“Io non desidero altra vita e non potrei desiderarla, poiché non conosco che la mia.” – Lev Tolstoj
Ilgiz è un vecchio dai capelli che si stanno ingrigendo lentamente e con gli occhi sottili. Il suo nome, in tataro, significa “viaggiatore”, ma Ilgiz non ha mai lasciato la zona attorno a Lesnoj – una distesa di alberi e neve nell’oblast’ di Kirov, nella Siberia occidentale, a oltre mille chilometri da Mosca – e ogni giorno il suo tragitto si ripete identico, da casa fino al gulag chiamato Vyatlag. Tra le poche cose che gli fanno alleggerire il peso delle giornate, ci sono le chiacchiere con un ragazzo russo pazzo che sostiene di essere un grande calciatore. Il ragazzo non ha nome, perché a Vyatlag nessuno ce l’ha, ma insiste nel dire di chiamarsi Edik.
Di pazzi ce ne sono tanti, laggiù, ma pochi come lui. Non ha neppure trent’anni, dice di essere il più grande calciatore sovietico vivente: Ilgiz ne sa poco di sport, ma è abbastanza certo che il più grande sia Yashin, o forse un altro tra Netto, Metreveli, Ponedelnik o Ivanov. Edik, addirittura, sostiene di averci giocato assieme, a Ivanov, nella Torpedo Mosca. Ma come credergli? Così giovane, il ragazzo sta a Vyatlag già da sette anni: a che età si diventa campioni, nel calcio?
Un tempo, racconta lui, all’ovest lo conoscevano con un altro nome: Eduard Anatolevic Streltsov. Di ruolo attaccante, per vocazione idolo della gente, soprattutto del lato femminile. Non fatica a credere a quest’ultima parte, Ilgiz: benché smagrito dalla fatica e rinsecchito dal freddo, Edik è indubbiamente un bel ragazzo. Il resto, però, è abbastanza improbabile: cosa ci farebbe il più grande calciatore sovietico nel più tetro gulag siberiano? A chi hai pestato i piedi, Edik?
Ne ha di fantasie da raccontare, il giovane russo. È un idealista disilluso, come il Pierre Bezuchov di Guerra e pace – Ilgiz sarà pure un mezzo selvaggio, ma conosce i classici. Quando era appena un adolescente, aveva mollato la scuola per andare a fare l’operaio alla Zavod Imeni Stalina, l’azienda automobilistica dello Stato, solo per potersi comprare una moto e fare colpo sulle ragazze. Era finito, invece, a giocare a calcio, e lo aveva fatto nell’ambiente ideale per una punta come lui: la Torpedo Mosca, la squadra della ZIS, era all’epoca allenata da Viktor Mazlov, profeta del calcio offensivo e sagace coltivatore di attaccanti, come Aleksandr Ponomarev negli anni Quaranta, e poi Valentin Ivanov nel decennio successivo. Così dice la sua storia, almeno.

