Franck era un ragazzo complicato: cacciato dalle giovanili del Lilla per problemi comportamentali, era stato vicino ad abbandonare il calcio per andare a fare l’operaio, poi era tornato sui campi, s’era guadagnato la fama in Ligue 1 con il Metz ma l’aveva abbandonato all’improvviso per andarsene in Turchia. Arjen era un predestinato di cui si cantavano le lodi fin da quando era sedicenne, ma che, a dispetto di una carriera che lo aveva portato in alcuni dei club più forti del mondo, a venticinque anni era considerato una promessa non mantenuta. A Istanbul, Franck divenne Scarface, a causa della grossa cicatrice sul volto che gli ricordava un incidente d’auto in cui era rimasto coinvolto da bambino; a Londra, invece, Arjen divenne The Man of Glass, l’Uomo di Vetro, a causa dell’incredibile facilità con cui s’infortunava.
Due nomi da film per due campioni diversissimi che non rimasti tali solo nelle intenzioni, Ribéry e Robben non lo sapevano ancora ma nell’estate del 2009 avrebbero stretto un sodalizio destinato a influenzare un decennio di calcio tedesco ed europeo. Il francese, dopo avere fatto ritorno a casa, si era conquistato un po’ a sorpresa un posto nella contestata nazionale di Raymond Domenech per i Mondiali del 2006, divenendone il protagonista e portadola fino alla finale. Eppure, nell’estate che aveva segnato la sua consacrazione, fu accostato a diversi top club, ma rifiutato da tutti. Attese un’altra stagione a Marsiglia, e poi accettò la chiamata del Bayern Monaco.

Robben, invece, arrivò in Germania due anni più tardi, fortemente voluto dal nuovo tecnico Louis van Gaal, olandese come lui. Quando, cinque anni prima, il Chelsea lo aveva prelevato dal PSV Eindhoven, aveva pagato 18 milioni per lui; dopo tre stagioni, il Real Madrid ne aveva sborsati 35 per mettergli indosso la camiseta blanca: al momento del suo passaggio al Bayern, Robben fu pagato 25 milioni appena.
Il 29 agosto 2009 si disputò la partita che diede inizio a un’era, quella della rinascita del Bayern sotto le sue due nuovi ali, Franck Ribéry e Arjen Robben. “Prima che arrivassi lo stile di gioco era differente”, ha detto senza falsa modestia il francese: il Bayern aveva da poco chiuso l’era di Felix Magath e aveva affidato nuovamente la panchina al grande vecchio Ottmar Hitzfeld, che aveva già guidato il club tra il 1998 e il 2004, e doveva riprendersi da una delle stagioni più deludenti della sua storia, chiusa al quarto posto in campionato – e quindi fuori dalla Champions League – e senza alcun titolo vinto.
“Con l’acquisto di Robben c’è stata l’occasione di portare più velocità e dinamismo nel modo di interpretare il calcio” aggiunge. Quando l’olandese lo raggiunse in Baviera, due anni più tardi, la situazione non era tanto migliore: Hitzfeld aveva vinto un campionato e poi se n’era andato, era stato chiamato a sostituirlo Jurgen Klinsmann, ma la sua esperienza era stata piuttosto negativa, e un altro grande vecchio – Jupp Heynckes, su quella panchina già tra il 1987 e il 1991 – aveva dovuto traghettare la baracca fino al termine della stagione. “Quando sono arrivato, nel 2009, non eravamo al livello a cui siamo ora” ha precisato, in un’altra intervista, proprio Robben.

