Ciò che Sunderland ‘til I die non dice

“È un documentario molto ben fatto e sta avendo grande pubblicità, ma dal mio punto di vista sono un po’ deluso da come ci hanno raffigurato.” Simon Grayson parla a TalkSport con l’equilibrio e la moderazione che lo hanno contraddistinto in tutta la sua carriera: sarebbe facile scagliarsi lancia in resta contro il fenomeno del momento e criticarne la faziosità, ma lui preferisce essere obiettivo. Sa quanto Sunderland ‘til I die significhi per i tifosi del Sunderland e, in generale, per tutti i tifosi di calcio. Ma ogni esperto d’intrattenimento sa che anche nei documentari è la finzione a farla da padrona.

Un salto indietro, per dare un minimo di contesto. Nell’estate del 2017, la dirigenza del Sunderland – piccolo ma molto amato club del Nord-Est inglese, appena retrocesso in seconda divisione dopo dieci anni di Premier League – accetta che una troupe segua la squadra per tutta la stagione per realizzare un documentario per Netflix e raccontare il grande ritorno del club nella massima serie inglese. Il destino, però, vuole che l’annata sia catastrofica, e non solo i Black Cats non ottengono la promozione, ma addirittura subiscono una shockante retrocessione in League One, da cui si tenevano alla larga dal 1988. E la critica concorda che questa imprevedibile e drammatica conclusione è ciò che rende Sunderland ‘til I die uno dei più bei prodotti d’intrattenimento sportivo di sempre.

Ma per girare una serie, per quanto documentaristica, bisogna fare delle scelte: occorre prendere decisioni sul tipo di narrazione che si vuole fare, e ogni decisione (presa successivamente, a stagione finita e quando tutto il girato dev’essere montato e tradotto nella serie vera e propria) comporta delle semplificazioni della realtà. Il taglio che viene dato alla storia è quello di una squadra dalla straordinaria tifoseria, ma gravata da altri problemi: dirigenti disinteressati, giocatori pronti ad abbandonare la barca che affonda, allenatori che non sanno che pesci pigliare. È necessario un villain, per definire la grandezza dell’eroe.

 

L’uomo in panchina

Simon Grayson è uno dei primi a farne le spese. È un buon allenatore di nemmeno cinquant’anni, con alle spalle una discreta carriera da calciatore. Nel 2007 ha portato il Blackpool a una inattesa promozione in Championship, dopo un paio d’anni passati a lottare per non retrocedere in quarta serie; al Leeds, il club in cui è cresciuto, ottiene una seconda promozione in Championship nel 2010, e ci riesce di nuovo cinque anni dopo con il Preston North End. È un uomo mite, un po’ introverso, ma che ha sempre ottenuto buoni risultati e ora si trova a disposizione una squadra che, al netto dei problemi societari, vanta giocatori di categoria superiore come Paddy McNair, Lee Cattermole, John O’Shea, Jack Rodwell e Aiden McGeady.

Grayson arriva al Sunderland che la società ha già chiuso l’accordo con la produzione, “Non ho avuto l’opportunità di dire no. Quello che ho detto loro è che non avrebbero potuto avere accesso allo spogliatoio o ad altre determinate aree.” Da allenatore, deve proteggere il suo lavoro da distrazioni esterne, è ovvio; ma alla fine qualcuno in alto deve aver fatto qualche pressione, perché nella prima stagione assistiamo a scene girate tra i giocatori anche all’interno dello spogliatoio. Grayson non ha il potere politico per contrattare con la società su questo, soprattutto nella situazione in cui sta il Sunderland.

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Dopo l’esperienza al Sunderland, Grayson è sceso in League One per allenare il Bradford City, ma non è riuscito a evitare alla squadra la retrocessione. A febbraio 2020 è stato esonerato anche dal Blackpool, sempre in League One.

L’immagine che emerge del tecnico dello Yorkshire è quella di un uomo non in completo controllo del club e incapace di risollevare il morale della squadra. Il montaggio indugia su tifosi e commentatori radiofonici che mettono in dubbio le sue abilità, descrivendo una situazione ingestibile. “In una delle scene mi mostrano – aggiunge Grayson parlando al podcast EFL – mentre faccio che quello che sembra un grande discorso motivazionale alla Winston Churchill, che però appare piuttosto debole. In realtà, si trattava solo di un incontro sei ore prima di un match di pre-season in cui stavo dando gli ultimi dettagli tattici ai giocatori. Non ho mai pensato dovesse essere un discorso motivazionale.”