Dice anche che, all’epoca, non c’era dubbio che fosse lui il fenomeno, e non Ivanov: a soli diciotto anni, Edik vinse il titolo di capocannoniere del campionato sovietico, e l’anno seguente fu protagonista nella conquista dell’oro olimpico a Melbourne. Non un’Olimpiade come le altre: erano stati i Giochi del Sorpasso, l’URSS per la prima volta raggiungeva la testa del medagliere, davanti anche agli Stati Uniti. E vincevano il loro primo trofeo nel calcio, aprendo una stagione magica che li avrebbe visti tra i favoriti ai Mondiali svedesi del 1958 e poi conquistatori dei primi Europei nel 1960.
Edik di solito sogghigna, giunto a questo punto: lui, la finale olimpica, non la giocò, nonostante fossero arrivati fin lì grazie a una sua magia di tacco, tanto che, a suo dire, ora all’ovest un goal segnato così veniva chiamato col suo nome, “uno Streltsov”. Ma Ivanov s’era infortunato, e l’allenatore Gavriil Kachalin voleva assolutamente che a giocare fosse una coppia d’attaccanti collaudata, per cui tolse anche lui per schierare Ilin e Simonjan, entrambi dello Spartak Mosca. Sogghigna, Edik, perché di medaglie d’oro ce n’erano appena undici, una per ogni giocatore sceso in campo: Simonjan, a fine partita, gli volle cedere la sua, ma Edik rifiutò, dicendo che ne avrebbe vinte altre, che sarebbero state indiscutibilmente sue.
Un altro anno dopo ancora, sempre a sentire la sua storia, sarebbe divenuto il più giovane calciatore ad arrivare tra i primi dieci nella classifica del Pallone d’Oro, riservata ai migliori giocatori d’Europa. E allora che ti è successo, Edik? insiste Ilgiz, che gli dà sempre corda, perché alla fine è un gioco che fa bene a entrambi, alle fantasie stralunate del ragazzo e alla noia sconsolata del vecchio. È successo, dice il russo pazzo, che ci fu di mezzo una donna.
O forse due, in realtà, o forse una situazione più complessa ancora: quando parla, complici fame e gelo, Edik tende a perdere il filo e confondersi. Ci sono le volte che parla di una donna che lui definì senza mezzi termini una “scimmia”, rifiutandosi di sposarla, senza sapere però – lui che di politica sapeva poco o nulla – che si trattava della figlia di Ekaterina Alekseevna Furtseva, la donna più potente dell’intera URSS. Altre volte, Edik racconta che gli avevano proposto di trasferirsi dalla Torpedo a una squadra più forte e influente, come lo CSKA o la Dinamo Mosca. Ma lui era un proletario purosangue, e voleva restare nella squadra dei proletari, fondata trent’anni prima da un piccolo sindacato operaio, prima delle purghe di Stalin. Ma non si poteva dire di no allo CSKA e alla Dinamo: la prima era la squadra dell’Armata Rossa, la seconda quella del KGB.

Solo alcune volte, quando la giornata a picconare in miniera è stata particolarmente faticosa, Edik tira fuori la terza versione della storia, quella che coinvolge l’altra donna, una bellissima ragazza si nome Marina. L’aveva conosciuta a una festa a Mosca, di quelle che piacevano a lui, dove si beveva molto e le fanciulle non dicevano mai di no. La mattina seguente, era stata la polizia a svegliarlo: Marina lo aveva denunciato per stupro.
Lo avevano incastrato: questo ripeteva sempre Edik, alla fine; e Ilgiz non sapeva se crederci o meno. I poliziotti gli avevano promesso che sarebbe tutto andato a posto se firmava la confessione del crimine – una pura formalità burocratica – ed Edik ci teneva che tutto tornasse a posto in fretta: era la punta della nazionale, e in pochi mesi c’erano i Mondiali. Firmò, e si ritrovò in un vagone piombato diretto in Siberia, nella terra dei senza nome, dei dimenticati.
Il vecchio Ilgiz, di storie così, ne aveva sentite a centinaia: erano tutti vittime di un complotto, tutti innocenti, tutti grandi eroi caduti. Un bel giorno, di lì a poco, Edik scomparve nel nulla, e anche questo era destino ricorrente di molti degli stranieri che dall’ovest giungevano a Vyatlag: morti, deportati altrove, qualche volta scarcerati. Ilgiz non ne sentiva più parlare: svanivano loro, e si portavano dietro le loro follie.

Solo anni dopo venne a sapere la storia di un tale Streltsov di Mosca, un attaccante della Torpedo che, nella seconda metà degli anni Sessanta, aveva trasformato il piccolo club dell’azienda automobilistica sovietica in una delle squadre più forti del paese: aveva vinto un campionato, una coppa nazionale ed era stato premiato due volte come miglior calciatore sovietico dell’anno. Le epoche coincidevano: quel calciatore aveva giocato subito dopo la scomparsa di Edik da Vyatlag. Forse, l’ascesa di Breznev ai vertici del Partito aveva comportato una qualche amnistia, ma queste erano cose che a gente come Ilgiz non diceva nessuno, erano faccende dei russi. Giunto ormai alla fine dei suoi giorni, si compiacque nell’immaginare quel ragazzo tornato a casa e finalmente riscattatosi, non più pazzo ma campione di calcio.
Fonti
–MANCA Davide, Il calcio in URSS: Eduard Streltsov, la torpedo di Mosca, La Gazzetta dello Sport
–WILSON Jonathan, Was Streltsov really the martyr Russian football demands?, The Guardian
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