“Tante persone, ma un solo grande silenzio.” – Francesco Guccini
Józef ha 22 anni, è giovane ma già una bandiera del piccolo Jutrzenka di Cracovia, e sta bruciando le tappe in Nazionale. Dopo nemmeno mezzora di gioco, si ritrova sul dischetto del calcio di rigore, prende la rincorsa più coraggiosa della sua giovane vita e segna il gol del vantaggio in casa della Svezia: è la prima rete della storia della Polonia, il 28 maggio 1922. Tre anni dopo, Józef si trasferisce al Maccabi di Varsavia, continua la sua carriera, si ritira e va a vivere la comune vita di un calciatore non troppo famoso dell’epoca. Poi, la Germania invade la Polonia, in breve occupa Varsavia; Józef è ebreo, in qualche modo i tedeschi lo scoprono, e nel 1941 la sua storia finisce del tutto. Józef Klotz, 41 anni, Cracovia.
Al di là di quella storica rete, Klotz non è stato un calciatore particolarmente celebre nella Polonia dell’epoca, non quanto Leon, brillante ala sinistra del KS Cracovia, con cui vince tre campionati da assoluto protagonista, con i suoi dribbling e i suoi assist precisi, tra il 1921 e il 1932. Gioca sedici partite con la maglia della Nazionale, tra cui quella della vittoria in Svezia aperta da Klotz e l’unico match disputato alle Olimpiadi del 1924. Poi i tedeschi: anche Leon è ebreo, così viene trasferito nel ghetto di Leopoli, dove nel 1941 dei soldati gli sparano. Leon Sperling, 41 anni, Lwów.
Otto è viennese, negli anni Venti disputa alcune partite in Nazionale e con le maglie prima del First e poi del Hakoah, due club della capitale austriaca. Appesi gli scarpini al chiodo diviene allenatore, iniziando nel 1928 con una fugace e poco convincente esperienza al Napoli, ma le cose migliori le fa successivamente in Jugoslavia; infine si trasferisce in Lituania per allenare l’Olimpia Liepāja. Non sa quanto l’antisemitismo sia diffuso da anni nel paese: già nel 1895 la famiglia del rabbino Buchalter aveva lasciato Žagarė per l’Irlanda, dove aveva cambiato nome in Bookman e dove il figlio Louis si era affermato come un ottimo calciatore. Otto, in Lituania, allena e si guadagna da vivere come fabbro, quando i Nazisti arrivano anche qui, trovando la complicità di molti abitanti: tra il giugno e il dicembre 1941, circa 6mila ebrei vengono rastrellati in tutta la città e giustiziati brutalmente nelle strade, nei parchi e nello stadio, e lui è uno di loro. Otto Fischer, 40 anni, Liepāja.

Poi c’è József, una delle migliori ali destre del mondo. Ha esordito nel 1916 nel MTK Budapest e si è presto affermato come un giocatore dalla classe cristallina, stella dell’Ungheria alle Olimpiadi del 1924. In quell’occasione, i magiari sono dati per favoriti, e invece vengono eliminati agli ottavi di finale dall’Egitto: una decina di giocatori di quella squadra sono ebrei, che giocano nel teso clima antisemita incentivato dalle politiche di Miklós Horthy; a causa delle discriminazioni e del boicottagio implicito del governo, i giocatori decidono di perdere la partita di proposito. Assieme a József ci sono Gyula Mándi, Béla Guttmann, József Eisenhoffer, Ferenc Hirzer, Henrik Nádler e Árpád Weisz. Dopo il grande ammutinamento del 1924, József e altri suoi compagni pensano sia meglio lasciare il paese: lui, come Guttmann, si trasferisce negli Stati Uniti, e va a giocare con il Brooklyn Hakoah e con il Brooklyn Wanderers. Poi, negli anni Trenta, decide di tornare in Europa, per allenare il MTK e lo Slovan Bratislava. Dieci anni dopo, lì arriva anche la guerra. Viene catturato dai tedeschi e inviato in un campo di lavoro in Ucraina, da cui non cui non torna più. József Braun, 41 anni, Kharkiv.
