Il 1957 sembrava destinato a essere il grande anno dell’Africa: dall’inizio del decennio, alcune nazioni del Nord avevano dato il via al processo di decolonizzazione che si stava espandendo all’intero continente, in cui andava prendendo sempre più piede l’ideale del panafricanismo sbandierato da Kwame Nkrumah (che proprio l’anno seguente avrebbe promosso la prima Conferenza degli Stati Africani Indipendenti). Sulla spinta di questo vento, Egitto, Sudan, Etiopia e Sudafrica avevano preso parte per la prima volta al Congresso della FIFA nel 1953, e tre anni dopo avevano dato vita alla Confederation of African Football (CAF), che aveva fissato per il febbraio del ’57 la prima edizione del torneo contintentale. La Coppa d’Africa sarebbe stata la terza competizione di questo tipo, dopo lo storico Campeonato Sudamericano e la neonata Coppa d’Asia, mentre in Europa nulla del genere era ancora stato creato. Ma c’era un problema che stava già spaccando le quattro fondatrici: non era possibile accettare il Sudafrica.
Da qualche anno, al riparo dagli occhi indiscreti della comunità internazionale grazie alla sua posizione geografica estremamente marginale, il Sudafrica aveva avviato una feroce politica di segregazione razziale: in un paese a maggioranza nera, il gruppo dominante bianco, che controllava la politica nazionale, aveva promulgato una serie di leggi discriminatorie che miravano a separare i neri dai bianchi, escludendoli dalla società sudafricana e relegandoli in ghetti isolati e dalle pessime condizioni socio-sanitarie. La comunità internazionale sapeva di questa situazione fin dal 1946, quando il governo indiano aveva chiesto all’ONU una discussione sulla discriminazione dei propri cittadini in Sudafrica, ma sostanzialmente il problema era stato trattato con superficialità, e ritenuto una questione di politica interna. Nel resto dell’Africa, che stava andando politicizzandosi con grande rapidità, quanto avveniva in Sudafrica suscitava invece non poca preoccupazione.
Così, nella già difficile situazione in cui si tenne la prima Coppa d’Africa – l’Egitto, paese ospitante designato, dovette rinunciare a causa della crisi di Suez, e il torneo si spostò in Sudan – la CAF mise il Sudafrica davanti a un aut-aut: o si presentava con una Nazionale mista, che rispecchiava entrambi i principali gruppi etnici del paese, o era fuori. Sulla stampa di Johannesburg, la notizia che circolò metteva però in luce come fosse stata la Federcalcio a tirarsi fuori dal torneo, dopo che la CAF ne aveva negato il rinvio nonostante la difficile situazione egiziana. Ma che non si fosse trattato di un ritiro, bensì di un’esclusione, non era un segreto per nessuno, nel resto del continente.
Tanto che, l’anno seguente, le federazioni africane presentarono ufficialmente alla FIFA la richiesta di sospendere il Sudafrica dall’organizzazione: sarebbe stata la prima volta nella storia che si arrivava a una simile decisione. Ma l’atteggiamento del governo del calcio mondiale era sempre stato molto ambiguo, verso Johannesburg: il calcio locale era diviso in due diverse federazioni – la FASA bianca, che rappresentava il 18% del paese, e la SAFS nera, rappresentante il restante 82% – ma ovviamente era solo la prima ad avere credito internazionale. Nel 1955, la FIFA sentenziò che la FASA non poteva essere considerata un vero organo nazionale per via delle sue politiche discriminatorie, ma allo stesso tempo negò l’affiliazione alla SAFS con la stessa motivazione. Un anno dopo, la FIFA istituì una commissione per indagare sulle eventuali violazioni della FASA, di fatto creando il primo organo della politica mondiale a recarsi in Sudafrica per affrontare il tema dell’apartheid. La commissione, però, concluse che la divisione razziale del calcio locale era una tradizione sudafricana, e non poteva essere condannata in toto. Curiosamente, a capo del comitato c’era un uomo di nome Karel Lotsy, importante dirigente sportivo olandese, ex-ufficiale coloniale e in odore di collaborazionismo coi nazisti durante la guerra.

Le pressioni della FIFA ebbero un unico risultato: nel 1956, la FASA rimosse la sua regola sull’esclusione dei neri e promise di creare una nazionale apposita per l’etnia bantu. Tutto questo fu solo un vuoto contentino per allontanare gli occhi critici del calcio internazionale, perché contestualmente il governo imponeva per legge la totale separazione di bianchi e neri anche nello sport, compresi i club di calcio. I paesi africani rimasero gli unici a continuare a denunciare i crimini del regime, nella sostanziale indifferenza del mondo occidentale, che solo poco più di un decennio prima aveva chiuso l’atroce capitolo del Nazismo. Poi arrivò il 1960, e in un giorno di marzo una folla di qualche migliaio di neri si riunì a Sharpeville per una protesta pacifica; il governo bianco reagì mandando la polizia coi fucili spianati, che lasciarono sul terreno 70 morti e 180 feriti. Solo a quel punto il Sudafrica divenne effettivamente un problema.
Una settimana dopo, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite condannava espressamente l’apartheid, ponendo delle basi di legittimità per la decisione della FIFA di agire finalmente contro la FASA: in agosto, anche il governo del calcio, riunitosi a Roma, impose la rimozione delle regole discriminatorie, dando al Sudafrica un anno di tempo per adeguarsi; quando, a settembre 1961, fu chiaro che l’avvertimento era stato ignorato, gli Springboks vennero finalmente sospesi. La mossa della FIFA segnò un’altra volta un momento storico nel rapporto tra il mondo e l’apartheid, perché si trattò dela prima azione concreta contro il regime afrikaner: dopo la condanna del 1960, l’ONU aveva atteso infatti fino al 1963 per promulgare un embargo economico volontario contro Johannesburg. In entrambe le due sedute delle Nazioni Unite, però, due paesi si erano astenuti dal voto, assumendo una posizione intermedia che celava neanche troppo bene un certo supporto per il regime sudafricano: erano Francia e Regno Unito.
