L’indiano era sulla strada di casa. L’inverno del 1912 era particolarmente freddo, in quell’angolo estremo del Canada sud-occidentale, ma lui ormai ci era abituato. Era abituato anche alla lunga strada da fare per raggiungere la città dei bianchi fin dalla riserva posta a lato del fiume, nella poca terra che era stata lasciata loro. L’indipendenza assomigliava tanto alla ghettizzazione, pensava: nella riserva si potevano governare da soli, ma non avevano niente. Non avevano nemmeno le medicine che servivano a suo figlio malato, e così l’indiano si era dovuto mettere in cammino verso Nord, fino a a Nanaimo – un nome e una terra da tempo usurpati alla sua gente. Al ritorno, aveva incrociato un treno che portava carbone verso Sud, e aveva deciso di balzarci sopra, perché quello era l’unico mezzo di trasporto che uno come lui potesse permettersi. Era freddo, l’inverno del 1912, umido di pioggia e nevischio. L’indiano corse, saltò, scivolò, cadde, e venne travolto e maciullato dal treno, che filò via, indifferente. Il giorno dopo, straordinariamente la sua morte era sulla stampa locale, fatto più unico che raro per un indiano: moriva così Xulsimalt, che i bianchi chiamavano Harry Manson, il calciatore più forte della Columbia Britannica.
Nanaimo era una cittadina che sorgeva su una pacifica insenatura lungo lo Stretto di Georgia, che l’aveva resa ideale come porto commerciale. Alle sue spalle, si estendeva un’isola in gran parte disabitata, ma ricca di legno e miniere di carbone. Attorno a questi due beni e alla pesca si era sviluppata la piccola economia locale, destinata per lo più a rifornire la grande città dall’altro lato del fiume, Vancouver. Lì era nato, nel 1879, Xulsimalt, uno che sarebbe potuto tranquillamente essere un ragazzo qualunque di quegli indigeni derelitti e dimenticati ai margini delle città del Nord America, che vivono di stenti tirando fino alla morte. Gli spiriti avevano scelto per lui un nome che, però, portava con sé ben altre speranze: “Colui che Lascia un Segno”. Ma siccome i bianchi non capivano queste tradizioni, considerate rottami di inciviltà e arretratezza, come tutti i suoi fratelli e sorelle aveva dovuto assumere anche un nome inglese.
25 anni prima della sua nascita, la sua gente era stata truffata e defraudata della propria terra da un ricco signore bianco, Sir James Douglas, che aveva comprato alcune terre dai nativi e siglato dei trattati che poi erano stati regolarmente modificati, violati e disattesi unilateralmente. Così, il popolo Snuneymuxw era rimasto confinato nella sua inutile riserva, separato dal mondo. In qualche modo, quella barriera sociale era però stata attraversata dal calcio, il nuovo sport importato di recente dal Regno Unito e che stava prendendo piede nelle scuole dei ricchi, ma assomigliava molto a un gioco con la palla che le Prime Nazioni praticavano da ben prima che i bianchi scoprissero le coste dell’America. In un certo senso, quello sport era loro tanto quanto degli inglesi.
Harry Manson era un ragazzino dalle eccezionali doti atletiche e dalla considerevole velocità, qualità che lo avevano presto reso uno dei migliori giocatori della riserva, sebbene giovanissimo. Quando aveva circa 18 anni, scese in campo con la maglia del Nanaimo Warriors, una squadra composta unicamente da giocatori indiani, contro i bianchi del Nanaimo Thistles, facendo un’impressione tale che questi ultimi decisero di chiedergli, a partita finita, di venire a giocare per loro, consentendogli così di prendere parte al campionato provinciale. Dovendo continuare a dividersi tra la città e la riserva, Manson decise di fondare anche una sua propria squadra di calcio solo per nativi, il Nanaimo Indian Wanderers, sfruttando la fama che si stava costruendo nel calcio della Columbia Britannica per organizzare match tra nativi e bianchi. A fine Ottocento, le due comunità vivevano di fatto separate, in una situazione che favoriva il rinsaldarsi del razzismo bianco verso gli aborigeni, i quali, esclusi dalla società, finivano spesso per darsi all’alcolismo.

