“Billy, non fare l’eroe, / non fare pazzie con la tua vita.” – Piper Lace
Lo scenario di uno stadio americano degli anni Trenta doveva apparire straniante a un uomo come Billy Gonsalves. Dall’alto del suo metro e ottantotto, più da giocatore di basket che di soccer, in piedi leggermente alla sinistra del cerchio di centrocampo, nella tipica posizione della mezzala, si guardava attorno e vedeva spalti semivuoti e, di quei pochi che c’erano, volti colmi di sfiducia. Eppure, solo qualche anno prima il calcio sembrava pronto a esplodere anche negli Stati Uniti: il Mark’s Stadium di Fall River – costruito per volere di Sam Mark, vulcanico proprietario del club locale e dedicato interamente al soccer – era quasi sempre pieno; la East Coast traboccava di giocatori di talento che arrivavano anche dalla Scozia o dall’Inghilterra, e i campioni locali come Gonsalves stesso e il suo partner Bert Patenaude attiravano un gran numero di tifosi. In aggiunta, i risultati della nazionale statunitense confermavano la crescita dell’American Soccer League, con la clamorosa semifinale raggiunta ai Mondiali del 1930. Ma la Grande Depressione stava travolgendo tutto: in un sistema che si reggeva sui soldi degli sponsor esterni più che dei proprietari, club storici come i Bethlehem Steel erano già stati costretti a sciogliersi. La working class del New England, ridotta sul lastrico, non poteva più permettersi una domenica alla stadio. Nel 1931, anche i Fall River Marksmen avevano cercato di sfuggire alla crisi trasferendosi a New York e assumendo i nomi e i colori sociali del noto club di baseball degli Yankees.
In un’epoca meno pionieristica, un giocatore col suo talento avrebbe trovato un altro ingaggio, magari in un paese dove, crisi o meno, il calcio continuava ad attirare tifosi, soldi e premi. Invece Billy Gonsalves, il “Babe Ruth del calcio”, sarebbe rimasto uno dei grandi campioni dimenticati del calcio a stelle e strisce, capace di giocare due Mondiali e centrare il più grande risultato della storia degli Stati Uniti a Uruguay 1930, per poi sparire dalla memoria collettiva. Forse ripensava, alle volte, a quel contratto che gli era stato offerto dal Botafogo subito dopo il torneo sudamericano, e che aveva rifiutato per non allontanarsi dalla famiglia. Una nuova vita in Brasile, parlando la lingua dei suoi genitori Agostinho e Rosa, emigrati a inizio secolo da Madeira. Sicuramente ci pensava.

Il calcio era una faccenda da immigrati, negli Usa. Arrivavano via nave dalla Vecchia Europa e si fermavano lì nella East Coast; quelli che non si accontentavano di un massacrante lavoro in fabbrica tentavano la carta dello sport, e cercavano di diventare campioni nella boxe o nel baseball. Altri, alla fine, optavano per il calcio, dove c’era meno competizione, ma giravano anche meno soldi. Il New England – pieno di scozzesi, italiani e iberici – era l’epicentro di tutto il movimento calcistico nordamericano, i portoghesi avevano anche una loro squadra, il Lusitania Recreation Club di East Cambridge, dove Billy Gonsalves iniziò a farsi conoscere. A soli 19 anni, un’età insolitamente precoce per un calciatore negli Stati Uniti, si trasferì al Boston Soccer Club e, da lì, nel 1929, tornò a Fall River, sempre da protagonista assoluto.
Aveva raggiunto la gloria nel 1930, e tre anni dopo era lì a guardare uno stadio praticamente vuoto. Travolta dai debiti, nel 1933 la lega americana aveva dichiarato fallimento; era subito rinata, con un nuovo nome e nuove squadre, ma il predominio del New England era finito, e il baricentro del soccer si spostava a sud, sulle più ricche rive del Mississippi. Fu Alex McNab a chiamarlo a St. Louis: si erano conosciuti a Boston, quando McNab si era appena trasferito con grande clamore dalla Scozia e Gonsalves era solo un astro nascente; si erano ritrovati a Fall River e ora nel Missouri, dove il calcio statunitense stava cercando di rinascere. Durante la permanenza di Gonsalves nei St. Louis Central Breweries, dal 1933 al 1937, il club conquistò tre campionati e tre coppe nazionali, più due finali di coppa. In mezzo ci fu il secondo Mondiale, in Italia. Si dice che una squadra di Serie A gli offrì 10mila dollari l’anno, al posto dei 50 dollari a partita che guadagnava in America; non si è mai capito cosa lo convinse a rifiutare anche quella volta.

Giocò tutta la vita solo negli Stati Uniti. Lasciò St. Louis dopo qualche anno, perché aveva nostalgia di casa e poteva accontentarsi anche di giocare in squadre minori. Rimase anonimo, nella grande storia del calcio, anche dopo la tripletta segnata al Celtic Glasgow in un’amichevole che fece impazzire Willie Maley, tecnico degli scozzesi. Su di lui sono rimasti solo sentito-dire e leggende, come forse su nessun altro calciatore della storia: si narra fosse talmente corretto, in campo, che non fu mai ammonito né espulso; che calciava il pallone con tale potenza che una volta un suo tiro si stampò sulla straversa, rimbalzò all’indietro, e toccò terra solo all’altezza del cerchio di centrocampo. Walter Dick, che giocò con lui i Mondiali del 1934, disse il suo tiro era più forte e preciso di quello di Matthias Sindelar; Jack Hynes, calciatore americano tra i più rappresentativi degli anni Cinquanta e Sessanta, lo considerava più forte anche di Pelé. Leggende. Lasciò il mondo del calcio nel 1952, due anni dopo la clamorosa vittoria della nazionale statunitense contro i Maestri inglesi ai Mondiali in Brasile; sette giocatori di quella squadra militavano in club di St. Louis, ma questa è un’altra storia.
Fonti
–AA VV, Adelino “Billy” Gonsalves, Society for American Soccer History
–AA VV, Quando gli USA arrivarono terzi ai Mondiali, Storie di Calcio
–COSIN Alberto, Adelino “Billy” Gonsalves: el primer astro del soccer, The Tactical Room
–CURADO Paulo, Billy Gonsalves: o “Pelé” do soccer americano é luso-americano, Publico
–HOLROYD Steve, Meet the Babe Ruth of American Soccer, The Philly Soccer Page
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