“Voglia accettare, Signor Presidente, i miei sinceri ringraziamenti per aver scelto questo umile brasiliano per una missione così importante e, se ho accettato, è perché mi sento immensamente onorato di rappresentare Vostra Eccellenza e tutti i miei amati fratelli brasiliani.”
Pelé, in risposta a Emílio Garrastazu Médici
“Non importa chi è: fatelo seguire. Potrebbe essere un comunista.” Una voce senza volto pronuncia queste parole nell’ottobre del 1970, all’interno di un imprecisato ufficio dei piani alti del Ministero. L’uomo che dà l’ordine ha in mano un documento preoccupante: parla di una festa tenutasi qualche giorno prima a Santos, in onore di Pelé. A un certo punto, un uomo si sarebbe avvicinato a O Rei e gli avrebbe consegnato un manifesto di protesta in favore dell’amnistia per i prigionieri politici, e Pelé l’avrebbe accettato. Ha 30 anni e ha appena portato al Brasile il suo terzo titolo mondiale, che significa che la leggendaria Coppa Rimet ora resterà per sempre a Brasilia, la nuovissima capitale inaugurata appena dieci anni prima. E forse è un comunista.
In altri paesi, questa eventualità significherebbe poco; in Brasile, invece, rappresenta un grosso problema. Nel 1964, un golpe militare ha deposto il presidente trabalhista João Goulart, colpevole di aver spostato troppo verso sinistra la politica nazionale. Al suo posto, si è insediato un nuovo governo, teoricamente nominato dal parlamento ma nei fatti imposto dai militari, di carattere nazionalista, conservatore e autoritario, che ha iniziato a reprimere duramente l’opposizione politica. Quasi a simboleggiare la crisi sociale del paese, la Seleção bi-campione del mondo in carica esce inaspettatamente al primo turno di Inghilterra ’66: nel match d’esordio, i bulgari massacrano Pelé, che esce infortunato, e senza di lui il Brasile si sfalda, perdendo le due successive partite contro Ungheria e Portogallo.
Calcio e politica, in Brasile, vanno di pari passo più che in qualsiasi altra nazione del globo. Questi sono anni di crisi su entrambi i fronti, la Seleção necessita di una rifondazione e l’idea generale è che il calcio stia diventando troppo fisico per gente come Pelé. Anche il Santos – vincitore di cinque campionati brasiliani consecutivi all’inizio degli anni Sessanta, oltre che di due Coppe Libertadores e altrettante Coppe Intercontinentali – non è più lo stesso. O Rei non è più O Rei, e il pubblico si aspetta che da un momento all’altro possa annunciare il ritiro.
Nell’ottobre del 1969, la giunta militare sceglie come presidente il generale Emilio Garrastazu Médici, l’uomo che segna un deciso cambio di rotta nella politica nazionale: i legami con gli Stati Uniti di Nixon diventano più saldi, la repressione politica più violenta. L’economia, con l’aiuto americano, inizia a crescere e Médici capisce che serve una vittoria al Mondiale messicano per dare il tocco finale al restyling della dittatura. La repressione politica colpisce il ct João Saldanha, noto sostenitore comunista, a cui ufficialmente viene rinfacciato di non voler più puntare su Pelé; al suo posto arriva Mário Zagallo, che con O Rei ha giocato e vinto i Mondiali del 1958 e 1962. Zagallo è furbo, e non cambia quasi nulla dell’impostazione tattica di Saldanha, limitandosi a rimettere Pelé al centro dell’attacco col numero 10 sulle spalle: quel Brasile conquista il titolo iridato esprimendo un gioco straordinario, e schiantando 4-1 in finale l’Italia.

Ecco perché la notizia di una possibile vicinanza di Pelé ai movimenti di sinistra è una bomba che va disinnescata immediatamente. Médici, fanatico di calcio, si è esposto molto per rendere Pelé il simbolo della nazione e, per estensione, del suo governo: quando O Rei ha segnato il millesimo gol in carriera, il presidente ha organizzato per lui una sontuosa cerimonia, con tanto di sfilata in automobile per le vie di Brasilia, come si fa per gli eroi nazionali.
Qualche dubbio sulle simpatie politiche di Pelé, i militari, ce lo hanno da un po’. Sarà forse un caso che uno dei suoi più celebri amici è Lev Yashin, il portiere dell’Unione Sovietica? Si sono conosciuti nel 1958, nel match d’esordio del brasiliano nella coppa: il Brasile aveva vinto, Pelé era stato tra i migliori in campo, e il gigante russo era andato a fargli i complimenti. Da allora sono rimasti in contatto e si sono incontrati varie volte; il regime sovietico si è sempre fatto un vanto di quell’amicizia tra il loro campione e il calciatore più forte del mondo, e Pelé non ha mai dato prova di fastidio verso quella strumentalizzazione.
