“Dov’è scritto che un calciatore non debba avere idee?” – Paolo Sollier
Quella sera a Milano era caldo. Caldo, per essere a dicembre. Un paio di giorni prima, San Siro aveva ospitato Milan – Bologna, il recupero di una partita che si sarebbe dovuta giocare in ottobre ma era stata rinviata a causa di uno sciopero dei tramvieri: i rossoneri di Nereo Rocco, campioni d’Europa e del mondo in carica, erano stati bloccati sul pareggio dagli emiliani guidati da Edmondo Fabbri, e ormai erano considerati in crisi aperta. La Gazzetta dello Sport descriveva il risultato, all’indomani della sfida, con lo sconsolato aggettivo “prevedibile”.
Era un’epoca di grandi cambiamenti, in Italia. Gli anni Sessanta stavano volgendo al termine, e così anche l’epoca d’oro di Milan e Inter, dominatori in patria e all’estero: sulla panchina dei Nerazzurri sedeva un altro Herrera, il sergente di ferro paraguayano Heriberto, mentre il Mago Helenio si era spostato alla Roma, ma proprio in quei giorni il presidente Alvaro Marchini si lamentava delle richieste troppo esose del tecnico argentino. La stagione precedente, era stata la Fiorentina a vincere il campionato, conquistando il suo secondo titolo dopo quello del 1956, e adesso i favori del pronostico erano per il Cagliari di Gigi Riva, bomber della nazionale che nell’estate del 1968 aveva trionfati agli Europei casalinghi.

Ma non era solo il calcio, a essere scombussolato. Nel 1963 era tramontata l’epoca del Centrismo, e il Partito Socialista era entrato stabilmente nel governo a guida democristiana. Eppure, l’apparente rafforzamento numerico della maggioranza non aveva comportato un corrispettivo aumento di stabilità nel paese: nel 1967 si scoprì che, tre anni prima, l’Italia era stata sull’orlo di un colpo di stato militare contro la sinistra. In questo clima, il Sessantotto era arrivato anche nella Penisola, facendo esplodere le contestazioni studentesche – sfociate negli scontri di Valle Giulia a Roma, nel 1968 – e all’ondata di scioperi del 1969.
L’Italia era sospesa tra la fine di un’epoca – quella dei grandi club di calcio e del miracolo economico – e l’inizio di un futuro incerto. All’autunno caldo e alla costante crescita del Partito Comunista, che minacciavano di alterare gli equilibri della Guerra Fredda, rispose una bomba scoppiata il 25 aprile, senza fare vittime, nello stand FIAT della fiera campionaria di Milano. Ad agosto, altre otto bombe esplosero su altrettanti convogli ferroviari fermi in diverse stazioni d’Italia, causando dodici feriti. La polizia, per entrambi i casi, indagò gli ambienti anarchici, in particolare quello milanese del circolo del Ponte della Ghisolfa.
Era ancora caldo, venerdì 12 dicembre, come ricorda una canzone. Verso le 16.30, la gente iniziava a rincasare dopo il lavoro o la scuola, per preparsi al finesettimana che avrebbe avuto, la domenica, il consueto rito culminante della giornata di Serie A: il Bologna ospitava il pericoloso Napoli di Altafini, Zoff e Hamrin; la Juventus era attesa a una facile trasferta a Brescia, nella speranza di recuperare terreno in campionato; l’Inter ospitava un Bari in crisi, mentre il Milan andava in visita al Torino; la Fiorentina doveva difendersi da una Roma ambiziosa. Quella mattina, la Gazzetta apriva con due pezzi insoliti in prima pagina: uno si domandava se la Serie A stesse limitando ingiustamente gli spazi ai giovani allenatori, nonostante dieci tecnici su sedici avessero meno di 50 anni (Giancarlo Cadé del Torino ne aveva appena 39); il secondo era un’intervista all’attaccante dell’Olympique Marsiglia ed ex-Juventus Roger Magnusson che presentava la nazionale svedese in vista dei Mondiali messicani del 1970.
Quella sera, tra le persone che, rientrando a casa, passavano da Piazza Fontana c’era anche un dodicenne di nome Enrico Pizzamiglio, tifoso dell’Inter che si figurava un futuro da calciatore. Assieme alla sorella maggiore Patrizia, stava andando all’adiacente Banca Nazionale dell’Agricoltura per pagare alcune bollette per conto dei genitori commercianti. Compresi i due ragazzi, furono 87 i feriti di quella sera: una bomba aveva sventrato la banca, portandosi dietro 17 vittime, di cui 13 uccise sul colpo.

