Fredda domenica di gennaio. Il Genoa riceve in casa, per la prima volta nella stagione, il Torino. I granata sono i campioni in carica e, adesso, di nuovo primi in Serie A, mentre quella di casa è un’onesta squadra di metà classifica. Anche se tra le mura amiche il Genoa è un avversario molto ostico: in stagione ha bloccato sullo 0-0 l’Inter, battuto 1-0 la Juventus, e umiliato la Roma per 3-0. Li allena una leggenda come William Garbutt, che tra gli anni Dieci e Venti ha portato i rossoblù a vincere tre scudetti, e in campo c’è un terzetto sudamericano temibile: il mediano Miguel Ortega dal Paraguay, e in avanti gli argentini José Macrì e soprattutto Juan Carlos Verdeal. Sugli spalti di Marassi, invece, tra la folla c’è un uomo distinto di nome Giuseppe De André, assieme ai suoi due figli, Mauro, di 10 anni, e Fabrizio, di 6.
I De André tifano Torino, ovviamente. Il signor Giuseppe viene da un’umile famiglia torinese, ma ha saputo farsi strada: si è laureato in Filosofia, poi si è trasferito a Genova a fare l’insegnante, e nel 1938 si è fatto venire l’assurda idea di chiedere un prestito e acquistare una scuola, che gli ha poi reso bene. Durante la guerra aveva nascosto alcuni studenti ebrei, salvandoli dalla deportazione, e poi era dovuto fuggire con moglie e figli nell’astigiano, tornando a Genova solo dopo la Liberazione. In quel momento, era un imprenditore colto e ben noto in città, e un importante esponente del Partito Repubblicano locale, ma aveva mantenuto la fede granata, trasmessa al figlio Mauro. Per Fabrizio, invece, quella era la primissima volta in uno stadio e lui, ribelle per natura, invece di parteggiare per il Torino scelse di farlo per i più deboli, il Genoa, che stava perdendo 3-0. Nell’ultimo quarto d’ora, quasi risvegliato dalla fiammella accesa dal quel nuovo giovanissimo tifoso, Verdeal provò a riacciuffare la partita, seminando il panico nella retroguardia piemontese, e alla fine perlomeno il Genoa chiuse con una dignitosa sconfitta per 2-3.
Quel risultato diviene lo strano inizio di quella che Fabrizio, molti anni dopo durante un concerto, definirà “una malattia”. I De André, in quanto tifosi granata, non vanno di frequente a Marassi, e il più piccolo della famiglia non può certo recarvisi da solo, così il suo cresce innanzitutto come un tifo casalingo, fatto di ascolto della radio e lettura dei risultati sui giornali. E quaderni su quaderni coperti di formazioni rossoblù e statistiche, scritte di suo pugno in mezzo a disegni colorati con le matite Faber-Castell. Quando ha 8 anni, nella sua lettera a Gesù Bambino, chiede come regali di Natale una “divisa da giocatore del Genoa” e un “vestito da cowboy”. Questo è l’anno in cui in panchina siede Federico Allasio, e dei tre tenori sudamericani è rimasto il solo Verdeal, autore di 11 reti che portano la formazione ligure fino a un ottimo settimo posto in Serie A. Di quei due regali, la maglia del Genoa è l’unico che non rinnegherà mai: crescendo, Fabrizio scopre che, come quella volta a Marassi, si sente più attratto dagli sconfitti che dai vincenti, dai troiani più che dagli achei e dagli indiani più che dai cowboy.
Negli anni Cinquanta è uno studente svogliato ma di talento, scrive poesie e conduce uno stile di vita antitetico a quello alto-borghese del resto della sua famiglia. Ma è talmente anticonformista che, pur essendo uno sfegatato tifoso genoano, il suo miglior amico è un altrettanto viscerale sostenitore della Sampdoria, un cabarettista di nome Paolo Villaggio. Ed è anche grazie alla spinta di quest’ultimo che Fabrizio inizia a considerare seriamente la carriera musicale. Così, nei primi anni Sessanta si accorda con l’etichetta Karim, che ne produce il primo 45 giri, contenente le canzoni Nuvole barocche ed E fu la notte. Da qua, per lui inizia una nuova vita, che va di pari passo anche un buon momento del Genoa: nel 1961, i rossoblù allenati da Renato Gei e trascinati dai gol di Gastone Bean ed Eddie Firmani, conquistano la Coppa delle Alpi e la promozione in Serie A. Tra il 1962 e il 1964, il club vive due belle stagioni, vincendo un’altra Coppa delle Alpi e arrivando all’ottavo posto in classifica, consacrando il talento dell’ala destra Gigi Meroni, il nuovo idolo del tifo genoano. Proprio in questi due anni, Fabrizio diventa padre di Cristiano e poi raggiunge un buon successo con La canzone di Marinella, che tre anni dopo verrà ricantata addirittura da Mina, la più grande star della musica italiana dell’epoca.

Dalla cover di Mina in avanti, Fabrizio si afferma tra i cantautori del momento a livello nazionale. Non è una star, certamente, ma ha un piccolo pubblico molto affezionato e la critica impara a riconoscerlo come l’altro lato della musica italiani: colta e raffinata, interessata a temi sociali senza però essere apertamente schierata con un partito. E anche se pubblicamente non parla mai di calcio, chiunque ci ha a che fare di persona sa che è genoano, e che se il Genoa la domenica perde allora è meglio stargli alla larga per ventiquattr’ore. È una cosa che impara presto anche Mauro Pagani, un polistrumentista milanista della band I Quelli, che nel 1970 collaborano con De André alla realizzazione dell’album La buona novella: “Già aveva un carattere non facile, ma se il Genoa aveva perso era anche peggio”. E va detto che in questo periodo i rossoblù regalano poche soddisfazioni: proprio nel 1970 precipitano addirittura in Serie C per una stagione, e per il resto del decennio faranno su e giù tra B e A.