Non è stata la dittatura militare, in fondo, a trasformare Pelé in un mito nazionale: prima di Médici e dei suoi, O Rei è stato l’eroe del governo centrista di Juscelino Kubitschek – che aveva usato le vittorie della Seleção del 1958 e della tennista Maria Bueno a Wimbledon 1959 come volano per la modernizzazione del paese – e poi di Goulart, il grande nemico dei militari. Médici sa che deve fare di più se vuole assicurarsi la fedeltà di Pelé. Innanzitutto, farlo spiare, per essere sicuro che non sia un doppiogiochista. Una volta appurato questo, farlo sentire coccolato, importante come nessun altro governo ha mai fatto prima. La gente, in ogni parte del mondo, deve guardare Pelé e vedere il Brasile, guardare il Brasile e vedere Pelé.
Così, un mese dopo, la dittatura fornisce a Pelé un passaporto diplomatico e lo manda in missione a Guadalajara, Messico, dove sta per essere inaugurata la nuova Plaza Brasil: è un evento molto importante, poiché Guadalajara è la città che ha ospitato la Seleção durante i Mondiali, e l’inaugurazione è un modo per aiutare il governo di Brasilia a stringere nuove relazioni internazionali nel continente. Pelé accetta senza indugi, e nella sua lettera riempie di elogi Médici, dichiarandosi onorato di rappresentare il governo a livello internazionale. I militari sono felici.

In quel momento, Pelé diventa il vero ambasciatore del Brasile nel mondo, e mentre Médici è sempre più brutale nella repressione, O Rei va oltre confine a raccontare un paese totalmente diverso. “Non c’è nessuna dittatura in Brasile” dice, nel 1972, al giornalista del quotidiano uruguayano La Opinión che lo sta intervistando. Mentre queste succede, in Brasile centinaia di persone sono già state fatte sparire nel nulla, applicando un modello che pochi anni dopo verrà ripreso in Argentina. Ancora più gravi sono le violenze, di cui quasi nessuno sa nulla, contro la popolazione indigena: dopo il ritorno alla democrazia, si arriverà a contare almeno 8.000 nativi sterminati dai militari.
E allora cos’era successo, in quella festa dell’ottobre del 1970? Secondo i servizi segreti brasiliani, che hanno condotto un’inchiesta approfondita, nulla di significativo. Pelé aveva accettato il volantino, ma chiarendo che non aveva intenzione di fare nulla: “Mi occupo di sport, non di politica” aveva risposto ai dissidenti. Non era la prima volta che dei militanti di sinistra provavano a contattarlo per chiedergli di fare da loro portavoce – era già accaduto durante i suoi viaggi in Messico e Colombia, con la nazionale o con il Santos – e O Rei aveva sempre rifiutato, spiegando di essere contrario al comunismo. I militari sono molto felici.
Nel 1974, ormai 34enne, Pelé decide di lasciare il Brasile: da tre anni non gioca più per la Seleção, anche se qualcuno lo vorrebbe ancora ai Mondiali del 1974, e adesso decide di chiudere anche con il Santos e trasferirsi negli Stati Uniti. Fuori dall’ambito sportivo, nessuno ci dà molto peso: è solo la naturale conclusione della carriera di un calciatore. Solo anni dopo, rivelerà di aver rifiutato il ritorno del 1974 e di aver lasciato il paese come forma di protesta silenziosa verso il regime. “Ero infelice per la situazione nel paese. La dittatura stava chiedendo troppo al popolo.” Ma aggiungerà anche che le cose, rispetto al 1970, erano peggiorate, difendendo implicitamente il suo comportamento precedente e in un certo senso scaricando le colpe sul nuovo presidente Ernesto Geisel, in carica dal marzo del 1974 e che in seguito verrà identificato soprattutto con il clamoroso omicidio del giornalista dissidente Vladimir Herzog; non il primo né l’ultimo, ma sicuramente quello più rumoroso tra i crimini del regime.
Alla caduta della dittatura, nel 1985, la figura di Pelé sarà per sempre compromessa con la violenza di Médici, ma la maggior parte dei tifosi sceglierà di chiudere un occhio, in rispetto al grande campione. Nel frattempo, altri calciatori avranno conquistato i cuori dei brasiliani antifascisti, Sócrates in particolare. Pelé farà il possibile per allontanarsi da quel passato, dicendo e facendo cose che, per un motivo o per l’altro, non aveva detto e fatto quando avrebbe contato di più.
Fonti
–Calcio, Brasile: Pelè spiato durante la dittatura militare, La Repubblica
–CARVALHO Samir, Pelé adopta tom crítico e diz que boicotou Copa de 74 contra ditadura, UOL
–DE CASTRO Lúcio, Com ‘imensa satisfação’, Pelé serviu Médici no ano do tri, ESPN
–PIRES Breiller, A seleção que ‘presenteou’ a ditadura com uma taça, El País
–O dia em que Pelé não ajudou presos políticos e se disse contra o comunismo, Blog do Perrone
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