Sarà anche vero che, quando si dice di una squadra che è “più di un club” il pensiero corre immancabilmente allo slogan – ormai più di marketing che di contenuto – del Barcellona. Ma in Spagna, da ormai diversi decenni, se si cerca un club che sia qualcosa di più di una squadra di calcio, si va a Vallecas. Siamo a Madrid, all’ombra dei titani Real e Atlético, in un quartiere popolare dalla forte tradizione operaia: qui si è sviluppata un cultura antifascista e inclusiva tra le più solide d’Europa, che ha finito per inglobare la squadra locale, il Rayo Vallecano. Il mito vuole che il Rayo sia, oggi, la squadra del popolo, il club più di sinistra al mondo assieme al St. Pauli di Amburgo. Un’identità talmente forte e radicata che ha ispirato almeno due libri di ampia circolazione, uno di Quique Peinado e un altro di Robbie Dunne.
Quella del Rayo è un’identità che travalica lo sport: a fronte dei magri risultati della sua storia, ha club di sostenitori sparsi in tutto il mondo, persone che magari non sono nemmeno mai state a Vallecas ma conoscono cosa vuol dire quel nome. Un qualcosa che va al di là del folklore, perché i Bukaneros – il gruppo ultras antirazzista e antifascista che ne anima la curva, attivo dal 1992 – costruisce legami che abbracciano tutto il quartiere, ben oltre i confini dello stadio. Nel 2014, per fare un esempio, organizzarono una raccolta fondi – sponsorizzata anche da striscioni dentro il Campo de Fútbol de Vallecas, e supportata anche da alcuni giocatori della prima squadra, come Antonio Amaya – per aiutare la 85enne Carmen Martínez a pagare l’affitto della sua casa, prima che venisse sfrattata e gettata in mezzo a una strada.
Non serve aggiungere altro perché, probabilmente, cosa rappresenti il Rayo Vallecano lo sapete già. Ecco perché è veramente doloroso annunciare che oggi il Rayo è morto. Ma come? – direte voi – fino a qualche giorno fa l’ho visto, e stava benone. L’avete probabilmente visto veleggiare al nono posto della Liga, a una posizione dal miglior piazzamento della sua storia, ma non vi siete accorti che era solo un fantasma, un impostore, un simulacro. Il Rayo Vallecano è stato assassinato, e questa è la storia del suo brutale omicidio.
Il movente
Questa vicenda inizia nel 2011, ma in realtà i titoli di testa potrebbero risalire anche a vent’anni prima, quando il Rayo fu trasformato in Sociedad Anónima Deportiva (sostanzialmente una società a responsabilità limitata) e la maggioranza delle quote finì nelle mani di José María Ruiz-Mateos. Signore controverso, a dir la verità: discendente di una lunga stirpe nobiliare spagnola – al cui nome aveva aggiunto un titolo sanmarinese – e membro dell’Opus Dei, era stato il proprietario del colosso economico Rumasa, espropriatogli nel 1983 a causa di una serie di accuse societarie. Nel tentativo di sfuggire alla giustizia, nel 1989 aveva fondato un partito, l’Agrupación Ruiz-Mateos, di orientamento populista e destrorso, con cui in quello stesso anno era stato eletto al Parlamento europeo. No, non è lui il nostro assassino: nel 2011, travolto dai debiti e della proteste dei tifosi, Ruiz-Mateos usciva dalla nostra storia, cedendo la proprietà a un giovane imprenditore madrileno di nome Raúl Martín Presa.
Si trattava di un 40enne dalle grandi ambizioni, con quote in diverse e variegate imprese, per lo più della zona di Madrid, e un proficuo passato da inventore: secondo As, poteva vantare almeno otto brevetti tecnici di espositori pubblicitari. Il suo obiettivo era quello di trasformare il Rayo Vallecano in uno dei club più importanti di Spagna, un marchio di prestigio collegato alla sua persona, capace di andare al di là dell’aspetto sportivo. Sarebbe del tutto ingeneroso dire che il progetto non partì bene: fu all’inizio della gestione di Presa, infatti, che sorse il più grande Rayo della storia, con l’arrivo in panchina di Paco Jémez e la conquista di un clamoroso ottavo posto in Liga nella stagione 2012/2013, con il campo Franco Vazquez, Lass Bangoura e Leo Baptistão.

