Jorge Alberto González è un’infilata di nomi standard spagnoli tra le più classiche e ricorrenti possibile, che uno che si ritrova maledetto da questo nome non ha che da compiere imprese straordinarie per sfuggire alla condanna all’anonimato. Quel tipo di imprese che ti valgono un nome di battaglia destinato a diventare iconico: Mágico. E d’altronde la vita sportiva di Mágico González, sebbene si sia svolta in un’epoca a noi molto recente, si è presto ammantata dei contorni della leggenda, rimbalzando di blog in blog, immersa nel romanticismo sempre più radicale dello stoytelling calcistico dell’epoca di internet. L’attaccante geniale, sbucato dal nulla e fondamentalmente mai del tutto uscitoci – l’apice della sua carriera sono gli anni trascorso al Cádiz, a lottare nei bassifondi della prima divisione spagnola – che lo stesso Maradona riteneva migliore di sé. Idolo perfetto, non c’è che dire.
A livello globale, nessuno più di lui incarna l’archetipo del talento sregolato, colui che avrebbe potuto essere tutto ma scelse di non essere nulla, di fare festa la sera e dormire fino a tardi la mattina. E poi, se era sceso dal letto col piede giusto, di correre allo stadio per giocare una mezza partita e ribaltare un risultato negativo contro qualsiasi avversario. Leggenda, appunto; e a furia di occuparsi di leggende si finisce per perdere di vista la storia. Se per noi stranieri Mágico González è un mito romantico, da ammirare ma da non imitare né da avere nella propria squadra del cuore, per i salvadoregni ha rappresentato un simbolo sociale di speranza in uno dei momenti più delicati della storia del paese. Un momento che si concentra in buona parte in un paio di dribbling, che illuminarono lo stadio Manuel Martínez Valero di Elche, in una sera d’estate del 1982.
Era lo storico ritorno dell’El Salvador ai Mondiali di calcio dopo l’edizione del 1970, ma la prima ora di gioco aveva già messo in chiaro che quella della Selección Cuscatleca sarebbe stata solo una comparsata: l’Ungheria era in vantaggio per 4-0, e avrebbe segnato altri sei gol da lì al novantesimo. Ma proprio intorno all’ora di gioco, González ricevette palla in posizione di ala destra, stoppò e puntò dritto Győző Martos, mettendolo a sedere con un dribbling spietato. Altra finta, e via pure a un secondo difensore; palla in mezzo a Norberto Huezo, che in qualche modo riuscì a farla filtrare fino a Luis Ramírez Zapata, che metteva in gol. Quei due dribbling gli fecero staccare il biglietto per Cadice, ma soprattutto posero le basi per la prima – e finora unica – rete dell’El Salvador ai Mondiali. Mentre questo succedeva, il paese centramericano era in guerra civile.
Nel 1979, un golpe aveva portato al potere i militari filo-statunitensi, che avevano il compito di fermare l’avanzata dell’opposizione socialista. L’anno seguente, un sicario armato dal governo aveva ucciso l’arcivescovo Óscar Romero, uno dei più strenui oppositori del regime, freddato da un colpo di pistola alla giugulare, mentre levava l’ostia al cielo per la comunione, all’interno della cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza di San Salvador. Da questo atto, l’opposizione politica aveva preso più decisamente la via della lotta armata, rafforzando i ranghi dei guerriglieri di sinistra guidati da Schafik Hándal, che si rifacevano alla lotta del rivoluzionario di inizio Novecento Farabundo Martí. Si apriva un decennio di sangue e sofferenza.

Jorge Alberto González era nato a San Salvador nel 1958, in un’umile famiglia di sangue indigeno, quelle popolazioni native sempre più marginalizzate dalla ricca comunità bianca, relegate a lavorare nei campi e massacrate a migliaia nella Matanza del 1932 che costò la vita proprio a Farabundo Martí. In casa González si stava in dieci, due genitori e otto figli; quando il futuro Mágico aveva appena due anni, il governo del generale José María Lemus veniva abbattuto da un colpo di stato per fare spazio a una ancora più dura giunta militare. È facile intuire, a questo punto, che tipo di clima vigesse nel paese, che nonostante le politiche di sviluppo e l’appoggio politico degli Stati Uniti restava uno dei più poveri d’America. Nel 1969, alle tensioni interne si aggiunse la guerra contro il vicino Honduras, scatenata da tensioni politiche traboccate anche a causa di una partita di calcio tra le rispettive nazionali.
