“Ci sarà un Prima di Xavi e un Dopo di Xavi.” – Hristo Stoichkov
La prima parte di quest’epoca, potrebbe essere chiamata Il ritorno del Barça. Il Barcellona, che ha sostanzialmente dominato un decennio sportivo, dalla fine degli anni Ottanta fino quasi alla fine dei Novanta, vive un periodo di tanti piazzamenti importanti ma nessun titolo: in cinque anni, i catalani ottengono due secondi posti nella Liga, due semifinali di Champions League, una semifinale di Europa League e due semifinali di Coppa del Re. Poi, in concomitanza con l’arrivo in panchina di Frank Rijkaard, il club blaugrana torna a vincere e a occupare una posizione di primissimo piano nel calcio europeo. Tutto passa dai piedi di Xavi Harnandez Creus.

In mezzo a fenomeni assoluti del gioco come Ronaldinho, Eto’o, Giuly e Deco, Xavi incarna la tradizione della cantera del Barcellona: è un regista basso di centrocampo, un organizzatore di gioco raffinato, e al suo livello ce ne sono pochi in Europa, forse solo Andrea Pirlo. A lanciarlo in prima squadra, quando aveva solo diciotto anni, fu un altro olandese, Louis Van Gaal, genio del fenomenale Ajax degli anni Novanta e straordinario coltivatore di talenti. Tre anni dopo, Xavi era già un pedina fondamentale della squadra, andando così a sostituire una leggenda come Pep Guardiola. Curiosamente, la seconda parte dell’epoca di Xavi è strettamente legata proprio alla figura di Guardiola, tornato in blaugrana come allenatore nel 2008: potremmo chiamarla La rivoluzione del Barça.
Il Barcellona di Guardiola ha rinnovato il calcio in maniera radicale, grazie a quello che la stampa sportiva ha reso noto come tiki-taka, ma che tecnicamente è l’aggiornamento del gioco di posizione che, fin dai tempi di Rinus Michels, è divenuto scuola in Catalogna. Guardiola vuole un calcio di passaggi rapidi e continui, un pressing costante e organizzato tramite la lettura delle fasi di gioco e la scelta del posizionamento in campo, che si evolve con il passare dei minuti, e un possesso palla prolungato atto a sfiancare l’avversario. Xavi si trasforma allora dal classico regista a un qualcosa per cui nel calcio non esiste ancora un nome: un tuttocampista, un uomo in grado di capire in anticipo dove mettersi per intercettare un avversario o essere più utile per i compagni, un geniale verticalizzatore sia con le palle alte che con quelle basse. Diventa il perno del calcio del futuro.
Ciò che accomuna queste due fasi della recente storia del calcio è appunto Xavi; il ponte che le collega è il titolo europeo vinto dalla Spagna nell’estate del 2008. Con un solo trofeo in bacheca datato 1964 – un altro Europeo, vinto in casa sotto il regime franchista – la Spagna era sempre stata la grande delusione del calcio per squadre nazionali, fucina di talenti e di club sensazionali, eppure incapace di confermarsi sotto la comune maglia rossa. Sotto la guida del grande vecchio Luis Aragonés, la Spagna si ricostruì attorno al talento di Xavi e iniziò così un incredibile ciclo vincente, proseguito con Vicente Del Bosque in panchina e la conquista del Mondiale nel 2010 e di un secondo Europeo nel 2012. Non se lo ricorda quasi nessuno, ma nel 1999 proprio il regista catalano aveva trascinato le Furie Rosse al loro primo titolo mondiale Under-20, a cui un anno dopo seguì l’argento olimpico di Sydney.
Niente dimostra l’impatto straordinario avuto da Xavi sul calcio più di questi risultati: il suo arrivo segna l’inizio del più grande ciclo di vittorie della storia del Barcellona e anche della storia di un club europeo, oltre che del ciclo della Spagna, unica nazionale europea a vincere tre trofei consecutivi. Ancora di più della sua presenza in campo, sembra essere la sua assenza a confermarne la grandezza: dopo il suo trasferimento in Qatar, il gioco del Barcellona e della Spagna è irrimediabilmente mutato, razionalizzandosi e trovando ulteriori compromessi, pur senza mai snaturarsi (esempio perfetto: la semifinale d’andata della Champions League 2018-2019 contro il Liverpool, vinta per 3-0 ma senza insistere sul possesso palla e anzi concedendosi anche fasi puramente difensive); lo stesso Guardiola ha sempre faticato a trovare un suo degno sostituto durante le esperienza a Monaco di Baviera e a Manchester. Come se un certo tipo di calcio – offensivo, spettacolare e senza vie di mezzo – fosse stato possibile solo con Xavi.
Forse è sempre stato consapevole di tutto questo. Forse, il suo ruolo nella storia del calcio ha un rapporto di interdipendenza con il suo atteggiamento dentro e fuori dal campo, che traspare in molte interviste in cui il regista del Barça è intervenuto a parlare di tattica: espressioni quasi messianiche, che lasciano trasparire quello che per alcuni è un vero e proprio fanatismo tattico che sovrappone il gioco di posizione del Barcellona di Guardiola con il calcio stesso. Dal “giocare bene” al “giocare al calcio”: come se il juego che ha in testa Xavi Hernandez sia l’unico possibile, e tutto il resto non sia neppure calcio, ma qualcos’altro, presumibilmente meno nobile. Molte volte si è paragonato Messi a Cruijff, ma in realtà il vero Profeta del calcio del futuro è stato Xavi, come calciatore prima e forse come allenatore nei prossimi anni.
Se di solito, al ritiro di un grande campione, siamo sempre assaliti da una certa tristezza, l’addio al campo di Xavi Hernandez è accompagnato da una scarica di adrenalina: la sua carriera in panchina, ennesima reiterazione della carriera del maestra Guardiola, sembra già scritta, ed è da tempo ormai che l’ex-centrocampista del Barcellona rilascia dichiarazioni in cui delinea la sua filosofia di gioco. Provocatorio – come quando dice che il calcio andrebbe giocato dieci contro dieci, per avere più spazi e più spettacolo – Xavi fa di tutto per alimentare il mito del profeta e del rivoluzionario; non pago di aver definito un’epoca con i suoi piedi, ora vuole definirne un’altra con la sua mente.
Fonti
–BETTS Eric, The Center of the Soccer Universe, Slate
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