Ma chiaramente, Presa voleva di più: il Rayo doveva diventare un brand globale, una macchina da soldi che gli permettesse di sistemarsi a vita. Così, nel 2015 decise di aprire una succursale negli Stati Uniti, il Rayo Oklahoma City, iscritto alla seconda divisione locale. Dall’espansione a ovest, a quella a est: Presa regalò a Jémez l’attaccante Zhang Chengdong, un ragazzo di 26 anni che girava l’Europa – si era allenato col Milan, poi era finito in Portogallo e in Germania – con l’implicito ruolo di calamita per gli sponsor cinesi. L’allenatore rispose dicendo che nessuno aveva chiesto il suo parere sull’operazione, e che non apprezzava che fossero gli sponsor a definire la campagna acquisti – anche perché il presidente non aveva preso praticamente nessun altro giocatore. “Questa è probabilmente la peggior decisione che è stata presa da quando sono qui” disse Jémez, senza troppi giri di parole, durante un’intervista a Cadena Ser.
Il piano di espansione globale di Presa si rivelò fin quasi da subito non meno che catastrofico. A fine stagione, il Rayo retrocesse in Segunda División, e pochi mesi dopo si scoprì che anche la filiale americana non se la passava bene, piena di debiti fino al collo che la ridussero, infine, alla dissoluzione nel 2017. Tutto ciò non fece che aumentare i dissapori tra il tifo vallecano e il proprietario, che veniva visto come un uomo interessato solamente al profitto e per nulla all’identità del club, bisognoso di cavar fuori denaro dal calcio per coprire i debiti delle sue altre società, i cui dipendenti denunciavano mesi di stipendi arretrati. Per conto suo, Raúl Martín Presa iniziava ad avvertire un certo fastidio verso questi tifosi ingombranti, che trattavano la squadra come un loro possedimento, mentre in realtà essa era un’azienda in cui era stato lui e lui soltanto a investire dei soldi. Era chiaro che, prima o poi, qualcosa sarebbe successo.
Nel gennaio 2017, con la squadra in corsa per il sospirato ritorno nella massima serie spagnola, Presa piazzò un colpo in attacco, prendendo dal Betis la punta ucraina Roman Zozulya, che avrebbe potuto diventare il tassello decisivo per la promozione. C’era un solo problema: tre anni prima, durante la guerra nel Donbass, quando ancora giocava in patria col Dnipro, Zozulya era divenuto abbastanza celebre per aver sostenuto economicamente dei gruppi paramilitari ucraini di estrema destra. L’attaccante si sarebbe poi difeso dicendo di essere solo un patriota, e non un nazista, ma iniziarono a circolare foto di lui con un fucile in mano accanto a un quadro di Stepan Bandera, un collaborazionista dei nazisti durante l’invasione dell’Unione Sovietica.
Un’altra immagine ritraeva Zozulya sorridente su un campo da basket, con indosso una maglia col numero 18 e indicando con orgoglio il tabellone, che recava il punteggio di 14-88. 18, tra i neonazisti, indica la prima e l’ottava lettera dell’alfabeto, cioè A e H, le iniziali di Adolf Hitler. 14 è un altro simbolo neonazista, che rimanda alle 14 parole di un noto discorso del suprematista bianco David Lane. L’88, così come il 18, sta per “Heil Hitler”, e lo sappiamo bene per le polemiche su Gianluigi Buffon o, più di recente, Mateusz Praszelik. I tifosi del Rayo protestarono contro l’acquisto di Zozulya al punto che il club dovette cancellarne il trasferimento.
L’arma del delitto
La guerra scoppiò così. Sì, di scontri tra società e ultras se ne sentono e vedono tutti i giorni, ma per Presa questa faccenda era andata troppo oltre, e andava affrontata con insolita fermezza: se voleva trasformare il Rayo Vallecano in un brand apprezzato e trasversale, doveva lavargli via di dosso quel rosso da estremisti di sinistra. Doveva uccidere il Rayo, per poi resuscitarlo come una scatola vuota, come gli zombie delle origini – quelli prima di Romero e delle sue metafore politiche – da controllare a proprio piacimento.

Il reale punto di rottura si raggiunse nel dicembre 2019, quando a Vallecas venne in visita l’Albacete, che in attacco schierava proprio Roman Zozulya. Dalla curva, i Bukaneros lo accolsero con il coro “Puto nazi!”, e l’arbitro José Antonio López Toca giunse all’inaspettata decisione di sospendere la partita e rimandare le squadre a casa. Inaspettata, perché in Spagna le partite non si interrompevano del tutto neanche per razzismo – tipo come quando, ad agosto 2016, alcuni tifosi dello Sporting Gijón avevano rivolto cori da scimmia verso Iñaki Williams dell’Athletic Bilbao: breve sospensione, e poi partita ripresa – ma evidentemente dire nazista a un nazista era troppo. “Sono del tutto in disaccordo con la sanzione – dichiarò Presa dopo che la Liga multò il Rayo per i cori contro Zozulya – il club è una vittima, non il colpevole”. Un messaggio chiaro: il problema del Rayo, per il presidente, erano i Bukaneros.
