sua vita.

Nel 1963 altri due calciatori neri arrivarono in Serie A. La Juventus acquistò Nené, che disputò un’ottima stagione e venne poi preso dal Cagliari, con cui vincerà lo storico scudetto del 1970, e pure lui sarà a lungo allenatore nel nostro paese, anche se a livello giovanile, lavorando con Fiorentina, Cagliari e Juventus. L’altra novità era stato Amarildo, che aveva egregiamente sostituito l’infortunato Pelé in Cile, e un anno dopo approdò al Milan: geniale quanto discontinuo, è stato comunque uno dei protagonisti del campionato italiano fino al 1972, vestendo le maglie anche di Fiorentina e Roma. La chiusura delle frontiere del 1965 stoppò l’arrivo di stranieri in Italia, e con l’addio di Cané al Napoli nel 1975 (disputò un’ultima stagione in Canada, prima di ritirarsi) di neri in Serie A non se ne sono più visti fino al brasiliano Juary, che approdò all’Avellino nel 1980. Rapidamente, dagli anni Ottanta, il loro numero aumentò, anche se si trattava quasi esclusivamente di latinoamericani come i peruviani Geronimo Barbadillo e Julio César Uribe (nel 1962 rispettivamente all’Ascoli e al Cagliari) o i brasiliani Toninho Cerezo (alla Roma nel 1983) e Léo Júnior (al Torino nel 1984).

Tolta la meteora Zahoui, negli anni Ottanta le uniche eccezioni al modello afrolatino sono state Ruud Gullit, stella olandese del Milan a partire dal 1987, figlio però di immigrati sudamericani del Suriname (seguito un anno dopo dall’omologo Frank Rijkaard), e il dimenticato Paul Elliott, difensore nero ingese arrivato nello stesso anno al Pisa. È allora con gli anni Novanta che la Serie A inizia ad accogliere davvero i giocatori africani: il primissimo è il difensore ghanese Samuel Kuffour, che arriva nella Primavera del Torino nel 1991, ma prima ancora di esordire tra i professionisti passa al Bayern Monaco. Seguono due meteore, il senegalese Roger Mendy (nel 1992 al Pescara) e il ghanese Kwame Ayew (nel 1993 al Lecce), prima dell’arrivo di stelle di fama internazionale come Abedi Pelé (al Torino nel 1994, peraltro fratello di Ayew), George Weah (al Milan nel 1995 e primo africano a vincere il Pallone d’Oro, nello stesso anno) e Nwankwo Kanu (all’Inter nel 1996).

Le vittime di razzismo

L’aumento esponenziale del numero di giocatori di colore in Serie A e i mutamenti sociopolitici del paese dovuti alla crescita dell’immigrazione conducono immancabilmente ai primi casi di razzismo esplicito nel calcio italiano, che trent’anni dopo non sono ancora stati superati. Un Mese della Storia Nera del nostro calcio non può dunque non ricordare Maickel Ferrier, difensore olandese nero che nel 1996 stava per essere ingaggiato dall’Hellas Verona, quando gli ultras locali decisero di accoglierlo con un inquietante striscione e un suo fantoccio impiccato da una balaustra dello stadio da due tifosi vestiti come membri del Ku Klux Klan. È bene ricordare che nessuno è mai stato punito per quel fatto, sebbene i reponsabili fossero noti a tutti. Il caso Ferrier è però solo uno degli episodi razzisti degli anni Novanta minimizzati o ignorati dal calcio italiano: già nel 1992 Aron Winter veniva accolto alla Lazio dalla scritta “Winter raus” con una svastica, scritta sulle mura della sede del club biancoceleste. E anche l’inglese Paul Ince, durante la sua permanenza all’Inter tra il 1995 e il 1997, denunciò di aver subito insulti razzisti.

Dopo questo episodio, l’Hellas Verona cancellò l’acquisto di Ferrier, che si accordò allora con la Salernitana.

Questi tre giocatori andrebbero ricordati come le prime vittime di un problema che il calcio italiano scelse di sottovalutare, e di cui paga le conseguenze ancora oggi. Ince fu il primo a denunciare pubblicamente il razzismo in Serie A, invitando le istituzioni ad agire prima che la situazione sfuggisse di mano, ma non venne ascoltato. Nel 2001, il Treviso faceva esordire il 18enne nigeriano Akeem Omolade, e gli ultras della sua squadra abbandonavano il campo per protesta. Nel 2005 toccò all’ivoriano Marc André Zoro ricevere insulti razzisti da parte dei tifosi dell’Inter: il difensore del Messina fu il primo giocatore nella storia del calcio italiano a protestare in campo e a minacciare di abbandonare la partita. La sua rivolta, pur non riuscendo a far invertire la rotta al sistema, portò finalmente una certa attenzione sul tema del razzismo negli stadi italiani, e alla fine i responsabili furono una volta tanto identificati e puniti con il Daspo.

Una Nazionale azzurra e nera

In ultimo, è doveroso ricordare la storia dei calciatori afroitaliani, in particolare di quelli che sono arrivati a indossare la maglia dell’Italia. Il primo, come abbiamo detto, fu Miguel Montuori, ma dopo di lui è stato necessario attendere il 1995 (35 anni dall’ultima partita dell’asso della Fiorentina) per vedere un altro afrodiscendente in azzurro, anche se solo con la maglia dell’U15: stiamo parlando del difensore Matteo Ferrari, nato in Algeria da padre italiano e madre guineana. In seguito ha poi avuto un’ottima carriera in Serie A, vestendo pure le maglie di Inter, Parma e Roma, facendo tutta la trafila delle giovanili azzurre, conquistando l’Europeo U21 nel 2000 e il bronzo olimpico nel 2004, e arrivando infine a disputare 11 presenze con la Nazionale maggiore tra il 2002 e il 2004. Mentre emergeva Ferrari, il compagno di reparto Joseph Dayo Oshadogan (nato a Genova da padre nigeriano e madre italiana) debuttava nel 1996 nell’U21, anche se poi avrebbe avuto meno fortuna nel corso della carriera.

Il primo giocatore italo-africano a debuttare nella Nazionale maggiore è stato però Fabio Liverani, centrocampista romano di padre italiano e madre somala, che nel 2001, dopo un’ottima annata con il Perugia, venne convocato da Giovanni Trapattoni. Negli anni successivi giocò con Lazio, Fiorentina e Palermo, raccogliendo però solamente altre due presenze in azzurro. Tra luci e ombre, la prima vera stella nera dell’Italia è stata chiaramente Mario Balotelli, protagonista assoluto degli Europei del 2012, in cui trascinò la squadra allenata da Cesare Prandelli fino alla finale. Il Nuovo Millennio ha già visto emergere nuovi giocatori afroitaliani – Moise Kean, Willy Gnonto, Destiny Udogie, eccetera – che scriveranno altri capitoli di questo libro. Anche se destinato a rimanere un’idea suggestiva ma non concretizzabile, un Black History Month del calcio italiano ci darebbe l’opportunità di ricordarci che la nostra è anche una storia di giocatori neri.

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