Così, a fine ottobre, Grayson viene licenziato, e in breve sostituito da Chris Coleman. È un gallese sanguigno, da giocatore è stato una bandiera di Crystal Palace e Fulham; a 33 anni era già sulla panchina dei Cottagers in Premier League, poi ha allenato in Spagna e in Grecia, ma le cose migliori le ha fatte con la nazionale del Galles, con cui ha raggiunto le semifinale degli Europei 2016. Quest’ultimo episodio è largamente raccontato nella sua presentazione nella serie, a differenza dei precedenti successi di Grayson. Ma in realtà è tutto il personaggio di Coleman a venire presentato con grande enfasi, come un salvatore della patria, demolendo ulteriormente la figura del suo predecessore.

A differenza di Grayson, Coleman è molto più spigliato, sembra un oratore più coinvolgente, ed è pure più giovane e belloccio; si concede anche alcune riprese assieme ai suoi famigliari, che danno al personaggio una profondità maggiore. Ma anche lui si trova molto a disagio con l’idea di avere telecamere a sorvegliare ossessivamente il suo lavoro. È subito molto drastico: le riprese nello spogliatoio non sono permesse, il lavoro della squadra va tenuto separato dallo show. La svolta nel tipo di materiale che Sunderland ‘til I die mostra agli spettatori dopo l’arrivo del gallese è abbastanza evidente. Nonostante ciò, i risultati di Coleman sulla panchina dei Black Cats saranno disastrosi, e con la retrocessione in League One anche lui verrà esonerato.

 

L’uomo coi soldi

Il proprietario Ellis Short è il vero cattivo della prima stagione. Nonostante sia di fatto l’uomo che ha accettato che la serie stessa venisse girata, con il chiaro intento di attirare l’interesse di nuovi investitori sul club. Da manuale dello storytelling, non appare mai in Sunderland ‘til I die: è sempre nominato – anzi, evocato – in particolare dal dirigente Martin Bain, che fa di tutto per mettere in chiaro, pur con una certa difficoltà, che Short ha investito molto nel club ma ora non è più disposto a spendere simili cifre senza ottenere risultati. Di proprietari come lui, nel calcio, ce ne sono moltissimi.

L’unica apparizione la fa a fine stagione, quando le telecamere lo inseguono lungo una strada di Londra, dopo un incontro d’affari che potrebbe significare la cessione del club. Un momento che la serie è brava a costruire, dando più volte la parola ai tifosi che chiedono a gran voce che Short si faccia da parte il prima possibile. Tutto, nell’impostazione della storia, contribuisce a restituire l’idea di questo misterioso miliardario straniero che non vuole essere ripreso e non ha alcun interesse nel Sunderland: la cessione è un momento catartico che segna una delle svolte della serie.

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Stewart Donald accanto al suo socio Charlie Methven, mentre annunciano la rivoluzione in casa Sunderland. Methven, tra i protagonisti positivi della serie, ha avuto in realtà un complicato rapporto con i tifosi, che ha accusato di essere dei “parassiti” che preferiscono vedere le partite in streaming illegale invece di venire allo stadio; lo scorso dicembre, ha annunciato le sue dimissioni.

È indubbio che Ellis Short abbia smesso di investire nel club, e che questa sensazione di disinteresse abbia gravato negativamente sulle prestazioni della squadra, oltre che sul budget. Ma nei nove anni precedenti, Short ha speso decine di milioni di sterline per portare al club alcuni ottimi giocatori (Darren Bent, Asamoah Gyan, Connor Wickham, Steven Fletcher, Adam Johnson, Fabio Borini, Didier N’Dong) e anche importanti allenatori (Martin O’Neill, Paolo Di Canio, Dick Advocaat, David Moyes). I risultati sono sempre stati mediocri – il Sunderland non è mai andato oltre il decimo posto – ma i soldi, Short, li ha spesi eccome.

Dall’uomo senza volto a quello onnipresente: il nuovo proprietario Stewart Donald, che appare alla fine della prima stagione, è l’esatto opposto di Short. Innanzitutto è inglese, e poi è molto affabile, al punto da diventare praticamente il vero protagonista della stagione 2 (anche perché, nel frattempo, il nuovo allenatore Jack Ross ha chiesto che le telecamere se ne stiano ancora più fuori dagli affari della squadra). Il confronto tra il vecchio miliardario straniero e annoiato, e l’appassionato ma non ricchissimo giovane proprietario che si comporta da bravo vicino di casa, è impietoso.