Quello che accade dopo, in generale, è abbastanza noto: lo scoppio della pandemia, lo stop ai campionati, e poi la graduale riapertura con pubblico fortemente limitato, che significava di fatto nessuno spazio ai gruppi ultras. E in quel momento, Raúl Martín Presa decise di cambiare tattica, abbandonando le classiche schermaglie tra proprietà e tifosi, fatte di contestazioni e prezzi degli abbonamenti che si alzano, per passare a una vera e propria guerra sucia. Nell’aprile 2021, mentre i Bukaneros seguivano le partite da casa, si accorsero che allo stadio di Vallecas, tra lo scarno pubblico selezionato, sedevano Santiago Abascal e Rocío Monasterio: vale a dire il leader nazionale del partito neofascista e razzista Vox, e la sua candidata alle comunali di Madrid. Quanto di più lontano dovrebbe esistere dal Rayo Vallecano. “Mi hanno contattato dicendo che erano interessati a venire alla partita – spiegò in seguito il presidente – e mi è sembrato un buon modo per dimostrare che il Rayo è un club aperto a tutti, e Vallecas un quartiere che accoglie ogni persona”. Una perfetta scelta di parole, per una provocazione politica: se non poteva marginalizzare i tifosi di estrema sinistra che caratterizzavano il club, allora Presa avrebbe reso il Rayo una società simbolo dell’estrema destra.
Com’è ovvio, lo scontro degenerò. Un mese dopo, i tifosi rayisti arrivarono a chiedere espressamente alla società di rescindere il contratto del difensore peruviano Luis Advíncula, che in patria aveva preso parte a una campagna di sostegno alla candidata alle presidenziali Keiko Fujimori, estremista di destra e figlia dell’ex-dittatore sanguinario degli anni Novanta Alberto Fujimori. Nessuna risposta dalla dirigenza, che comunque stava già trattando la cessione del giocatore al Boca Juniors, per cui non se ne ebbe troppo a male. Lo scorso settembre, dopo un’emozionante ritorno in Liga, il Rayo ha acquistato l’ex-centravanti di Atlético Madrid, Monaco e Manchester United Radamel Falcao. La presentazione del colombiano, decisamente uno dei più grandi giocatori mai passati da Vallecas, è diventata però un’occasione d’oro per contestare il presidente: davanti allo sguardo imbarazzato dell’attaccante, Presa è stato bersagliato prima dai fischi, che ne hanno addirittura coperto la voce, e poi dal coro “Presa vete ya!”, ormai divenuto una sorta di inno dei Bukaneros. Del grande e strapagato campione, importava poco: l’unica richiesta che i tifosi facevano al presidente era quella di levarsi di torno.
Il colpo di grazia
È veramente curioso, ma per certi versi straordinariamente significativo, che il progetto di assassinio del Rayo Vallecano abbia raggiunto la sua fase più efferata proprio in quella che potrebbe essere la migliore stagione della sua storia, con uno come Falcao a guidare in campo la squadra. Un momento perfetto, per il golpe di Raúl Martín Presa: quale momento migliore di questo, per il passaggio dal vecchio al nuovo Rayo?
Per alzare l’intensità dello scontro, in questo conflitto si usano proiettili e ordigni davvero particolari. Uno è stato sparato nell’ottobre 2021, colpendo una vittima collaterale chiamata Jean-Paul N’Djoli, attaccante francese di 21 anni arrivato a Vallecas in estate: si era accordato a determinate condizioni, e aveva iniziato ad allenarsi in attesa che il club definisse un po’ di burocrazia; poi, ad agosto, gli era stato presentato il contratto, che era però completamente diverso da quello promesso. N’Djoli si è rifiutato di firmare, ed è finito fuori squadra e senza stipendio, costretto a vivere in un appartamento fatiscente con altre sei persone, senza abbastanza letti per tutti e quasi nulla da mangiare. Completamente abbandonato. Una pugnalata alle spalle del “club del popolo”.

Presa e il resto dei dirigenti della società hanno pianificato una serie di attacchi kamikaze all’immaginario del Rayo Vallecano. Come quelli condotti contro i ragazzi delle giovanili del club, specialmente quelli che vengono da fuori Madrid, e sono fatti alloggiare in appartamenti di proprietà del Rayo. Fino a questa stagione, la società metteva a loro disposizione anche una domestica che tenesse in ordine e cucinasse per i ragazzi, ma di recente si è deciso che era una spesa superflua – sai, quando dai 1,2 milioni all’anno a Falcao, da qualche altra parte devi tagliare – e questi giovani calciatori, che percepiscono pochissimi soldi dalla società, si sono ridotti a mangiare ai fast-food per risparmiare. Una situazione talmente grottesca che, a volte, gli stessi allenatori hanno dovuto pagare di tasca propria per garantire ai loro giocatori un’alimentazione da sportivi.