Dal Regno Unito veniva anche Sir Stanley Rous, che tre giorni dopo la sospensione della FASA era stato eletto presidente della FIFA e aveva lasciato intendere che la sua posizione in merito era la cancellazione delle sanzioni, in nome della neutralità dello sport rispetto alla politica. Per il gennaio del 1963, Rous aveva organizzato una commissione d’inchiesta per valutare se confermare o meno la sospensione del Sudafrica, e tra non poche polemiche da parte dei paesi africani si era autonominato a capo della commissione stessa. Nel rapporto inviato alla FIFA dopo la sua visita, Rous dichiarò che non c’era prova di alcuna “esplicita discriminazione” da parte della FASA; che la SASF non poteva rappresentare il calcio locale, in quanto agiva in contrasto con il governo sudafricano; e che, in futuro, la FIFA avrebbe fatto meglio a tenersi fuori dalla politica interna dei paesi membri. Il Sudafrica venne così riammesso nel mondo del calcio.
C’era francamente poco da stupirsi: la FIFA era un’organizzazione europea ed eurocentrica dominata da Francia e Regno Unito, le due principali potenze coloniali al mondo che, proprio in quegli anni, stavano lottando contro i movimenti indipendentisti in giro per i propri imperi. Al Congresso del 1964, Rous arrivò ad accusare esplicitamente le federazioni della CAF di portare avanti politiche razziste “al contrario”, contro bianchi e mulatti. Dalla sua, il presidente aveva da giocare una grande carta, quella della SABFA, una federazione sudafricana nera creata su impulso dell’èlite bianca per delegittimare la SAFS e sostenere che in realtà la maggior parte dei neri erano d’accordo con la situazione vigente, e che i “ribelli” non erano altro che agitatori comunisti legati all’African National Congress di Nelson Mandela, il quale in quel momento stava scontando una pena all’ergastolo per alto tradimento e tutta una serie di altri crimini. Nonostante ciò, il Congresso della FIFA espresse una schiacciante maggioranza contro Rous e a favore della nuova sospensione del Sudafrica (dopo la quale, il governo di Johannesburg fece arrestare e dimettere il segretario della SAFS George Singh).

Il nuovo ban della FIFA era andato di pari passo con quello del CIO, che aveva escluso totalmente il Sudafrica dallo sport globale. In un’epoca in cui l’ONU era ancora fermo all’embargo volontario da parte dei paesi membri, il mondo dello sport era quello che aveva preso le contromisure più radicali contro il regime dell’apartheid, che rapidamente si stava accorgendo del peso politico e sociale dello sport. Ma mentre il Sudafrica restava isolato a livello ufficiale, Rous manteneva una stretta corrispondenza con la FASA, incoraggiandola a preparare un dossier sulle presunte discriminazioni della SAFS, così da riaprire il caso. Questo creò un’insanabile frattura tra il capo della FIFA e le federazioni africane, sfruttata a dovere dal brasiliano João Havelange, che in vista delle elezioni del 1974 si presentò con un programma terzomondista che ruotava attorno alla ferma condanna della FASA: per lui votarono tutti e 37 i paesi CAF, permettendogli di diventare il primo segretario non-europeo della FIFA.
La prima mossa di Havelange fu di inasprire il regolamento anti-discriminazioni, ponendo le basi per l’espulsione di chi lo violava; a quel punto, la FASA dovette cedere alla creazione di un organo federale multirazziale. Ma nel giugno 1976, giusto un mese prima del Congresso in cui si sarebbe dovuto sancire il futuro degli Springboks, la polizia bianca massacrò senza pietà centinaia di studenti e manifestanti neri a Soweto: nemmeno Rous, stavolta, perorò la causa di Johannesburg, e il Sudafrica divenne la prima federazione espulsa dalla FIFA in 72 anni di storia. Subito dopo il massacro di Soweto, l’ONU aveva condannato le violenze del regime bianco con una risoluzione votata all’unanimità; nel novembre 1977, di nuovo all’unanimità venne votata la risoluzione che trasformava l’embargo da volontario ad obbligatorio.
Iniziava così la lenta ma inesorabile disgregazione dell’apartheid. Negli anni successivi, i leader politici neri avrebbero riconosciuto come il boicottaggio sportivo, partito proprio dal mondo del calcio, era stato un fattore decisivo per indurre la crisi del regime bianco. All’inizio degli anni Novanta, la segregazione razziale in Sudafrica si era quasi del tutto dissolta: nel dicembre 1991 era nata la SAFA, una federazione finalmente aperta a tutti, che pochi mesi dopo fece richiesta di riammissione alla FIFA, con il supporto dell’African National Congress. Nell’aprile 1992, Havelange guidò una nuova visita ufficiale nel paese, e nel suo rapporto conclusivo certificò la fine dell’apartheid e il via libera al reintegro del Sudafrica nel calcio globale, formalizzato quell’estate. Due anni dopo, si sarebbero tenute le prime libere elezioni e per il 1996 il paese avrebbe ospitato la 20° edizione della Coppa d’Africa, torneo a cui avrebbe preso parte per la prima volta. Ma questa è un’altra storia.
Fonti
–HENLEY Taylor, “This Time for Africa”: FIFA, Politics, and South Africa’s Struggle for Human Rights