Il calciatore che sfidò Berija

Lo scenario era probabilmente uno dei più suggestivi, tra quelli in cui si è giocata una partita di calcio: un prato di erba sintetica era stato srotolato sulla Piazza Rossa di Mosca, letteralmente sotto gli occhi di Stalin, per ospitare un match dimostrativo di soli 30 minuti in una giornata – quella del 6 luglio 1936 – interamente dedicata alle esibizioni sportive. La partita era meno che un allenamento, senza contrasti né eccessivo agonismo, ma il Segretario Generale ne rimase abbastanza colpito da lasciarla proseguire per un altro quarto d’ora. Quella piccola dimostrazione, che aveva messo l’una di fronte all’altra due formazioni dello Spartak Mosca, era stata il grande successo di Nikolaj Petrovič Starostin, il 34enne capitano dello Spartak e principale ideologo del calcio socialista. Circa quattro mesi dopo, la sua squadra avrebbe conquistato il campionato, rendendolo sempre più insopportabile agli occhi della persona a cui era meno raccomandabile stare antipatici dopo Stalin stesso: Lavrentij Pavlovič Berija.

E dire che, all’inizio, il calcio non sarebbe nemmeno dovuto esistere, in Unione Sovietica. Alla fine della guerra civile che aveva seguito la Rivoluzione d’Ottobre, era opinione largamente diffusa che fosse lo sport simbolo della borghesia industriale britannica, e pertanto del tutto inadeguato alla nuova società socialista russa. Ma la fama che il pallone aveva raggiunto già in epoca zarista era tale che, piuttosto che vietarlo, il governo capì che era meglio piegarlo all’ideologia marxista e metterlo sotto il controllo dello stato. Era stato così che, nei primi anni Venti, erano sorte le prime associazioni polisportive, comprendenti anche una sezione calcistica, gestite direttamente dagli apparati statali.

Fu in quel periodo che emerse il giovanissimo Nikolaj Starostin, che era stato uno dei fondatori della Krasnaja Presnja, con cui giocava a hockey durante l’inverno e, per tenersi in forma, a calcio durante l’estate. In breve tempo, si era affermato come un brillante centrocampista, diventando un punto fermo della Nazionale e guadagnandosi l’amicizia di Aleksandr Vasil’evič Kosarev, il segretario Komsomol, la Lega dei Giovani Comunisti, che di fatto era l’organo statale maggiormente interessato allo sport. L’ascesa politica di Kosarev aveva poi spianato la strada a Starostin, che nel 1935, approfittando di questo legame, era riscito a ottenere il permesso di trasformare la Krasnaja Presnja in una società sportiva di fatto indipendente dal sistema statale sovietico, posta sotto la direzione del sindacato degli operai civili. Era nato così, lo Spartak.

Ma il ruolo di Starostin nel governo del calcio sovietico era andato rapidamente in crescendo. Era stato sempre lui a proporre di istituire un campionato nazionale sul modello di quelli dei paesi capitalisti, integrando i calciatori in un sistema formalmente dilettantistico, ma che in realtà prevedeva ricchi premi e vantaggi che li qualificavano nei fatti come atleti professionisti. Solo attraverso una professionalizzazione degli sportivi, sosteneva, sarebbe stato possibile per l’Unione Sovietica competere ad armi pari nello sport con i paesi capitalisti, e quindi poterli battere. A riprova di questa necessaria riforma, Starostin aveva citato la sconfitta subita dal suo Spartak a Parigi contro il Racing Club di Raoul Diagne, che aveva dimostrato la superiorità dei club occidentali rispetto a quelli sovietici.

Il murales dedicato a Nikolaj Starostin a Mosca, lungo la via che a lui è oggi intitolata.

L’istituzione del nuovo campionato dell’URSS segnò l’inizio di una rivalità che era politica, oltre che sportiva: da un lato la Dinamo Mosca, vincitrice del primo titolo nazionale nella primavera del 1936 e poi di nuovo nel 1937; dall’altra lo Spartak, che aveva vinto il secondo scudetto, nell’autunno del 1936, ma soprattutto si era assicurato campionato e coppa nazionale per due anni consecutivi, nel 1938 e nel 1939. Una rivalità politica, dicevamo, perché lo Spartak si stava affermando sempre più come la squadra del popolo, in contrapposizione alla Dinamo, figlia di un’associazione sportiva radicata in tutte le principali città del paese, dipendente dal Ministero dell’Interno e controllata direttamente dalla GPU, la polizia segreta di Berija, che era presidente onorario della Dinamo e non mancava una partita della sua sezione moscovita.

Negli stessi anni in cui il calcio diventava sport di massa in Unione Sovietica, si compivano le Grandi Purghe, con cui Stalin intendeva togliere di mezzo tutti i cospiratori, veri o presunti. Inizialmente, per Starostin questo non fu un problema, dati i suoi rapporti con il “grande inquisitore” Nikolaj Ivanovič Ežov: nel 1937, era già stato accusato di gestire lo Spartak come un imprenditore, ingaggiando giocatori di altri club dietro la promessa di grossi compensi economici – un crimine gravissimo, in URSS, intrinsecamente controrivoluzionario – ma la sua fama di calciatore e dirigente sportivo bastarono a salvarlo. Starostin era, sostanzialmente, il calcio sovietico, sia per ciò che faceva in campo sia per quello che faceva fuori. Un anno dopo, però, Ežov venne destituito e rimpiazzato da Berija, e subito dopo anche l’altro grande protettore di Starostin, Kosarev, venne arrestato e rinchiuso in un gulag come nemico dello stato.