Ma si sa che, nelle guerre, spesso le cose più deplorevoli vengono compiute nei confronti delle donne. A ottobre, il presidente ha sospeso il pagamento degli affitti degli appartamenti in cui vivono le giocatrici della squadra femminile: il contratto non prevede che il Rayo sostenga queste spese, ma è sempre stata una cosa garantita alle atlete. Le ragazze del Femenino si sono ritrovate improvvisamente a rischio sfratto, mentre il club, nel frattempo, tagliava anche altre “spese inutili” come una palestra per allenarsi, un fisioterapista e un dirigente accompagnatore.
A inizio 2022, un’altra imboscata: come nuovo allenatore della formazione femminile, Presa ha scelto Carlos Santiso. A molti il suo nome non dirà nulla, ma in Spagna ha fatto piuttosto discutere: nel 2017, in un’audio reso poi pubblico, sosteneva che per rafforzare lo spirito di gruppo della sua squadra bisognasse fare “come quelli dell’Arandina”. Si riferiva a tre giocatori dell’Arandina FC, nelle serie minori spagnole, che erano appena stati arrestati per aver stuprato insieme una ragazza di 15 anni. “Ci serve di prendere una -ma che sia maggiorenne, così non finiamo nei guai- e farcela tutti assieme. Questo è quello che unisce uno staff e una squadra!” diceva Santiso. “Discorsi tra amici”, ha poi provato a giustificarsi.
I Bukaneros e gli altri gruppi di tifosi del Rayo Vallecano hanno protestato e diffuso un comunicato in cui chiedevano l’immediato licenziamento di Santiso, del tutto incompatibile con lo spirito del club, ma a ben vedere con qualsivoglia società civile. Presa rispose che la cosa non era nemmeno da discutere: “Assumiamo professionisti, non persone” ha replicato. Ennesima frase, dopo quella usata per giustificare l’invito di Abascal e Monasterio, che non ha alcun senso logico se non un’aperta provocazione ai tifosi, a cui il proprietario vuole chiarire con la massima durezza che lì comanda lui e che non c’è più spazio per il Rayo del passato. Oggi, questo è il club che invita i fascisti allo stadio per tener fuori gli antifascisti; che truffa dei ragazzini e umilia le donne.
Epilogo
Un best-seller in circolazione da quasi duemila anni ci insegna che, a volte, si può tornare indietro dalla morte. Forse non basteranno tre giorni, ma dalla sua parte il Rayo Vallecano ha una tifoseria che, in questi anni, è rimasta compatta anche di fronte al più massiccio e brutale assalto mai subito dai fan in un paese democratico. Il caso Santiso ha avuto un’eco piuttosto forte anche al di fuori della Spagna, e se il piano di Raúl Martín Presa era quello di rendere la sua azienda sportiva più appetibile agli sponsor internazionali, di sicuro lo scandalo non gli sta facendo bene.

Alla nomina del nuovo allenatore, le calciatrici rayiste, supportate dall’associazione di categoria, hanno diffuso un comunicato durissimo contro la società: “Disapproviamo e respingiamo queste affermazioni in quanto contrarie alla dignità della donna e di una gravità che in ogni caso non è accettabile. Come lavoratrici e professioniste del calcio daremo battaglia contro espressioni del genere”.
La guerra nel Rayo Vallecano non sembra finita, e ora pare la dirigenza quella costretta a doversi difendere. Nella serata di mercoledì 2 febbraio, in occasione del match di Coppa del Re contro il Maiorca, Presa ha deciso di impedire l’ingresso allo stadio agli ultras: chiunque indossasse simboli dei Bukaneros non avrebbe potuto varcare i cancelli. Alla fine, anche grazie all’intercessione dei giocatori, i tifosi sono stati lasciati passare, dopo 40 minuti dall’inizio del primo tempo e senza le magliette o altri simboli del gruppo ultras rayista. Un’altra indecenza che ha fatto discutere, sui media iberici. “La situazione tra la dirigenza e i tifosi non è delle migliori – ha detto, dopo la partita, il capitano Óscar Trejo – ma la gente sa che stiamo dalla loro parte e continueremo a esserlo, perché ciò che fanno per noi è incredibile”.
Il presidente, oggi, appare sempre più isolato, asserragliato nel suo palazzo con gli ultimi fedelissimi, la pistola fumante ancora in pugno. Là fuori, in campo, il Rayo Vallecano ha intanto conquistato la sua prima semifinale di coppa da 40 anni a questa parte.