La sentenza di venerdì sera sulla Juventus, penalizzata di 15 punti in classifica per il caso plusvalenze, può diventare uno spartiacque per il calcio italiano, costringendolo a venire a patti (finalmente) con le sue problematiche, o almeno con parte di esse. E invece, almeno a poche ore dalla notizia, il dibattito pubblico sembra orientato – come troppo di frequente accade – verso un’altra direzione, degradante per tutte le parti in causa, dai club ai tifosi. Ecco allora che questa vicenda assume i contorni dell’esempio ideale di un modo di dibattere e di pensare che, nel calcio ma non solo, sta avendo risultati culturali nefasti.
Le reazioni alla sentenza della Corte federale sono state essenzialmente di tre tipi. La prima è quella degli “anti-juventini”, cioè di coloro che, per motivazioni sportive o di semplice antipatia, gioiscono per la condanna della Juventus a prescindere da tutto. Questa fazione è interessata a una sola cosa: la penalizzazione in classifica dei bianconeri. Del processo della giustizia ordinaria, o del problema intrinseco delle plusvalenze fittizie (che magari riguarda anche il club per cui tifano, e che prima o poi potrebbe essere chiamato a risponderne), a loro non importa granché, o comunque non quanto l’indebolimento sportivo della squadra-Juventus. Non del club in senso stretto, ma proprio di quel gruppo in maglia bianconera che compete nei vari tornei. Poi ci sono i “più realisti del re”, una frangia estremista di tifosi juventini che negano categoricamente che il loro club possa aver fatto qualcosa di sbagliato, e anzi ritengono che esista una macchinazione che, dal 2006, mira a distruggere la loro squadra. Di questo gruppo fa parte, per esempio, l’eurodeputato e segretario del Partito Democratico Europeo Sandro Gozi, che anche per il ruolo che riveste avrebbe forse dovuto evitare tweet populisti come questo.
La terza fazione è quella a cui fa capo anche la stessa Juventus, che attraverso il comunicato dei suoi legali ha spostato la questione dalla colpevolezza o meno del club alla “disparità di trattamento” rispetto alle altre otto società coinvolte nel processo, che sono state invece assolte. Una strategia difensiva alquanto strana, che implicitamente arriva quasi a riconoscere la violazione, ma contesta che non siano stati puniti anche gli altri club con cui la Juventus ha compiuto gli scambi di giocatori con valori gonfiati. Questo stratagemma è in realtà abbastanza ciclico nel dibattito pubblico italiano: nel 1992, durante lo scandalo di Tangetopoli – termine di paragone, da allora, di qualsiasi scandalo del Bel Paese – Bettino Craxi si difese in un discorso in parlamento dicendo che, in fondo, ciò che gli contestavano lo facevano tutti. L’Italia del 2023 è dialetticamente bloccata in un loop in cui più è grave un’accusa più è facile che l’accusato risponda che così fan tutti, come se questa fosse una difesa invece che un’ammissione di colpevolezza.
Ognuna di queste tre fazioni ha un interesse specifico, di tipo identitario: le rispettive prese di posizioni rispecchiano l’affermazione di ciò che si è, senza nessuna visione del problema che non sia meramente superficiale. E qual è il problema? Che il calcio in Italia non sta più in piedi, a livello economico. Dice bene David Amoyal: “Se i club italiani si affideranno di meno alle plusvalenze dopo la penalizzazione inflitta alla Juventus, ne vedremo altri fallire e ripartire dalla quarta serie. Le plusvalenze sono state spesso l’unica cosa che li ha tenuti a galla”. Le società italiane sono bloccate da anni in una bonaccia autoimposta, sono state incapaci di svilupparsi sotto ogni punto di vista – finanziario, strutturale, comunicativo, tecnico e tattico – ritrovandosi costrette a ricorrere alla “finanza creativa” per sopravvivere. Questi problemi sono sotto gli occhi di tutti dalla bancarotta della Fiorentina del 2001, ma in 22 anni si è fatto finta di nulla.

Una volta certificata la crisi, in tempi più recenti, non c’è stato alcun progetto di rilancio che tenesse in considerazione le nuove condizioni del nostro calcio. Invece di operare una graduale decrescita, ci si è aggrappati alla convinzione di essere ancora il campionato più ricco e competitivo al mondo, e si è cercato di piegare l’economia a questa idea. I nodi adesso stanno venendo al pettine, e non solo per la Juventus. Almeno altre due società di Serie A (Inter e Sampdoria) sono in condizioni economiche disastrose, e le altre hanno comunque grossi debiti. Il miracolo del Napoli primo in classifica è tale anche perché in estate la proprietà ha rinunciato ad alcuni dei suoi migliori giocatori, i cui contratti erano divenuti economicamente insostenibili. Il presidente De Laurentiis ha stabilito un tetto d’ingaggio a 2,5 milioni l’anno per giocatore: una cifra bassissima per un club di prima fascia (alla Juventus, per fare un esempio vicino, 2,5 milioni l’anno li prende Kean, sedicesimo giocatore più pagato della rosa).