Il Wanderers divenne quindi un punto di riferimento per la comunità nativa della zona di Nanaimo, fornendo un’alternativa a molti giovani, non a livello economico ma sicuramente nel modo in cui impiegare il proprio tempo. Il professionismo era chiaramente un miraggio, e lo stesso Harry Manson si manteneva in realtà facendo il pescatore, come buona parte degli altri membri della sua tribù. Ma quando scendeva in campo, c’era solo il calciatore: un brillante e atletico centrocampista, ma soprattutto un leader in grado di tracinare l’intera squadra. In quegli anni, il Wanderers s’impose come una delle compagini più forti della regione, arrivando a competere alla pari con le meglio allenate squadre dei bianchi, e facendo conoscere tutta una generazione di promettenti calciatori aborigeni.
Un simbolo sociale ed identitario come forse, all’epoca, non ce n’erano in tutto lo sport canadese. Ogni volta che scendevano in campo, i giocatori del Wanderers ricevevano insulti razzisti; durante un match contro una squadra della vicina Ladysmith, la stampa locale riportò che i tifosi avversari urlavano ai propri beniamini “Uccidete quei selvaggi!”. Nonostante questo, quando nel 1903 si dovette formare una selezione dei migliori calciatori di Nanaimo per competere nella Challenge Cup, il campionato della Columbia Britannica, Manson e altri due suoi compagni di squadra – Louis Martin e Joe Peters, come lui membri della tribù Snuneymuxw – furono tra i convocati. E furono loro a segnare tutte le quattro reti con cui la loro squadra annichilì l’Esquimalt Garrison in finale. Nessuno dei tre, però, fu invitato alla cena celebrativa della vittoria.
Giocare a calcio a quei tempi, in un paese tutto sommato marginale – il Canada aveva vinto l’oro olimpico nel 1904 a St. Louis, ma con una squadra dell’Ontario, una regione orientale maggiormente in contatto con l’Europa e gli Stati Uniti – ed essendo per di più indigeni, non era cosa semplice. Harry Manson aveva una famiglia da mandare avanti, essendo da poco nato suo figlio Adam, e lo sport non garantiva alcuna compensazione economica. Così, dopo il 1907 le notizie su di lui e la sua carriera da calciatore svaniscono, e non si sa se abbia continuato a giocare con il suo Wanderers o abbia invece scelto di limitare l’attività per dedicare più tempo al lavoro.
Nessuna notizia fino al 1912, quando ormai andava per i 33 anni e l’epoca d’oro del calcio aborigeno nella Columbia Britannica era ormai tramontata. La stessa cultura dei nativi si stava disgregando sotto i colpi delle leggi dello stato canadese: la riforma dell’istruzione, che ufficialmente doveva servire a integrare i giovani e dare loro maggiori opportunità di carriera da adulti, era prima di tutto un modo per separare i bambini dalle loro famiglie e crescerli come bianchi cristiani, cancellando ogni forma di retaggio indigeno. Mentre questo succedeva, Harry Manson veniva travolto da un treno sulla via di casa, mentre cercava di portare delle medicine al figlio. L’indagine sulle cause della sua morte fu molto sbrigativa, e si concluse che doveva trattarsi del classico caso di indiano ubriaco marcio che finiva morto sui binari.

La storia è rimasta questa fino al 2009, quando un appassionato locale di storia del calcio, Robert Janning, non incontrò per caso Emmy Manson, bis-nipote di Harry, e grazie a lei poté conoscere i discendenti del calciatore dimenticato: tutto ciò che avevano di lui era il rapporto dell’autopsia, con una foto e la dichiarazione che era morto venendo travolto da un treno da ubriaco. Janning sapeva che la storia di Harry Manson era molto più grande, e decise che la memoria del più grande calciatore nativo americano della storia andasse ripulita. Condusse ulteriori ricerche, contattò le associazioni indiane e quelle calcistiche, scrisse addirittura a Bob Lenarduzzi, stella del Vancouver Whitecaps negli anni Settanta e Ottanta e considerato il miglior calciatore di sempre del Canada occidentale. E, alla fine, nel 2014 Harry Manson – o Xulsimalt, per la sua gente – è stato finalmente inserito nella British Columbia Sports Hall of Fame, riconosciuto come un pioniere non solo del calcio locale, ma anche dell’integrazione razziale.
“Ciò che mi ha ispirato, della sua storia, è che volesse giocare sia per le squadre dei bianchi sia per quelle degli indigeni. Voleva solamente giocare a calcio” ha spiegato Janning alla cerimonia.
Fonti
–BECK Jason, Harry Manson, BC Sports Hall fo Fame
–METHOT SUZANNE, Canada 24/150: Harry Manson, Canadian Race Relations Foundation