È difficile dire se González fosse anche solo timidamente un oppositore del regime o se si interessasse di politica, ma di sicuro il retroterra sociale da cui proveniva era quello degli sfruttati. Il fatto che si sia sempre pubblicamente identificato come un indio – in un’intervista più recente ha detto che per lui i salvadoregni di cui essere orgogliosi sono i ribelli pipil di Atlacatl, che nel XVI secolo resistettero alla conquista spagnola – nonostante gli sforzi dei vari governi di destra che si erano succeduti a El Salvador per marginalizzare e rendere invisibili gli indigeni, sembra chiarire quale fosse la sua parte. L’identità nativa era d’altronde stata recuperata e rivendicata, in funzione anche politica, da poeti e attivisti di sinistra come Pedro Geoffroy Rivas e Oswaldo Escobar Velado, nella prima metà del Novecento.
A ciò si aggiungeva il suo mito di ribelle del pallone, certamente. Di fronte a un governo militare che si poneva come forza moralizzatrice basata sulla disciplina e il rispetto degli ordini, González era un pícaro individualista che non sottostava a nessuna regola. Questo dice poco su chi fosse lui in realtà, ma molto su come potesse venire percepito dai suoi connazionali schiacciati sotto il tacco della dittatura. E d’altronde, il fatto che giocasse all’estero – tutta la parte migliore della sua carriera, tra il 1982 e il 1991, si svolge in Spagna, tra il Cádiz e il Real Valladolid – consentiva al regime stesso di ergerlo a stereotipo nazionalista: il salvadoregno emigrante che fa successo all’estero. Gran parte della narrazione che oggi circonda la figura del Mágico è in realtà figlia della propaganda fascista, che glorificava oltre modo le sue doti, ponendolo al confronto – ma più spesso al di sopra – di campioni come Pelé, Maradona o Di Stéfano: come a dire che i salvadoregni, se vogliono, non sono secondi a nessuno.
Il caso vuole che la parabola della carriera europea di González abbia coinciso proprio con gli anni della guerra civile. Nel 1991, ormai 33enne e gravato da uno stile di vita decisamente non da atleta e dalle continue frizioni con i suoi allenatori, il campione salvadoregno lasciava il Cádiz – che sarebbe retrocesso due anni più tardi, dopo otto stagioni in massima serie e una semifinale di Coppa del Re – per tornare a chiudere la carriera al Club Deportivo FAS di San Salvador. Mentre questo succedeva, i diplomatici dell’ONU intensificavano i loro sforzi per portare la pace nel paese centramericano, che sarebbe stata firmata nel gennaio 1992: i ribelli si impegnavano a deporre le armi, mentre il governo prometteva di smantellare gli squadroni della morte e punire i responsabili dei massacri. Questo doveva servire ad avviare finalmente El Salvador sulla strada della democrazia.

Ma i nazionalisti del partito ARENA rimasero al potere, e pochi mesi dopo la firma del trattato di pace concedevano un’amnistia totale ai torturatori dell’epoca della dittatura. La guerra civile si era portata via 75.000 persone, tra morti e desaparecidos, e aveva causato oltre 1 milione di profughi e sfollati. Dieci anni di instabilità avevano del tutto distrutto l’economia locale, e ora El Salvador aveva raggiunto il tasso di povertà peggiore dall’inizio del secolo, fattore che portò molte persone a lasciare il paese per cercare maggiore fortuna all’estero. Tra di essi, alla fine ci fu anche Jorge Alberto González, che come molti suoi connazionali si trasferì negli Stati Uniti, dove si divise per un po’ tra il lavoro nello staff della Houston Dynamo e quello di tassista. Nel 2003 è tornato nel suo paese, dopo che il parlamento gli ha assegnato l’Hijo Meritísimo, la massima onoreficenza nazionale, e una pensione di stato per i suoi meriti sportivi. Sembra un po’ meno romantica, la sua storia, messa in questa prospettiva.
Fonti
–ORDAZ Pablo, Mágico González: “Mi obsesión fue ser feliz sin pisar a nadie”, El País
–QUIÑONES MIRALLES Javi, La jugada de Mágico González en España 82′ que enamoró al Cádiz, As