Con la bomba di Piazza Fontana, esplose anche il freddo. Il campionato si disputò in un clima teso e surreale: la Federcalcio impose un minuto di silenzio su tutti i campi, ma la giornata si sarebbe disputata regolarmente. A causa di una fitta nebbia, però, il match di San Siro tra Inter e Bari fu rinviato al giorno seguente. Sia Herrera che Oronzo Pugliese, tecnico della squadra ospite, si dissero scontenti del rinvio: fa un certo effetto leggere, nel pezzo di Franco Mentana – padre del giornalista Enrico – sulla Gazzetta, le dichiarazioni dei due allenatori, intenti a parlare di sport come se nulla fosse successo, appena due giorni prima, a pochi chilometri da San Siro.
Solo il presidente dell’Inter Fraizzoli citò brevemente Piazza Fontana, nelle sue dichiarazioni alla stampa: “Ci rincresce molto che si debba giocare domani, nella giornata in cui si svolgeranno i funerali. Purtroppo, abbiamo un regolamento da rispettare: il giocare non toglie nulla ai sentimenti che ognuno di noi prova in questi momenti.” Nessun altro riferimento all’attentato, nel pezzo. Il calcio pareva chiuso dentro una bolla protettiva, che lo isolava dal mondo circostante.
Mentre il Cagliari subiva a Palermo la prima sconfitta stagionale, dalla Francia arrivava la notizia che la stella del Milan Gianni Rivera era stato insignito del Pallone d’Oro. Approfittando del rinvio, gli interisti Sandro Mazzola e Giacinto Facchetti si recarono al Policlinico a incontrare Enrico Pizzamiglio, che nell’esplosione di due giorni prima aveva perso una gamba. L’articolo di Nino Oppio sul Corriere della Sera è un racconto straziante dell’incontro tra i due calciatori e il ragazzino, assistito dalla nonna: Pizzamiglio non mostrò alcuna emozione nell’incontrare i suoi idoli, come avrebbe fatto qualsiasi altro ragazzino, in una circostanza diversa. Immobilizzato a letto, ancora ignaro dell’amputazione dell’arto e di dover quindi rinunciare al suo futuro da calciatore, riconobbe i due nerazzurri pronunciandone appena i nomi. Oppio racconta anche il commosso abbraccio tra la nonna e Mazzola e Facchetti, tutti e tre in lacrime.
Lunedì 15 dicembre, la Polizia arrestò alcuni anarchici milanesi per la stagione delle bombe. Incurante di ciò, la Serie A si apprestava a recuperare la partita arretrata, e l’Inter riuscì a superare il Bari solo per 1-0, grazie a un rigore in apertura trasformato da Mario Bertini, pur avendo dominato la partita. Contemporaneamente, in Piazza del Duomo, a pochi passi da Piazza Fontana, una folla di gente si riunì per i funerali delle vittime della strage. Quella notte, l’anarchico Giuseppe Pinelli precipitava da una finestra della Questura di Milano: dissero che era stato il suicidio di un colpevole, ma si scoprì che prove contro di lui e i suoi compagni non ce n’erano, e che dalla finestra qualcuno lo aveva buttato.

Il mondo del calcio assistette quasi indifferente alla tragedia di Piazza Fontana: nei giorni che seguirono l’attentato, sui giornali sportivi si leggeva della scoperta della fallibilità del Cagliari, del Milan che provava a reagire alla crisi, della Juventus che continuava la sua scalata dopo l’esonero di Carniglia, della partita sensazionale di Altafini contro il Bologna. Un solo trafiletto sulla Gazzetta, non firmato, si domandava fin dal titolo Morti, perché?, ma a leggerlo sembra più un atto dovuto, per non ignorare del tutto il più importante evento dell’attualità nazionale. Già allora, vigeva l’assurda regola non scritta per cui sport e politica non devono mai mescolarsi.
Nei mesi successivi, il Cagliari si sarebbe assicurato il controllo del campionato italiano, mentre le indagini sulla strage milanese presero una direzione sconvolgente, iniziando a far emergere le responsabilità dei terroristi neofascisti e le coperture fornite loro da vari apparati dello Stato.
Il calcio italiano imparò a dimenticare: Piazza Fontana non cambiò nulla nel rettangolo verde, e in estate la Nazionale vinceva la partita del secolo contro la Germania Ovest e raggiungeva la prima finale mondiale del dopoguerra. Fuori dagli stadi, però, incominciava un turbinio di violenza, sospetti, proteste e segreti che avrebbe segnato un’epoca cupa della storia d’Italia.
1 commento su “Il calcio italiano a Piazza Fontana”