“In Brasile c’è poco razzismo; nella nostra casa venivano ospiti che erano neri, bianchi, mulatti, giapponesi, insomma di ogni colore possibile, e a nessuno è mai importato niente.”
Pelé
Svezia, 1958. C’è grande clamore attorno al Brasile, soprattutto tra le tifose, che ogni tanto passano dall’albergo dove alloggiano i sudamericani per vedere se riescono a incontrare un calciatore. Pelé fa colpo sulle ragazze, anche se in maniera un po’ diversa rispetto a come ha fatto colpo sul ct Vicente Feola, ammaliato dal gioco che quel diciassettenne ha espresso con la prima squadra del Santos: le ragazze lo accarezzano sorprese, quasi sicuramente è il primo nero che vedono. I suoi compagni di squadra assistono alla scena e ne approfittano: “Signorina, guardi che quel colore non va via, neanche a lavarlo!”
In Brasile, una battuta del genere a un nero, è una cosa comunissima. A parlare di razzismo, anche Pelé resta un po’ sbigottito: la faccenda è talmente radicata, che quasi nessuno ci fa caso che moleque – un termine che si usa per i ragazzini neri – in origine indicasse unicamente i teppestelli di strada. Lo stesso Pelé, nei suoi primi anni da calciatore, era noto come Gasolina, per alcuni perché era veloce e infaticabile, per altri perché la benzina viene dal petrolio, che ha lo stesso colore della sua pelle. I bianchi della Seleção, ora, lo prendono in giro chiamandolo Alemão, “tedesco”.
Tutto normalissimo. Qualche anno prima, Gilberto Freyre scriveva che “la prova basilare dell’assenza di razzismo tra i portoghesi si trova in Brasile, dove la grande la grande e socialmente prominente popolazione meticcia sta vivendo testimone della libertà sociale e sessuale dell’intercorso tra i portoghesi e i non-europei”. È il lusotropicalismo, la teoria per cui i portoghesi sarebbero stati colonizzatori migliori degli altri popoli europei, sotto il profilo dell’integrazione etnica. Negli anni, Freyre – brasiliano bianco di Recife, nato in una colta famiglia alto-borghese – è stato più volte ripreso ed estremizzato per raccontare un Brasile privo di discriminazioni razziali, in aperto contrasto con la realtà dei fatti.
In un tempo ormai lontanissimo, per 350 anni i portoghesi hanno rapito gente sulle coste dell’Africa per portarla a lavorare in schiavitù in Brasile: Pelé e i suoi compagni hanno solo una vaga consapevolezza che, tra quei disperati, c’erano pure i loro antenati. La schiavitù è sparita da un po’, ma guarda caso i poveri sono quasi tutti neri, e i ricchi quasi tutti bianchi. Ai tempi dei suoi nonni, un certo Raimundo Nina Rodrigues, antropologo, diceva che se il Brasile era una nazione arretrata era a causa della mescolanza razziale, e che andavano approvate leggi speciali in base al colore della pelle, per separare i neri dai bianchi. Dalla fine dell’Ottocento fino al 1910, il governo brasiliano destinò fondi speciali per invogliare l’immigrazione dall’Europa, così da aumentare la presenza di bianchi nel paese e sopprimere la cultura afro-brasiliana.

L’8 giugno, si gioca la prima partita del torneo contro l’Austria. Nella formazione che Feola manda in campo, c’è un solo nero, Didi, che è stato capocannoniere del campionato e la cui riserva è comunque nera. Ovvio che scommettere su un ragazzino come Pelé sia chiedere troppo, ma il ct lascia fuori anche fenomeni come Garrincha, Djalma Santos, Zózimo e Vavà. Non si tratta di una follia di Feola, ma di una predisposizione culturale: parafrasando Nina Rodrigues, la società brasiliana ritiene che la colpa delle disfatte della Seleção dei Mondiali passati sia dell’indolenza dei calciatori neri. Come Moacir Barbosa, eccezionale portiere del Vasco da Gama divenuto l’uomo più odiato del Brasile perché ritenuto il principale responsabile del Maracanazo.
L’ostracismo verso i neri si ripropone nel secondo match contro l’Inghilterra, che però si conclude con uno scialbo pareggio, corredato dalle critiche della stampa. Costretto al dentro o fuori contro la fortissima Unione Sovietica, Feola rivoluziona la squadra, toglie Altafini e inserisce Pelé, più Garrincha e Vavà. Il Brasile vince 2-0, e i neri diventano imprescindibili nell’undici titolare: due settimane dopo, il Brasile è campione del mondo per la prima volta nella storia. Da qui in avanti, la considerazione dei neri e dei mulatti nel calcio verdeoro cambierà radicalmente.