Il suo amico Árpád Weisz, che gli ha fatto da riserva in Nazionale, ha avuto una buona carriera da calciatore, prima con Törekvés e Maccabi Brno, e poi in Italia, con Alessandria e Inter. Quindi, è diventato il più grande allenatore del mondo: appena trentenne, si siede sulla panchina dell’Inter, e in pochi anni porta i Nerazzuri al titolo nazionale, il primo del campionato a girone unico; allena il Bari, il Novara, e infine si accasa al Bologna, e lo trasforma nella squadra più forte d’Italia, vincendo due campionati tra il 1935 e il 1937, e anche d’Europa, conquistando il titolo nel torneo dell’Expo di Parigi del 1937 con una storica vittoria sul Chelsea per 4-1. Le leggi razziali gli rendono impossibile lavorare, e lo costringono a espatriare nei Paesi Passi, dove finisce ad allenare il Dordrecht. I Nazisti arrivano anche lassù: nel maggio del 1942 venne arrestato assieme ai suoi famigliari e internato ad Auschwitz.
Il campo di concentramento che diverrà il simbolo della Shoah. Il campo di concentramento in cui finisce il calcio ebraico degli anni Venti e Trenta: Weisz si ritrova lì assieme a Béla Guttmann – buon difensore in gioventù, impegnato soprattutto in Austria e Stati Uniti, e promettente allenatore dopo, sulle panchine di Hakoah Vienna e Újpest – e con un altro connazionale e maestro della panchina, Ernő Erbstein, che dopo una carriera modesta tra Ungheria, Italia e Stati Uniti, si è affermato come un grande tecnico, prima con la miracolosa Lucchese e poi al Torino. Loro due sopravvivono, Árpád no: Árpád Weisz, 47 anni, Auschwitz.
La lista si può allungare. Ferenc, che è stato un prolifico centravanti del Ferencváros delle origini, tra il 1902 e il 1920. Julius, che più o meno nello stesso periodo di Ferenc ha giocato all’ala sinistra nel Karlsruher e nel SpVgg Fürth, contando anche qualche presenza e gol nella Nazionale tedesca. È figlio di un commerciante di Achern, e ha perso i suoi anni migliori – oltre a un fratello – combattendo la Prima Guerra Mondiale, dalla quale ha fatto ritorno con una medaglia. L’ascesa di Hitler gli toglie la possibilità di continuare a seguire le giovanili del Karlsruher, e nel 1943 anche la libertà. Eddy, che è nato a New York da genitori ebrei olandesi ed è tornato ad Amsterdam da adolescente, divenendo presto un punto di riferimento nell’Ajax degli anni Venti. Nel 1940, i collaborazionisti lo segnalano ai tedeschi, che hanno occupato il paese: lui prova a far valere la cittadinanza americana per essere rispedito a New York, ma non viene creduto. Eddy Hamel, 41 anni; Julius Hirsch, 53 anni; Ferenc Weisz, 57 anni. Auschwitz.

Henrik gioca tutta la vita nel MTK Budapest, ed è uno dei ragazzi del grande ammutinamento del 1924; viene preso dai Nazisti e non si sa bene che cosa gli succede poi. Come lui, un altro ungherese, Antal, appartenente alla generazione prima e centrocampista di Fővárosi e MTK, catturato e poi chissà cosa gli capita. Si dice che Antal lo abbiano giustiziato con un colpo alla nuca e gettato nel Danubio, e che Henrik sia morto in un campo di lavoro in Austria, entrambi nel 1944. Di loro restano solo supposizioni. Henrik Nádler, 43 anni. Antal Vágó, 52 anni. Luoghi di morte incerti.
Nel MTK degli anni Dieci gioca anche Imre, cinque presenze e un gol in Nazionale, catturato e poi deportato in Austria. Chi, invece, dall’Austria riesce a scappare è Max, difensore e capitano del Hakoah Vienna degli anni Venti: raggiunge la Francia, e dopo che i tedeschi arrivano a Parigi tenta una nuova fuga, stavolta in Svizzera, ma i fascisti della Repubblica di Vichy lo prendono prima del confine. Imre Taussig, 50 anni, Bruck an der Leitha. Max Scheuer, età non pervenuta, Auschwitz.
Si corre il rischio di dimenticarselo, che l’Olocausto ha colpito anche il mondo del calcio: giocatori, allenatori, perfino presidenti come Kurt Landauer, massimo dirigente del Bayern Monaco fin dal 1913, ma costretto a dimettersi dopo la salita al potere dei Nazisti e infine arrestato nel novembre 1938, quindi rinchiuso a Dachau, ma sopravvissuto. Questi nomi sono la generazione d’oro del calcio ebraico, poi il Nazismo passa sull’Europa e la cancella. Dicono che il calcio deve lasciare da parte la politica, ma la politica, con il calcio, spesso non è così gentile.
Fonti
-MARANI Matteo, Dallo scudetto ad Auschwitz. Storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo, Imprimatur Editore
–Numeri Primi, Eddie Hamel, l’uomo che spostava le tribune, Rai Radio 1
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