“È una situazione totalmente sicura, non c’è nulla da temere. Inoltre, è una grande opportunità per tutti noi.” Probabilmente la scusa fu questa, detta in poche parole. Non è la prima volta che i calciatori australiani – non certo i più famosi al mondo – partivano per una tournée all’estero, ma sicuramente questa era la più assurda che la Federazione avesse organizzato. Il Friendly Nations Tournament sarebbe durato dal 4 al 14 novembre 1967, mettendo a confronto i Socceroos con altre sette selezioni, nella “splendida” location di Saigon. Sì, proprio Saigon.
Da due anni, l’appoggio statunitense al governo del Vietnam del Sud si era trasformato in una sorta di occupazione militare, volta a sradicare la minaccia comunista dei Viet Cong, appoggiati dal governo del Nord e da Cina e Unione Sovietica. Agli australiani era chiesto di recarsi in quello che era di fatto il centro di comando delle operazioni militari americane all’interno di una delle più pericolose zone di guerra al mondo. Una guerra che, peraltro, gli Stati Uniti non erano poi così sicuri di vincere: solo in quell’anno erano morti circa 10mila americani, e alcuni membri del Congresso avevano già chiesto al presidente Johnson di avviare trattative di pace.
Non era solo una guerra americana: diverse nazioni alleate asiatiche partecipavano al conflitto, a partire dalla Corea del Sud, e poi c’erano la Spagna, la Germania Ovest, la Nuova Zelanda. 7000 australiani erano già schierati sul fronte vietnamita: il primo ministro liberale Harold Holt, molto legato agli Stati Uniti e favorevole al conflitto iniziato dal suo predecessore, pensò che un torneo sportivo a Saigon sarebbe stato una buona mossa propagandistica per migliorare il morale delle truppe e dei civili. Ovviamente, l’agnello sacrificale doveva essere la nazionale di soccer, uno sport molto poco popolare in Australia.
Ritenuto inferiore al rugby, il calcio aveva sempre riscosso scarsissimo successo, ed era praticato soprattutto tra gli immirati slavi, italiani e ungheresi. Come ad esempio Joe Vlasits, mediocre ala di un piccolo club di Budapest che, dopo che l’Armata Rossa aveva invaso il paese nel 1956, era espatriato nel Nuovo Galles del Sud ed divenuto allenatore, fino ad arrivare alla guida della Nazionale pochi mesi prima del torneo vietnamita.
Gli australiani erano dilettanti, che lavoravano durante il giorno, qualche sera si allenavano e la domenica avevano il campionato; non conoscevano la vita dei loro colleghi europei, ma di certo non potevano ritenere accettabili le condizioni in cui dovettero preparare quel torneo. A dispetto del nome, l’hotel Golden Building di Saigon -che ospitava anche l’ambasciata australiana – era una struttura sporca e fatiscente, al punto che i giocatori preferivano starci il meno possibile. Il campo d’allenamento era un parco pubblico, con delle porte artigianali e circondato da una rete talmente bassa che, se sbagliavi un tiro, a qualcuno toccava andare a riprendere il pallone. Un giorno, lo sfortunato evento si verificò, e quando uno della squadra si avviò al fastidioso recupero, alcune persone lo fermarono, avvertendolo che la palla era atterrata in un campo minato. Da quel giorno in avanti, gli allenamenti si limitarono agli esercizi ginnici sul tetto dell’hotel, che non era troppo più sporco delle camere.
Ai giocatori fu sconsigliato di mangiare il cibo locale, per evitare di ammalarsi, così per i pasti bisognava recarsi alla base militare australiana e mangiare il rancio dei soldati. Questo generò un solido rapporto tra i calciatori e quei ragazzi che, a fine conflitto, avrebbero contato 500 morti e 2000 feriti, oltre alle incalcolabili conseguenze psicologiche: i soldati divennero i principali tifosi dell’Australia, e per alcuni quello uno dei primi importanti momenti in cui il calcio iniziò a diffondersi oltre le marginali comunità d’immigrati.

Gli avversari erano selezioni della zona asiatico-oceaniana, tutte rappresentative di paesi alleati degli Stati Uniti: non era ovviamente stata invitata la Corea del Nord, vera potenza del calcio asiatico dell’epoca, reduce da un eccellente Mondiale l’anno precedente, al quale si era qualificato dopo aver facilmente eliminato proprio gli australiani. L’avversario più temibile era quindi la Corea del Sud, che aveva disputato i Mondiali nel 1954 e aveva poi vinto due Coppe d’Asia, arrivando terza all’edizione del 1964.
