Perché la guerra tra Russia e Ucraina non cambierà la politica del calcio

Non è stata la prima volta che il calcio si è intersecato con la guerra. Non è stata la prima volta che dei calciatori si sono espressi pubblicamente su questioni politiche. Eppure lo sentiamo che questa è stata una prima volta: l’invasione russa dell’Ucraina ha scatenato una serie di reazioni forti e inaspettate non solo nell’opinione pubblica, ma anche nel comportamento degli stati e delle organizzazioni internazionali. Le sanzioni sul settore energetico e quelle contro gli oligarchi, le multinazionali che abbandonano la Russia, le grandi associazioni sportive che espellono le federazioni russe, i club che prendono le distanze da certi sponsor, il Chelsea messo all’angolo. Qualcuno potrebbe chiamarla addirittura una rivoluzione, ma in realtà – purtroppo – non lo sarà.

Se vogliamo individuare i punti centrali che spingono a pensare che quanto sta avvenendo possa cambiare il rapporto tra il calcio e la politica, possiamo dire che essi sono essenzialmente tre: la presa di distanze da Gazprom, rimosso prima da sponsor dello Schalke 04 e poi della UEFA; le sanzioni contro Roman Abramovič, che mettono a rischio la stabilità del Chelsea; e l’esclusione della Russia dai Mondiali di Qatar 2022. Tre passaggi che hanno messo seriamente in crisi l’ipocrita assunto del governo del calcio globale per cui lo sport non fa politica; anche se poi, al Corriere della Sera, il presidente della UEFA Čeferin si è giustificato dicendo: “Non è politica, è una crisi umanitaria”.

Una frase comunque tutt’altro che banale, e molto utile a capire cosa sia successo. Čeferin dice che la guerra in Ucraina non è un fenomeno politico ma umanitario: la politica – nel suo senso stretto, la gestione della polis, dello stato – è opinabile, ideologica; per contro, quanto sta avvenendo in Ucraina è oggettivo. Che la Russia abbia invaso un paese sovrano e stia causando un alto numero di morti e profughi, è oggettivo. Eppure, li abbiamo sentiti tutti i distinguo, più o meno intelligenti e legittimi, di questi giorni: sul ruolo della NATO e della UE, sugli equilibri mondiali, sulla storia della Russia post-sovietica, sulla Russia che “non ha attaccato” l’Ucraina. A ben vedere, anche dire che quanto sta avvenendo sia oggettivo riflette una visione in qualche modo ideologica, da qualunque parte la si guardi. E quindi è politica, e UEFA e FIFA hanno scelto da che parte stare: si può essere d’accordo o meno con le conclusioni, ma anche questo è oggettivo. Quindi, che si tratti di scelte che afferiscono all’universo della politica, è un fatto assodato.

Ed è fuori discussione che siano state scelte epocali. La rottura del contratto della UEFA con Gazprom non è una decisione da poco: il colosso energetico russo, che Putin ha trasformato in una leva geopolitica nei confronti dell’Europa (il prezzo della benzina schizzato alle stelle lo abbiamo notato tutti, no?) investendo nel calcio e usandolo come piede d’appoggio per portare Nord Stream in Germania e da lì tessere una rete in tutto il lato occidentale del continente, teneva in piedi il calcio europeo. Quando la Superlega è nata e morta nel giro di pochi giorni, tutti abbiamo guardato al Qatar (cioè, al Paris Saint-Germain) che vi aveva girato al largo, ma dal progetto si era tenuto lontano anche Gazprom. Pensare di costruire un’alternativa alla Champions senza avere i soldi del suo principale sponsor (40 milioni di euro a stagione, per capirci), era piuttosto difficile. Gazprom è stato l’attore fondamentale dei rapporti tra UEFA e Russia nell’ultimo decennio, portando a Mosca il Mondiale del 2018, e poi a San Pietroburgo gli Europei del 2020 e la finale della Champions League (poi, come sappiamo, cancellata).

