“Comandante, comandante / quando il cielo cadrà sulla terra / questa guerra, comandante, vedrai finirà.”
Gang
Com’è strano, il destino. Lì, steso sul prato di quella collina, stava proprio un calciatore: un esponente di quella categoria che era diventata suo malgrado uno dei grandi simboli della propaganda del regime; eppure lui moriva combattendolo, quel regime. Chissà se aveva un pallone con sé, quando stava sulle montagne coi suoi compagni; chissà se ci giocavano, nei loro momenti più spensierati. Chissà se qualcuno glielo ricordava, quello che era stato in campo, prima di diventare il Berni, quando era soltanto Bruno Neri da Faenza, centromediano in Serie A.
Nel corso del tempo che sarebbe venuto dopo gli eventi di quel giorno del luglio 1944, attorno a lui sarebbe germogliato un mito, quello del calciatore antifascista e partigiano, ideale riscatto di quella genìa da sempre ritenuta insensibile alle questioni sociali e politiche. Sarebbe esagerato immaginare però Bruno Neri come uno strenuo oppositore del regime: anche intorno alla celebre foto che così romanticamente sembra raccontare la sua intera vita e presagirne addirittura la fine – quella dell’inauguarazione dello stadio Berta di Firenze, in cui unico non saluta romanamente – girano tante voci e altrettanti dubbi. Davvero non salutò? O lo scatto dell’otturatore arrivò troppo tardi o troppo presto per immortalarne il braccio teso? Non risulta che quel gesto, compiuto quando aveva appena 21 anni, sia mai stato ripetuto in seguito, e c’è chi racconta che Neri non avesse alcuna particolare coscienza antifascista all’epoca, e che la sviluppò solo in seguito, a Torino.
D’altronde, la famiglia Neri era benestante, appartenente alla piccola borghesia romagnola – serbatoio di voti per il Duce, che infatti era nato a pochi chilometri da lì – e non ci sarebbe nulla di strano che un giovane come lui non nutrisse particolare interesse nell’opposizione politica. Quando esordì nella massima serie con il Livorno, a fine anni Venti, Bruno Neri si interessava piuttosto di letteratura e teatro, e di automobili: a carriera finita, avrebbe acquistato da un tenore suo concittadino un’officina meccanica a Milano, andandoci a lavorare col cugino Virgilio. Ecco, Virgilio sì che era un antifascista convinto, ed è soprattutto la sua presenza nella vita del cugino ad accentuare le possibilità che la famosa foto non raffiguri un equivoco, ma un atto deliberato di disobbedienza. In fondo, essere calciatori e antifascisti non era impossibile, anche se richiedeva discrizione: lo testimoniano i casi di Carlo Castellani, Aldo Olivieri e Libero Marchini. Gli ultimi due incrociarono Neri nella clamorosa stagione 1936/1937 alla Lucchese di Erbstein, per cui, se ci fu conversione tardiva, sembra iniziò in Toscana e non in Piemonte (dove comunque avrebbe giocato assieme a un altro futuro partigiano, Raf Vallone).

Ma ovunque si gettino gli occhi, lungo la traiettoria seguita da Bruno Neri, sembra emergere il seme dell’antifascismo. Anche quando tornò ad allenare il suo Faenza, nel 1940, ai tempi in cui la guerra era ancora fuori dai confini italiani: il Faenza era una piccola società di provincia che giocava nelle categorie regionali della quarta serie, ma nelle sue fila militava uno spregiudicato diciassettenne di nome Silvio Corbari, che pochi anni dopo sarebbe divenuto uno dei grandi nomi della Resistenza locale. Di che rapporti avessero i due all’epoca, allenatore e giocatore, non ne abbiamo purtroppo idea, ma è suggestivo che i fili della storia li abbiano voluti unire prima sul campo di pallone, poi nella lotta partigiana, e infine nella morte, avvenuta a un mese e a quaranta chilometri di distanza, Neri presso l’Eremo di Gamogna e Corbari a Castrocaro Terme.
Gamogna. Poche mura erte sul crinale dell’Appennino. Quando hanno scritto Bella ciao, avevano probabilmente in mente un posto del genere, nell’immaginare l’ipotetica morte di un partigiano “all’ombra di un bel fior”. Allora lì, tra quella comunità monastica vecchia di quasi mille anni, reperto di una collina che andava spopolandosi davanti all’inesorabile avanzare dell’inurbazione, di fiori ce ne dovevano essere due, perché il Berni era morto accanto al Nico, il suo comandante, che di nome faceva Vittorio Belleghi. Partigiani entrambi, caduti in un’agguato tedesco. Repubblicani, esponenti della cosiddetta banda Zella, parte dell’ORI, l’Organizzazione per la Resistenza Italiana fondata con il supporto degli Alleati nel novembre del 1943. Gestivano anche una radio clandestina, attraverso la quale informavano gli anglo-americani degli spostamenti delle truppe naziste lungo la Linea Gotica. La sede della radio, almeno nella sua prima fase, era addirittura nella casa di famiglia dei Neri, a Rivalta di Faenza.
La tragicità delle storie di guerra è che creano eroi, e Umberto Eco diceva che ogni eroe in realtà avrebbe voluto soltanto essere un onesto vigliacco. Allora, anche se non lo possiamo sapere con certezza, possiamo comunque pensare che Bruno Neri, e come lui tanti di quei ragazzi caduti e rimasti sull’erba delle montagne, avrebbe di gran lunga preferito vivere un tempo senza guerra e senza Fascismo. Essere solo un centromediano in Serie A, abbastanza bravo da vestire tre volte la maglia dell’Italia ma non abbastanza bravo da andare oltre quel traguardo. Essere ricordato come una bandiera della Fiorentina, uno dei protagonisti della sorprendente Lucchese del 1937, uno dei precursori del Grande Torino. Invece oggi c’è una targa che porta il suo nome e quello di Bellenghi, che dice che sono morti “subendo l’oltraggio brutale della rabbia nazista”. Un monito per chi rimane, perché in futuro si possa essere solo centromediani di Serie A o qualunque altra cosa si voglia, e non necessariamente eroi; vivere un tempo senza guerra e senza Fascismo.
Fonti
–Bruno Neri calciatore partigiano della Nazionale Italiana, Historia Faentina
–Bruno Neri, solo di cognome. Storia di un calciatore morto e vissuto partigiano, Minuto Settantotto
–CAVEZZALI Matteo, GOZZOLI Gianni, Bruno Neri, calciatore e partigiano, RaiPlay Sound