“In America Latina, le frontiere tra il calcio e la politica sono molto, molto deboli.” – Ryszard Kapuscinski
Non poteva essere una comune partita di calcio, quella tra Honduras ed El Salvador. Sì, certo, c’era una lunga rivalità sportiva tra due nazionali che, comunque, erano sempre state ai margini del mondo del pallone, e che in quell’estate del 1969 assurgeva a scontro epico che pareva riassumere decenni di battaglie nel rettangolo verde: un anno più tardi, i Mondiali si sarebbero giocati per la prima volta in Nord America, nel Messico che era la vera potenza del calcio locale e, quindi, qualificato d’ufficio alla fase finale del torneo, lasciando campo aperto per un’altra squadra.
La nazionale salvadoregna arrivò a Tegucigalpa la sera prima della partita d’andata, quasi in segreto, ma quella notte i tifosi locali ne individuarono l’hotel e inscenarono una cagnara di clacson e pentolame fino al levarsi del sole. Pareva di essere tornati ai tempi della folle finale del 1930 tra Uruguay e Argentina: l’indomani le strade della capitale erano occupate dallo sciopero degli insegnanti; alcuni tifosi si mescolarono ai manifestanti e, individuato il pullman del Salvador, lo assaltarono e gli squarciarono le gomme. In campo, in un clima tesissimo, la squadra di casa – che poteva vantare il forte attaccante José Cardona, in forza all’Atletico Madrid – si impose per 1-0 grazie a un gol del difensore Leonard Wells a pochi secondi dalla fine. Tempo dopo, Wells rivelò che non poteva immaginarsi quello che avrebbe scatenato la sua rete. Era l’8 giugno 1969: iniziava la prima guerra del fútbol.

El Salvador e Honduras non erano mai andati d’accordo, fin dai tempi dell’indipendenza. I primi rinfacciavano ai secondi di bloccargli l’accesso all’Atlantico e, in aggiunta, di detenere il controllo del Golfo di Fonseca, la piccola baia sul Pacifico utile come riparo dai frequenti uragani, geograficamente condivisa tra i due stati. I secondi si lamentavano che i primi, nonostante fossero un paese più piccolo, fossero più sviluppati e, per tanto, attirassero maggiori investimenti stranieri, che nel dopoguerra avevano trasformato El Salvador in uno stato molto popolato e ricco, rompendo gli equilibri del mercato comune centroamericano che gli Stati Uniti avevano creato in quegli anni. La grande crescita del Salvador aveva avuto, come contraccolpo, un’esplosione demografica che aveva presto portato a un grande aumento della disoccupazione. Così, il governo salvadoregno si accordò con quello onduregno – entrambi retti da giunte militari fasciste e filo-statunitensi – perché consentisse l’immigrazione dei suoi cittadini nel paese vicino, occupando e sfruttando le numerose terre incolte. La Convenzione bilaterale sull’immigrazione, però, innervosì notevolmente i campesinos onduregni, che già da anni protestavano senza successo per i salari troppo bassi; i latifondisti, temendo una rivolta sul modello cubano, indirizzarono l’odio verso gli immigrati dal Salvador e scatenarono una guerra tra poveri, che si “risolse” quando il governo ruppe l’accordo bilaterale, requisì le terre dei salvadoregni e li espulse dal paese.
Mentre, tra le strade di Tegucigalpa, i tifosi erano in festa per la vittoria nella prima semifinale di qualificazione ai Mondiali, a San Salvador una ragazza di soli diciotto anni, Amelia Bolaños””, figlia di un generale dell’esercito, si tolse la vita con una pistola, sconvolta dalla sconfitta della Selección Cuscatleca. In breve, Amelia divenne una martire della causa salvadoregna, simbolo di tutti quei connazionali disprezzati e umiliati dagli onduregni.
In occasione della gara di ritorno, la situazione esplose. L’albergo della nazionale onduregna fu bersagliato per ore da sassi, uova marce, topi morti e bombe artigianali; uno degli accompagnatori della squadra ospite, che stava cercando di lasciare l’edificio, venne notato dalla folla e lapidato a morte. I giocatori dovettero rifugiarsi sul tetto dell’hotel per poter stare al sicuro e il giorno seguente furono scortati fino allo stadio dai carri armati dell’esercito. Ma una volta dentro l’Estadio de la Flor Blanca di San Salvador, tutto riprese: i pochi tifosi onduregni sugli spalti furono aggrediti, molti di loro vennero feriti, e due addirittura uccisi. Per quel che valeva, El Salvador si impose 3-0, trascinato dal fantasista Juan Ramon Martinez, che all’epoca militava nei guatemaltechi del CSD Municipal. Ironia della sorte, non era ancora finita: in base ai regolamenti dell’epoca non era ancora emerso un vincitore, ed era necessaria una terza partita, da disputarsi pochi giorni dopo nel campo neutro di Città del Messico.