Allo stesso modo, l’esclusione della Russia dai Mondiali, senza nemmeno passare dai playoff, era impensabile fino a poche settimane fa. Qualcuno ha citato, nonostante la grande distanza cronologica, il caso del Cile che, nel 1973, fu lasciato libero di giocare uno spareggio farsa contro l’Unione Sovietica assente per protesta, staccando il pass per Germania Ovest 1974: in quel caso, la FIFA lasciò fare. Dario Saltari su Il Grand Continent dice che “Era dai tempi del Sud Africa dell’apartheid che un Paese non era così solo al mondo, e che lo sport era così unito a far leva sul suo potere per cambiare la realtà”. Il Sud Africa fu sospeso dalla FIFA nel 1961, tre anni dopo l’espulsione dalla CAF, quindi espulso nel 1976, dopo la repressione della rivolta di Soweto. Ma successivamente ci fu il caso di Israele, espulso dalla AFC nel 1974, dopo che diverse federazioni asiatiche si rifiutarono di giocarci contro: anche in quell’occasione, la FIFA non prese alcuna chiara posizione, e Israele rimase senza affiliazione fino al 1991, partecipando come ospite alle qualificazioni mondiali alternativamente della UEFA e della OFC.

Questo per ricordare che l’atteggiamento del governo del calcio globale è sempre stato molto contraddittorio sul suo rapporto con i regimi. Ma i casi di Sud Africa e Russia hanno dei tratti in comune: innanzitutto, la decisione della FIFA di escludere Johannesburg arrivò solo come conseguenza del ban imposto dai paesi africani, e l’espulsione del 1976 seguiva di tre anni la condanna dell’ONU per crimini contro l’umanità. Ci volle, cioé, una situazione generale in cui non era possibile difendere il Sud Africa: il boicottaggio da parte di tutti i paesi africani (a parte le colonie portoghesi) e l’isolamento da parte della comunità internazionale, rendevano sconveniente la legittimazione sportiva del Sud Africa. Cosa che non si verificò con Israele, che aveva ancora importanti alleati nel mondo occidentale, e nemmeno con il Cile di Pinochet, supportato dagli Stati Uniti, ma che ora si è riproposta con la Russia.

Perché in realtà non è del tutto vero che la UEFA e la FIFA abbiano isolato Mosca a causa della guerra in Ucraina: la catena di eventi e conseguenze è un po’ più lunga. Il vero fattore scatenante, infatti, è stata la decisione di diverse nazionali di non giocare contro la Russia: prima Polonia, Svezia e Repubblica Ceca, avversarie nel girone degli spareggi per Qatar 2022 si sono tirate indietro, e a quel punto la FIFA ha cercato di porre rimedio con un compromesso, sullo stile del CIO nel caso del doping russo (partecipare, ma senza nome ufficiale, inno e bandiera). Ma quando le tre federazioni hanno confermato il loro rifiuto, e alla loro schiera se ne sono aggiunte altre – anche molto importanti, tipo i vicecampioni d’Europa dell’Inghilterra – Gianni Infantino ha dovuto cambiare rotta e optare per l’esclusione, senza avere grande scelta.

O meglio, una scelta c’era: rischiare di causare un domino di passi indietro, che avrebbe portato la Russia a partecipare e vincere il Mondiale per abbandono, senza disputare una partita, causando un enorme danno d’immagine ed economico alla FIFA e al Qatar. Il punto, alla fin fine, è tutto qui: non è una questione etica, ma di interesse economico. La Russia ha smesso di essere un alleato del calcio globale quando il suo ricco sostegno ha iniziato a far traballare le sorti dell’intero sistema. E ciò è stato possibile solo attraverso una congiuntura sociale e geopolitica – ancora difficile da decifrare completamente, al momento – che ha fatto sì che la guerra in Ucraina diventasse qualcosa di più importante rispetto a qualsiasi altra guerra verificatasi nel mondo dal 1945 ad oggi. Non prendere posizione contro la Russia, in questo caso caso, è diventato un fattore di rischio economico superiore – nella percezione del mercato occidentale di cui il calcio è parte – rispetto all’ipotesi dell’equidistanza.