Una strada diversa non era impossibile, come spesso dicono i proprietari delle società. All’estero ci sono molti casi di campionati minori che, non potendo competere economicamente con i primi della classe, hanno preso altre strade: sondando mercati di giocatori meno battuti, sviluppando la rete di scouting e i settori giovanili, lavorando sulle plusvalenze “reali”. È successo in Portogallo, Olanda, Belgio, Francia e Germania, con club che spesso hanno potenzialità molto inferiori a quelli della Serie A. Invece, qui da noi si resta ancorati alla gloria del passato, ormai sempre più trasformata in rammarico, se non addirittura in rancore. Basta guardare discorsi come quello di un giornalista noto come Giovanni Capuano, che commenta i dati sulle spese sporporzionate dei club di Premier League rispetto ai rivali esteri facendo un paragone superficiale con la Superlega. Anche perché il predominio economico non sempre si trasforma in predominio tecnico: nelle ultime cinque stagioni, i club inglesi hanno conquistato appena tre coppe europee su undici, peraltro con sole due squadre (Chelsea e Liverpool). Nello stesso periodo, la Spagna ne ha vinte cinque con quattro squadre diverse (di cui solo due tra le big internazionali per potere economico), la Germania due con altrettanti club e l’Italia una.
Si è arrivati così al sistema delle plusvalenze fittizie. Non è il caso di dilungarci qui a spiegare come funzionino nel dettaglio (ma ne potete leggere qui, se volete), ma va sottolineato un punto: le plusvalenze fittizie non servono a risanare i bilanci. Semplicemente “spostano” un ammanco al prossimo esercizio commerciale, più avanti nel tempo, nella speranza che nel frattempo accada qualcosa (la vittoria di uno o più trofei importanti, o la remunerativa cessione di un importante giocatore) che copra effettivamente la falla. Sono il contrario della progettualità, un cerotto su un arto amputato. Sono una strategia suicida pensata da dirigenti incapaci di vedere oltre la fine della stagione, e convinti che basti rinviare i problemi abbastanza avanti da non doversene occupare loro. Un ragionamento che, a ben vedere, è un tratto distintivo della società italiana spesso anche al di fuori del calcio.
Questa strategia è stata talmente efficace che, dopo anni di bilanci alterati e gestioni grossolane, i club hanno dovuto chiedere al governo la famosa norma salva-calcio approvata lo scorso dicembre (supportata da un loro rappresentante eletto al Senato, il proprietario e presidente della Lazio Claudio Lotito). Se, alla luce di tutto ciò, si torna all’inizio di questa riflessione, appare abbastanza chiara l’assurdità delle tre fazioni che da venerdì sera battagliano sui social. Ha poco senso gioire della condanna della Juventus, quando il problema è sistemico, e anche chi magari non ha fatto ricorso alle plusvalenze fittizie è affetto dagli stessi problemi strutturali degli altri. Ancora peggio è difendere a spada tratta le persone responsabili dello sfacelo del proprio club: così non ci si qualifica come tifosi della Juventus, ma al massimo come tifosi dei suoi (ormai ex) dirigenti. E, allo stesso modo, difendersi dicendo di non essere gli unici colpevoli denota solo l’interesse a non voler affondare da soli, nel rispetto del proprio campanilismo.

Ultimo ma non meno importante, c’è un aspetto di cui quasi nessuno parla: dietro alle plusvalenze ci sono delle persone. Ragazzi adoelscenti spostati come fossero oggetti (“asset”, per essere più precisi), venduti per cifre gonfiate e parcheggiati in club che non hanno alcun interesse nelle loro capacità e nel loro futuro, mentre il sogno di carriera nel calcio – per cui hanno magari sacrificato anche gli studi – va in frantumi, triturato da un sistema che li ignora. Questo tema era già emerso nel 2005, quando un portiere di 22 anni chiamato Simone Brunelli denunciò alle autorità che il suo trasferimento dal Milan all’Inter era avvenuto perché qualcuno aveva falsificato la sua firma sui contratti. Nessuna conseguenza, ovviamente. Questi giovani giocatori, spesso inconsapevoli e fuori dal giro dei procuratori che potrebbero assisterli (e creare problemi alle società in casi del genere), vengono trasferiti e mossi a piacimento dai direttori sportivi, disumanizzati. E, con tutto il rispetto per le beghe tra tifosi e le penalizzazioni e le nostre squadre maltrattate, questo aspetto dovrebbe essere molto più importante e dovrebbe farci incazzare molto più del resto.