È indiscutibile che, oltre alla concomitante presenza di due esterni veloci e dribblomani come Ribéry e Robben, la rivoluzione del Bayern passò anche e soprattutto dall’arrivo in panchina di Van Gaal. L’ex-allenatore dell’Ajax degli anni Novanta, uno degli innovatori di maggior successo del totaalvoetbal, portò una rottura con la tradizione difensivista del calcio tedesco – che già stava prendendo piede con l’emergere, tra Mainz e Dortmund, di Jurgen Klopp – e ristrutturò il Bayern su alcuni nuovi punti fermi: un portiere abile coi piedi per rilevare la pesante eredità di Oliver Kahn, ovvero Hans-Jorg Butt; una mezzala dall’eccezionale visione di gioco a centrocampo, come Bastian Schweinsteiger; l’attenzione alle nuove leve, come Holger Badstuber e, soprattutto, Thomas Muller; due attaccanti esterni in grado di creare superiorità numerica e capovolgere rapidamente il fronte offensivo.
Come principali frecce all’arco di una squadra che faceva dell’attacco il suo principale punto di forza, Rubéry e Robben divennero in breve le icone del nuovo Bayern Monaco, che al termine di quella stagione tornò a vincere la Bundesliga e la Coppa di Germania, e raggiunse un’insperata finale di Champions League. Niente più Scarface e Man of Glass: Ribéry e Robben, ormai gemelli sul campo da gioco, divenner Batman e Robin.

Nel loro decennio in Baviera, Ribéry e Robben sono stati protagonisti e, per certi versi, portabandiera di una nuova idea di calcio in Germania, che ha portato al Bayern venti titoli, tra cui una Champions League e un Mondiale per Club, e addirittura un poker – campionato, coppa nazionale, coppa di lega e Champions – nella stagione 2012-2013, con Heynckes alla guida. Hanno fatto da apripista all’approdo in Germania di Pep Guardiola, che nel 2013 scelse il club tedesco come sua prima esperienza fuori dalla Catalogna, importando lì la rivoluzione blaugrana e completando la transizione della Germania verso un calcio offensivo, tecnico e di possesso palla, con cui la nazionale di Joachim Löw avrebbe poi vinto il Mondiale del 2014.
Insieme, hanno saputo superare i sempre frequenti infortuni e gli avvicendamenti in panchina con conseguenti cambi di filosofia – come quando, dopo la fine dell’epoca Guardiola, arrivò Carlo Ancelotti – e mentre il Bayern mutava e si evolveva, loro ne rimanevano il perno immutabile. Nel bene e nel male, perché nella loro grandezza hanno sempre rappresentato anche un ostacolo alla piena rifondazione del club, e chi ha provato a metterne in dubbio la centralità nel progetto tecnico del club bavarese, come Ancelotti, ne ha alla fine pagato le conseguenze.
Se è vero che il loro gioco da ali invertite ha esaltato attaccanti come Muller e Lewandowski, è anche vero che le loro personalità strabordanti all’interno dello spogliatoio hanno triturato i possibili eredi: Mario Gotze, Douglas Costa, Xherdan Shaqiri, Kingsley Coman e James Rodriguez sono stati acquistati con molte aspettative ma non sono mai riusciti a imporsi solidamente in prima squadra; i primi tre sono stati costretti ad andarsene, e il quarto probabilmente lo farà questa estate. Come due uragani, che trascinano nel proprio vortice qualunque cosa gli passi accanto.

Il loro addio, al termine della stagione 2018-2019, non può non essere indicato come la fine di questa grande trasformazione del calcio tedesco e di un periodo magico della storia del Bayern Monaco. Personalmente, Ribéry e Robben hanno vinto meno da separati che assieme: entrambi si sono fermati in finale dei Mondiali, e non hai mai vinto il Pallone d’Oro (solo Ribéry, nel 2013, salì fino alla terza posizione in classifica). Eppure tutto ciò non fa che rafforzare la loro immagine ideale, sulle due fasce opposte del campo – che quasi ne sottolineano, nella somiglianza, le peculiari diversità – di due stelle destinate a brillare solo quando sono vicine.
Fonti
–CORONA Federico, Robben e Ribéry, la fine di un’epoca, Esquire
–PERGOLIZI Dario, È ancora il tempo di Ribery e Robben, L’Ultimo Uomo
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