Polisportiva Milan: il crollo dell’impero sportivo di Silvio Berlusconi

È il febbraio 1986, e il Milan – una delle più gloriose società di calcio italiane, da tempo in profonda crisi – viene acquistato dall’uomo-nuovo di Milano, Silvio Berlusconi. In Italia lo conoscono tutti: ha 50 anni, ed è il proprietario di un impero mediatico che comprende giornali, televisioni e una concessionaria di pubblicità. Dice di essere venuto fuori dal nulla, sostenuto solo dalla sua abilità imprenditoriale, ma chi vuole sapere sa che in realtà deve tutto al Presidente del Consiglio Bettino Craxi, che nel 1984 ha emesso un apposito decreto per legalizzare le tv di Berlusconi e permettere loro di fare concorrenza alla Rai. Quelli che hanno approfondito sanno anche altro: che ha costruito la propria fortuna attraverso l’edilizia e a strani affari con banche legate alla massoneria e alla mafia. Pare che abbia provato a comprare l’Inter, ma che gli sia stato detto di no, così ha virato verso l’altra squadra della sua città, appena in tempo per salvarla dal fallimento. Berlusconi dice che ripianerà tutti i debiti e costruirà un grande Milan. Molti ci sperano.

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Czeizler e il calcio totale alla svedese

L’arrivo di quel signore ungherese a Norrköping doveva essere percepito come uno strano evento: quella era una cittadina industriale dell’entroterra svedese, lungo la strada che collega Malmö a Stoccolma, luogo di gente che lavorava sodo in cui calcio non aveva mai raccolto grandi fortune. Non erano state infatti le circostanze sportive a condurre fin lassù Lajos Czeizler, ma quelle politiche: i venti di guerra e della discriminazione razziale lo avevano costretto a lasciare l’Italia già nel 1935, e poco dopo era sbarcato in Svezia. Il paese scandinavo era diventato, nei primi anni di conflitto, terra di rifugio di tanti esuli in fuga dall’avanzata nazista e dalle persecuzioni antisemite, grazie all’equilibrismo del governo di Per Albin Hansson, che aveva consentito di mantenere neutrale il paese.

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Ibra, Lukaku, periferie e aristocrazie

Qualche sera fa l’Italia ha assistito alla quasi rissa tra due calciatori in diretta tv. No, meglio: ha assistito a un pezzo di calcio di periferia trapiantato alla Scala del calcio, in uno dei principali palcoscenici sportivi del mondo. Ed è ovviamente rimasta inorridita, come si resta sempre inorriditi quando ci si trova davanti ai ragazzi che dalle periferie affluiscono al centro e si ostinano a non voler abbandonare quel modo di fare così “periferico”.

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