Attualmente, le telecamere di Netflix non stanno seguendo il Sunderland (peccato: con lo stop dovuto al coronavirus, questa nuova annata sarebbe potuta essere ancora più sensazionale delle precedenti). Altrimenti, avrebbero dovuto raccontare come, lo scorso dicembre, Donald abbia deciso di mettere il club ufficialmente in vendita, dopo solo un anno e mezzo di proprietà: negli ultimi minuti dell’episodio finale della serie, uscito a inizio aprile, lo potete invece vedere mentre dichiara di voler restare lì “a lungo”. Il ‘cattivo’ Ellis Short, che per anni ha investito nel club a fondo perduto, prima di andarsene ha risanato ogni debito; il ‘buono’ Stewart Donald non è riuscito a portare la squadra in Championship nella prima stagione, e ha deciso fosse meglio andarsene. I tifosi, che nel corso della serie abbiamo spesso di visto in totale comunione con Donald, non l’hanno presa benissimo.

 

L’uomo in campo

Se i calciatori sono croce e delizia dei tifosi, Sunderland ‘til I die non poteva esimersi dal raccontare soprattutto loro. Sono molti i personaggi della rosa del Sunderland che emergono positivamente nel corso delle due stagioni, ma anche tra di essi si trovano dei villain: traditori e ingrati, sono i giocatori che potrebbero aiutare il club a risollevarsi e invece lo affossano.

Il primo di questi è chiaramente Lewis Grabban, il miglior realizzatore della squadra in Championship che, a gennaio 2018, passa all’Aston Villa. Grabban non si è mai tirato indietro davanti alle telecamere, spiegando anche le sue ragioni dopo il trasferimento, ma la sensazione che si ha di lui è che sia un egoista che abbandona la squadra nel momento del bisogno. Però, lo stesso Grabban ha raccontato che la situazione del club non era ideale e c’erano poche prospettive per il futuro (come infatti abbiamo poi visto). Inoltre, lui si trovava a Sunderland in prestito dal Bournemouth, che ha deciso di richiamarlo per girarlo poi all’Aston Villa, con cui a fine stagione Grabban ha ottenuto una promozione in Premier League: l’addio non è stato solamente una sua responsabilità.

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Josh Maja festeggia un gol con il Sunderland: ne ha segnati in tutto 23 con i Black Cats. 9 sono invece le reti segnati in poco più di un anno al Bordeaux, di cui 6 nel campionato in corso.

Nella seconda stagione, il ruolo di Grabban lo prende Josh Maja. È un ragazzo cresciuto nelle giovanili del club che trova spazio già come personaggio secondario nella prima stagione, per poi diventare il bomber della squara in League One: assistiamo a un’infilata di partite di cui ci vengono mostrati solo i suoi gol, e facendoci apparire il Sunderland come una macchina da calcio inarrestabile (anche se poi viaggiava tra il secondo e il terzo posto in un campionato che, da pronostici, avrebbe dovuto dominare). Quindi, a gennaio anche Maja sceglie di cambiare aria, approfittando della scadenza del contratto: è uno dei grandi momenti della serie. In una scena registicamente perfetta, il ragazzo spiega – visibilmente imbarazzato – che non sa cosa sarà del suo futuro e che non è vero che vuole andarsene. La macchina da presa si concentra sulle sue dita che tamburellano nervosamente sulla cover del cellulare: l’immagine straordinaria di un bugiardo, che già sa che tradirà ma si vergogna ad ammetterlo.

Josh Maja, all’epoca, aveva appena compiuto 20 anni e la terza serie inglese gli andava decisamente stretta: era arrivato al Sunderland nel 2015, quando il club ancora militava in Premier League, strappato all’ultimo al fortissimo e ricchissimo Manchster City, e ora si trovava a giocare in terza serie. Non dovrebbe sorprendere la sua decisione di firmare il prima possibile con il Bordeaux, una delle squadre più note della prima divisione francese. Eppure, il suo controverso trasferimento diventa occasione per mettere in scena una sfuriata contro lo strapotere dei procuratori calcistici e in difesa dei proprietari dei club. La verità, come spiegato poi da Phil Smith sulla stampa locale, è che il Sunderland “è stato punito per non aver pianificato in anticipo”, lasciando arrivare il contratto di una promessa a poche settimane dalla scadenza.

D’altro canto, uno dei protagonisti che si perdono di vista nel passaggio da una stagione all’altra è quello che viene presentato come il miglior amico di Maja, Joel Asoro: al termine dei primi otto episodi, l’attaccante svedese riceve il premio come giovane dell’anno del Sunderland, ma nell’annata successiva è del tutto scomparso, come volatilizzato. Nell’estate 2018, al riparo dalle telecamere, Asoro ha deciso di firmare per lo Swansea, un club appena retrocesso in Championship, piuttosto che scendere di categoria. Come vedete, la fuga da Sunderland non è stata la malsana idea di qualche ingrato, ma un pensiero comune e, per certi versi, comprensibile. Solo che Asoro era stato uno dei personaggi positivi di Sunderland ‘til I die, mettendo in ombra lo stesso Maja, e la sua immagine è stata preservata pulita.