A complicare tutto, avvenne il fattaccio della finale di coppa del 1939, conquistata dopo che lo Spartak ebbe eliminato in semifinale la Dinamo Tbilisi, altro club a cui Berija, georgiano, era molto legato. Dopo all’assegnazione del titolo, il capo della polizia segreta fece in modo di ordinare la ripetizione della semifinale (mentre l’arbitro del match originale era già stato squalificato e arrestato). Una farsa presuntuosa che non ebbe alcun successo, poiché lo Spartak vinse nuovamente: dal campo, Starostin vide Berija allontanarsi furiosamente dagli spalti da cui aveva assistito al match e, a suo avviso, fu quello il momento che segnò il suo destino.

In verità, passarono ancora tre anni. Fu solo nel marzo del 1942 che Starostin venne svegliato le cuore della notte e condotto nel famigerato palazzo della Lubjanka di Mosca assieme ai suoi tre fratelli, tutti giocatori dello Spartak, dove venne accusato di aver complottato per assassinare Stalin, in combutta con Kosarev (che, comunque, non poteva né confermare né smentire, essendo stato giustiziato nel 1939). Dopo quasi due anni di prigione in isolamento, le accuse furono ridotte, si fa per dire, a quella di aver propagandato ideali borghesi e capitalisti attraverso la sua gestione dello Spartak. Lui e i suoi fratelli furono processati e in pochi giorni condannati ciascuno a dieci anni di reclusione in diversi campi di lavoro. Nikolaj Starostin venne mandato prima in un centro petrolifero a Ukhta, nell’estremo Nord della Russia, e poi a Chabarovsk, ai confini con la Cina.

Un’immagine dello Spartak nel 1934: Nikolaj Starostin è il quinto da sinistra. I suoi fratelli Andrej, Aleksandr e Pjotr sono rispettivamente il quarto, il settimo e l’undicesimo da sinistra.

Sarebbe ingiusto nei confronti degli altri prigionieri dei gulag dire che quei dieci anni di vita di Starostin siano stati un inferno: era pur sempre uno degli atleti più famosi di un paese che stava impazzendo per il calcio, e anche gli spietati capi dei campi di lavoro erano sensibili alla sua fama. “Il loro sconfinato potere sulle vite umane non era niente comparato al potere che aveva il calcio su di loro” avrebbe ricordato molti anni dopo. Aveva il permesso di vivere al di fuori del gulag, e poteva godere di molti altri privilegi, tra cui cimentarsi in partite di pallone. Nel 1948, Vasilij Stalin, il figlio del Segretario Generale del PCUS e generale dell’aviazione, lo rintracciò e lo fece ricondurre a Mosca, dove gli offrì un lavoro come allenatore del VVS, il club dell’aeronautica militare, ma ovviamente le cose non erano così semplici.

Il giovane Stalin era in conflitto con Berija per l’eredità del potere sovietico, e lo status di Starostin divenne il loro terreno di scontro. L’ormai 46enne ex-calciatore venne nuovamente arrestato, spedito nel Caucaso, reintercettato da Stalin e spostato nella più comoda Ul’janovsk, quindi ripreso dalla polizia segreta ed esiliato in un gulag in Kazakhstan. Per sua fortuna, la fama lo aveva seguito anche in questo remoto angolo dell’URSS, garantendogli ancora una volta migliori condizioni di vita. Nel 1952, gli venne anche offerta la possibilità di trasferirsi nella principale città locale, Alma-Ata, per allenare il Qaýrat. Mentre questo succedeva, Berija faceva arrestare il giovane Stalin, mentre il vecchio moriva in seguito a un colpo apoplettico. Il cambio di potere, con l’ascesa di Nikita Chruščëv, portò alla rapida rimozione di Berija da capo della polizia segreta, e alla sua misteriosa quanto provvidenziale esecuzione.

La destalinizzazione degli anni Cinquanta permise a Nikolaj Starostin di fare finalmente ritorno in tutta sicurezza a Mosca, dove avrebbe riabbracciato la sua famiglia e i suoi fratelli, a loro volta liberati. Chruščëv gli restituì la medaglia all’Ordine di Lenin e dichiarò illegale la condanna subita dieci anni prima. Così, Starostin poté assumere il ruolo di presidente dello Spartak Mosca, il club che era stato tutta la sua vita, mantenendola fino al 1992: in questo periodo, mise in bacheca sette campionati e cinque coppe nazionali, raggiungendo anche una semifinale della Coppa dei Campioni. Fu lui stesso a rendere pubblica la propria storia, in un’autobiografia uscita nel 1989. In essa, si lamentava anche di come i calciatori contemporanei fossero disinteressati alla politica e alla cultura: “Credo con tutto il cuore che non si possa separare la cultura dal calcio. Chi si interessa di calcio deve interessarsi allo stesso tempo anche di arte”.

Fonti

FLORES D’ARCAIS Alberto, ‘Pagai con il gulag uno sgarbo a Beria’, La Repubblica

RIORDAN Jim, The Strange Story of Nikolai Starostin, Football and Lavrentii Beria, Europe-Asia Studies

VETH Manuel, Stalinism – Football and Culture in the Interwar Soviet Union, Futbolgrad

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