La bella avrebbe dovuto finalmente archiviare quella brutta storia, di cui il mondo non si era neppure accorto. In un match piuttosto combattuto, El Salvador ebbe la meglio per 3-2 ai tempi supplementari, grazie nuovamente all’implacabile Martinez, autore di un’altra doppietta. Nonostante i 5mila uomini della polizia messicana schierati allo stadio, le due tifoserie si scontrarono, e quella che era iniziata come una rissa da stadio degenerò in due ore di guerrilla urbana. Mentre succedeva tutto questo, il governo onduregno richiamava il suo personale diplomatico dal Salvador, e intanto lasciava correre sulle sempre più frequenti violenze contro i cittadini salvadoregni presenti nel paese. Circa due settimane più tardi, il 14 luglio 1969, alle prime ore del giorno alcuni proiettili vagarono nell’aria della frontiera di El Poy, tra Ocotopeque e San Ignacio. Verso sera, l’aviazione salvadoregna iniziò i bombardamenti sulle principali città dell’Honduras, sui porti commerciali e le basi aeree, mentre 12mila soldati di fanteria varcavano il confine. Per il governo del Salvador, si trattava di una guerra de legítima defensa, dovuta alle offese subite dai vicini.
Solo a quel punto, la stampa e l’opinione pubblica internazionale si accorsero di cosa da anni stava covando nel cuore dell’America centrale e che una partita di calcio aveva fatto scoppiare in tutta la sua violenza. Dopo un inizio favorevole al Salvador, l’aviazione onduregna riequilibrò le sorti del conflitto, causando gravi danni agli invasori e, nella notte del 18 luglio, l’Organizzazione degli Stati Americani riuscì a imporre il cessate il fuoco. Ufficialmente, El Salvador ignorò la decisione dell’OSA, ma il conflitto si era ormai sgonfiato: la formale cessazione delle ostilità avvenne il 5 agosto, con il ritiro delle truppe salvadoregne; l’OSA minacciò sanzioni per entrambi in caso di riapertura delle ostilità, e impose all’Honduras il ripristino dei diritti e delle proprietà degli immigrati precedentemente espulsi e la fine della propaganda xenofoba. La pace fu stipulata solo il 30 ottobre 1980.

Nel frattempo, l’El Salvador aveva sconfitto Haiti nella finale del torneo di qualificazione e, nell’estate del 1970, avrebbe partecipato per la prima volta alla fase finale dei Mondiali di calcio, arrivando ultimo in un girone con Unione Sovietica, Messico e Belgio. Partecipò ancora ai Mondiali nel 1982, dove chiuse ancora a zero punti ma segnando il suo primo gol iridato. Nello stesso anno, anche l’Honduras disputò il suo primo Mondiale, pareggiando con i padroni di casa della Spagna e con l’Irlanda del Nord, e cedendo di misura alla Jugoslavia; prese parte nuovamente alla competizione nel 2010 e nel 2014, uscendo sempre al primo turno. Nel 1992, invece, la Corte Internazionale di Giustizia pose fine alle dispute politiche tra i due paesi, con un trattato in cui El Salvador riconosceva all’Honduras la sovranità sul Golfo di Fonseca. La guerra delle cento ore – o Prima guerra del football, come la definì il giornalista polacco Ryszard Kapuscinski – aveva causato quasi 6mila morti e oltre 50mila sfollati.
Fonti
-KAPUSCINSKI Ryszard, La prima guerra del football e altre guerre di poveri, Feltrinelli Editore
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