Nel resto della società, invece, sopravvivrà immutata. Poco dopo i Mondiali, Pelé viene invitato a São Paulo per una cena in suo onore; si fa accompagnare in macchina da un amico, ma l’auto si rompe e proseguono a piedi. Arrivati in ritardo, gli domandano perché non abbiano chiesto un passaggio, e Pelé risponde automaticamente: “Chi avrebbe preso a bordo due ragazzi neri, di notte, su una strada deserta?” E tutti sanno che ha ragione. In questo periodo, inizia a frequentare una ragazza bianca di nome Rosemeri, ma gli appuntamenti sono una delle cose più strane in cui si sia mai imbattuto: non può uscire da solo con lei, che dev’essere sempre accompagnata da un parente. Se vanno al cinema, lei entra con il parente, e solo una volta iniziato il film Pelé può raggiungerla in sala. In campo e sulle pagine dei giornali sportivi è un eroe nazionale, ma per strada è solo un altro un nero qualsiasi.
Nel 1966, ormai è bi-campione del mondo e, grazie al suo nuovo contratto col Santos, molto ricco. Sposa finalmente Rosemeri. In quei giorni, la stampa brasiliana insiste nel rimarcare la stranezza di quel matrimonio tra una donna bianca e un crioulo. A leggere quegli articoli, Pelé torna con la mente a quando aveva dodici o tredici anni, quando a scuola ebbe la sua prima fidanzatina, sempre bianca: un giorno, il padre di lei scoprì la cosa, la venne a prendere, la sgridò davanti a tutti e la picchiò per essere andata in giro mano nella mano con “questo vagabondo nero, questo straccione, questa immondizia!” I due, ovviamente, non si rividero mai più.

Quel ricordo è stato uno di quelli che più l’hanno segnato. Soprattutto, non riesce a dimenticare il senso di impotenza che provò, e la vergogna per non essere intervenuto a difenderla. La verità, però, è che per tutta la sua carriera Pelé ha avuto un solo e unico comportamento nei confronti del razzismo: lo ha ignorato. Non si trova una sua sola presa di posizione, mentre giocava, in favore della lotta antirazzista, né in Brasile né negli Stati Uniti. Solo dopo il ritiro, nella sua autobiografia, rievocherà molti di questi episodi, ma sempre ripetendo che in Brasile non c’è davvero un problema di discriminazione razziale, almeno non come in altri paesi. Non ha mai letto Freyre, anche se non si direbbe.
Pelé si porrà sempre come il perfetto rappresentante di un’idea di calcio fanciullesca ed estetica, di bellezza e divertimento, lontana dalle questioni sociali, venendo innalzato a immagine del Brasile e del suo futebol bailado. Difficile non notare che, mentre questo succedeva, il suo paese era stretto nella morsa di una dittatura di destra repressiva e razzista, che sfruttava il calcio per fare bella figura davanti al mondo. Come immagine della nazione, Pelé accetterà anche di essere, suo malgrado, immagine di quella dittatura, legittimata dai suoi successi sportivi.
Come tante persone, è sempre stato consapevole del problema del razzismo. Una volta che si trovava a Dakar, si era creata una gran folla fuori dal suo albergo per vederlo, e la proprietaria – una donna bianca francese – l’aveva scacciata urlando epiteti razzisti. Un poliziotto l’aveva udita e prontamente arrestata, così il marito della donna e alcuni amici erano venuti da lui a chiedere d’intercedere perché la scarcerassero. Pelé si rifiutò: “Dissi loro che quella donna aveva offeso la gente per cui ero venuto a giocare, che l’aveva offesa sulla base del colore della loro pelle, che era il colore della mia, e che mi sentivo altrettanto offeso”.
Ma, appunto, tutto questo lo avrebbe raccontato anni dopo. Avrebbe raccontato anche dei numerosi insulti razzisti subiti dagli avversari in campo, per poi precisare che alla fine della partita tutti venivano da lui a scusarsi, e che quindi non era da ritenere vero razzismo, ma cose che dicono nella foga agonistica. “In oltre vent’anni di carriera – dirà in un’intervista – ho imparato a passare sopra alle offese dovute al fanatismo di tifosi e giocatori.” La voglia di evitarsi problemi, compiacendo così i razzisti, alla fine prevale: non è una colpa, è un sistema di pensiero che ti viene inculcato nella testa. Era un calciatore, e voleva giocare a calcio. Questa non è solo la storia di Pelé, ma del razzismo nella società occidentale: nascosto sotto il tappeto, scusato, legittimato. Chissà cosa ne pensa, oggi, di Jair Bolsonaro.
Fonti
–Pelé fala sobre o racismo: “No fim do jogos, todos vinham me pedir desculpas”, ISTOÉ
-PELÉ, FISH Robert L., La mia vita è il più bel gioco del mondo, Sperling & Kupfer Editori
–WILKSON Adriano, Pelé foi alvo de racismo na carreira, mas ignorou luta antrracista, UOL
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