Tra tutti, però il villain più odioso è probabilmente Jack Rodwell, l’ex-nazionale inglese ed ex-Manchester City che, a dispetto del suo faraonico stipendio, si rifiuta di giocare e pure di rescindere il contratto, e appare solamente di sfuggita mentre scappa dalle telecamere con fare colpevole. Martin Bain, a un certo punto, arriva sostanzialmente ad accusarlo di stare sabotando il club di proposito. La carriera di Rodwell non ha certo tratto giovamento dal modo in cui è stato dipinto in Sunderland ‘til I die: in poco tempo è passato dall’essere uno stimato centrocampista nel giro dell’Inghilterra al giocare in una modesta squadra di Championship come il Blackburn e ad essere bersaglio degli insulti di diversi tifosi. “Ci sono due parti della storia” ha affermato di recente Chris Wilder, dirigente dello Sheffield United che, a gennaio, ha dato a Rodwell l’opportunità di tornare in Premier League. Wilder ha difeso il giocatore a spada tratta, accusando il documentario di Netflix di averne restituito una visione distorta per scopi d’intrattenimento.

 

L’uomo che osserva

È fuori discussione l’ottima qualità di Sunderland ‘til I die, e non si può negare che abbia diversi aspetti positivi: può avvicinare al calcio molte persone che normalmente non ne sono attratte, e aiutare a comprenderne meglio i meccanismi a diversi tifosi; ha sicuramente aumentato la fama del Sunderland in un periodo critico, in cui di norma si perde d’importanza invece di acquisirla, e questo ha ripercussioni a livello di merchandising. I tifosi dei Black Cats hanno visto due delle annate più deludenti della loro storia trasformate in una spettacolare epica socio-sportiva di successo internazionale, e questo è un piacere impagabile.

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Darrin Gibson è un altro dei personaggi controversi della serie: ex-Manchester United ed Everton, è stato al centro di diverse polemiche per accuse ai compagni e guida in stato di ebrezza, che hanno portato al suo allontanamento dal club. I suoi problemi psicologici sono stati del tutto tralasciati.

È più difficile, invece, calcolare quanto possa aver influito l’onnipresenza delle telecamere sul rendimento della squadra, aggiungendo pressione e distrazioni a una rosa già mentalmente scombussolata. Chiunque abbia a che fare con il cinema sa bene che non esiste l’osservazione imparziale e ininfluente della realtà: il semplice fatto di mettere una telecamera davanti alle persone altera il loro modo di comportarsi. La sovraesposizione mediatica di un ragazzino che gioca nelle serie minori come Josh Maja potrebbe benissimo aver avuto un ruolo nell’accrescere l’interesse dei club (soprattutto quelli stranieri) sulle sue prestazioni, o nel suo desiderio di ambire a qualcosa di più.

Quanti, tra i tifosi del club, hanno invece pensato che questa storia di Netflix li abbia resi una sorta di “fenomeno da baraccone” del campionato? Nella prima stagione assistiamo in maniera abbastanza inequivocabile a un alterco tra alcuni tifosi e la troupe, e chissà se altri sono stati tagliati, o semplicemente repressi dagli stessi supporters.

Alla fine, messo da parte l’aspetto artistico e romantico della vicenda che narra, Sunderland ‘til I die è innanzitutto il racconto del tragico disfacimento di un club di calcio un tempo glorioso. Nel corso di due stagioni, la società ha triturato tre allenatori giovani e quotati (il terzo, Jack Ross, arrivava da una convincente promozione con il St.Mirren e dal titolo di allenatore dell’anno in Scozia), spappolato le carriere di giocatori di prima fascia, e fatto diversi tagli al personale. Il Sunderland è diventando un modello di come non si gestisce una squadra di calcio.

Oggi, in condizioni finanziarie ancora più precarie e sull’orlo dell’ennesimo cambio societario, il Sunderland milita ancora nella League One, dove è settimo e attualmente fuori addirittura dai play-off. Il suo allenatore – Phil Parkinson, ex-Bradford e Bolton – è al centro delle critiche per i risultati scarsi e il gioco non esaltante. Ma stavolta niente telecamere: “Se verranno promossi, magari ci sarà una storia da raccontare – ha spiegato il produttore Leo Pearlman – Ma questo è decisamente un buon momento per abbandonare la storia.”

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1 commento su “Ciò che Sunderland ‘til I die non dice”

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