Questo ragionamento dovrebbe aver già permesso di intuire, più o meno, perché quanto stiamo vivendo non cambierà il rapporto globale tra calcio e politica. Perché i Mondiali in Qatar si faranno, nonostante le proteste per le violazioni dei diritti umani? Perché, mentre estromette la Russia, Infantino va a Ryad a trattare con il regime saudita, responsabile degli stessi crimini in Yemen? Perché non ci sono ritorsioni contro l’Azerbaijan (che è stata una delle sedi dell’ultimo Europeo), nonostante la guerra nel Nagorno Karabakh continui, e anzi nel 2020 si sia addirittura rinfocolata? Risposta: perché non coviene fare altrimenti.

Questo potrebbe sembrare una discorso sulla geopolitica del calcio, ma in realtà ci riguarda in un modo ben più diretto. Perché è abbastanza comodo addossare le colpe e le ipocrisie alla UEFA e alla FIFA (che di sicuro non ne sono esenti, chiariamoci), ma nel momento in cui riconosciamo che questi due soggetti agiscono solo come reazione a una presa di coscienza collettiva verso un determinato evento, allora dobbiamo chiederci perché sul Qatar, sullo Yemen e sul Nagorno Karabakh questa reazione non si è verificata. Veniamo da giorni di polemiche sui giornalisti che goffamente spiegano che la guerra in Ucraina è diversa dalle altre perché, per noi occidentali, è più facile immedesimarci negli ucraini piuttosto che negli afgani, e questa semplice differenza percettiva determina una serie di conseguenze a cascata che, unite a un clima generale che da tempo guarda a Putin con sospetto, ha portato a una reazione inimmaginabile nei suoi confronti.

In tutto questo, bisogna tenere ben presente che stiamo appunto parlando della percezione esclusiva del mondo occidentale. Non c’è da prenderci troppo in giro: la FIFA, sebbene rappresenti il calcio a livello mondiale, resta un’organizzazione essenzialmente occidentale, o meglio ancora europea (e fortemente eurocentrica: lo dimostra il fatto che, in 118 anni di storia, ha eletto otto segretari europei su nove, più il brasiliano João Havelange, figlio però di due immigrati belgi). La FIFA è il sogno bagnato dell’Europa che vuole ancora essere al centro del potere mondiale, mentre fuori dal calcio essa è sempre più frammentata e subordinata agli Stati Uniti.

Il football è quindi lo strumento attraverso cui un’Europa simil ottocentesca e astratta perpetua il proprio mito coloniale, ormai trasformato in simulacro. Consideriamo anche questo fatto: la FIFA è la più grande organizzazione internazionale del mondo, ha più stati membri dell’ONU (211 contro 193). Eppure non agisce come l’ONU, anzi si sottrae da sempre – nonostante i discorsi che fa Infantino – al suo possibile ruolo diplomatico; il suo operato è in realtà molto più simile a quello della World Trade Organization: un centro di potere economico, che esiste per stabilire connessioni commerciali globali tra gli stati membri. Perché poi il vero affare dietro i Mondiali è questo: la FIFA porta la Coppa in un dato paese, e così facendo gli garantisce l’accesso a investimenti e sponsor internazionali altrimenti molto più difficili da raggiungere senza la sua opera di mediazione.

Questo è motivo per cui, dopo la Russia, nulla cambierà davvero. Perché già nulla è concretamente cambiato oggi: le recenti decisioni del governo del calcio possono sorprendere, ma in realtà sono perfettamente coerenti con il suo modello di gestione. Che poi è quello su cui basa l’intera nostra società: la presunzione di apoliticità dell’economia, che da tempo si pone come anti-ideologica, legata solamente a fattori pratici e facilmente misurabili. Allora, politicizzare il calcio significa prima di tutto politicizzare l’economia.

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