La sua passione per il calcio travolge tutto e tutti, anche nelle situazioni più impensabili. Nell’agosto 1979, quando è all’apice del suo successo come cantautore, viene rapito in Sardegna assieme alla compagna Dori Ghezzi. Quattro mesi di prigionia, interrotti solo dopo il pagamento di un riscatto da 550 milioni di lire; quattro mesi di isolamento in cui non potevano sapere nulla del mondo esterno né leggere i giornali. Ma i risultati del Genoa sì – perché Fabrizio su questo si era impuntato – anche se in quei primi mesi della stagione 1979/1980 i rossoblù allenati da Gianni Di Marzio si barcamenavano a metà classifica in Serie B. I tempi buoni sarebbero arrivati solo una decina d’anni dopo, con la presidenza Spinelli e Osvaldo Bagnoli allenatore: il ritorno nella massima serie, Skuhravý e Aguilera in attacco, il quarto posto del 1991, la vittoria di Anfield e la semifinale di Coppa UEFA del 1992.
“Non lo si teneva più: era un tacchino, fiero e pettoruto. Gli piaceva molto questa cosa” racconterà ancora Mauro Pagani, che dal 1984 era tornato a collaborare con Fabrizio. Insieme avevano realizzato Creuza de mä, un capolavoro di musica e parole, un affresco linguistico che al tempo stesso racchiude l’identità genovese ma spazia anche tra i luoghi e le tradizioni più variegate. La maturità artistica di Fabrizio De André fa quasi da traino per la rinascita del suo Genoa di inizio anni Novanta, anche se poi le due migliori stagioni dei rossoblù andranno di pari passo con quelle dei maggiori successi dei loro rivali cittadini, coi cui tifosi peraltro Fabrizio aveva spesso a che fare. Sempre negli anni Ottanta si ritrova a collaborare, infatti, sia con Ivano Fossati che con i New Trolls di Vittorio De Scalzi, che nel 1991 per la Sampdoria scriverà l’inno Lettera da Amsterdam.
Fabrizio, invece, al Genoa non ha mai voluto dedicare una canzone, “perché per fare canzoni bisogna conservare un certo distacco verso quello che scrivi, invece il Genoa mi coinvolge troppo”. In qualche modo, però, la sua musica al rossoblù si è attaccata lo stesso, proprio in questi anni di rinascita. È il 1990 quando Francesco Baccini lo convince a cantare con lui Genova Blues, che dovrebbe essere un tributo alla città, ma alla fine nel ritornello Baccini dice esplicitamente “Genoa, you are red and blue”. Il resto lo fa la Gradinata Nord di Marassi, che prende in prestito Creuza de mä e la trasforma in quell’inno che Fabrizio non ha mai avuto cuore di comporre. E che alla fine rappresenta bene lo spirito del Grifone: una canzone sulla tradizione e su un tempo smarrito, che parla di vecchi pescatori, cantata in un dialetto nobile e arcaico, che riporta a un’epoca lontana tanto quanto quella dei leggendari nove scudetti rossoblù.

Che cos’è il tifo? È una sorta di fede laica, è il bisogno di schierarsi a favore di un partito, simbolizzato da immagini, da un colore, ma che si pretende essere sostenuto da una tradizione e da una cultura diverse da quelle degli altri: il tifo nasce da un bisogno forse infantile ma pur sempre umano di identificarsi in un gruppo che ha come fine la lotta per la vittoria contro altri gruppi. Questo desiderio primario può essere contenuto in una rivalità sportiva o sconfinare nel fanatismo, ma questo penso sia una problema che in parte deriva dal carattere dei singoli, in parte dall’educazione che i singoli ricevono dalla società. Voglio dire che un individuo facilmente influenzabile, a cui la società insegna continuamente che la vita è soltanto una lotta a coltello per la sopravvivenza, facilmente diventerà un fanatico e nel momento in cui ipotizzerà la sconfitta della propria squadra in cui si identifica per un bisogno di protezione, considererà tale sconfitta, sia prima che la sconfitta si verifichi, per scongiurarli, sia dopo che s’è verificata, per vendicarsi… Il fattore “fanatismo” anche questo deriva dai pessimi esercizi e dai cattivi insegnamenti degli oligarchi e della civiltà dei consumi.
Fonti
-CAGNUCCI Tonino, Il Grifone Fragile. Fabrizio De André: storia di un tifoso del Genoa, Limina Edizioni
Tantissimi anni fa, comprai un libro (in verità molto bello) che si intitolava Deandreide e raccoglieva una serie di racconti ispirati alle canzoni di Faber. L’ultimo racconto, Tutte le forme di mio fratello, scritto se non ricordo male da Diego De Silva, era una specie di autobiografia di tutte le volte in cui l’autore aveva incontrato la morte (tema per altro caro a De André), e si chiudeva con un breve racconto del funerale del cantautore. Tra i particolari che De Silva ricordava, c’era anche “la bandiera del Genoa listata a lutto”. Grazie per l’articolo.
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