Il 5 novembre, l’Australia esordì con una spettacolare vittoria per 5-3 sulla Nuova Zelanda, grazie a una tripletta dell’astro nascente Attila Abonyi del Melbourne Hungaria: era anche lui nativo di Budapest, figlio di esuli della Rivoluzione, proprio come il ct Vlasits. Due giorni dopo, i Socceroos si trovarono a giocare nello stadio Cong Hoa gremito di 30mila persone, venute a tifare il Vietnam del Sud e uscite dal campo deluse a causa del gol decisivo segnato dopo mezzora dal mediano Johnny Warren, uno dei leader degli oceaniani.
Se non fosse stato per il tifo di tutte quelle persone, probabilmente in campo si sarebbe udito l’eco dei mortai. Pochi giorni prima, le truppe americane avevano iniziato una poderosa offensiva contro i nord-vietnamiti sugli altopiani centrali della provincia di Kon Tum, presso la base militare di Dak To. L’attacco, nei piani del generale Westmoreland, avrebbe dovuto spaccare il fronte nemico e assestare un colpo decisivo alla resistenza comunista: gli Stati Uniti avevano schierato 15mila uomini, contro i probabili 6mila nord-vietnamiti.
Il percorso in autobus dallo stadio di Saigon all’hotel fu costellato di proteste, insulti incomprensibili e ben più decifrabili sassi scagliati contro il mezzo: la sconfitta della selezione del Vietnam del Sud non era stata presa bene dai locali, e pian piano gli australini iniziavano a rendersi conto di che pessima idea era stata quel torneo. La popolazione, già fiaccata da una guerra che stava perdendo e dalla invadente presenza americana, ora aveva dovuto subire anche una sconfitta sportiva. Il torneo amichevole organizzato per rinsaldare i rapporti tra i paesi alleati, stava sortendo l’effetto opposto. Nel match contro la Malaysia, il gol ai supplementari di Ray Baartz fece scoppiare una rivolta dei tifosi, che irruppero in campo, causando l’intervento delle forze dell’ordine, mentre la partita terminava tra le nuvole dei gas lacrimogeni.

In finale, l’Australia trovò la Corea del Sud, come da pronostico. Non è chiaro cosa cambiò, a quel punto, sugli spalti: forse, i vietnamiti odiavano i coreani più di quanto odiassero gli australiani, nonostante l’evidente affinità storico-politica (oltre dieci anni prima, la guerra nel Vietnam era stata “anticipata” da quella in Corea). Dopo l’immediato svantaggio, il pubblico iniziò a sostenere i Socceroos, sulla carta sfavoriti, e l’Australia riuscì incredibilmente a rimontare e vincere 3-2.
La nazionale oceaniana non aveva mai vinto un trofeo di nessun tipo, fino a quel momento: il torneo nel Vietnam in guerra fu l’assoluta epifania di una squadra giovane che, improvvisamente, si scopriva in grado di poter lottare per qualcosa di concreto. La vittoria non ebbe molta eco in patria, ma fu un momento decisivo per la storia del calcio australiano: i pionieri di Saigon sarebbero stati l’ossatura della squadra che avrebbe ottenuto la prima storica qualificazione ai Mondiali del 1974, capitanata da Johnny Warren e con Attila Abonyi in attacco.
Della squadra non avrebbe fatto parte Ray Baartz, autore di tre gol nel torneo: durante un’amichevole con l’Uruguay prima dei Mondiali tedeschi, venne colpito alla gola da Luis Garisto, riportando un grave danno all’arteria carotide. A soli 27 anni, Baartz dovette ritirarsi: era uno dei migliori calciatori australiani in circolazione, che da ragazzo aveva anche giocato nei ragazzi del Manchester United, prima di tornare in patria con la maglia del Sydney Hakoah. Oggi, una zona di Glenwood, un sobborgo di Sydney, porta il nome di Baartz Terrace in suo onore; poco distante, si può trovare anche Abonyi Place.
Il 23 novembre, i Socceroos erano ormai tornati a casa, alla vita di tutti i giorni. In quella data, però, si concluse la battaglia di Dak To: gli americani avevano decimato la forze nord-vietnamite, costringendole alla ritirata. Ma l’offensiva era durata venti giorni, gli Stati Uniti avevano subito pochi morti ma un elevato numero di feriti; la 173a Brigata aviotrasportata non era più impiegabile in combattimento, e altri due battaglioni di fanteria erano stati duramente colpiti, 40 elicotteri erano stati abbattuti. Soprattutto, Westmoreland aveva previsto la vittoria americana entro fine anno, e invece il nemico era ancora in piedi. La guerra nel Vietnam stava procedendo verso un epilogo inaspettato e, dal punto di vista occidentale, assolutamente drammatico.
A mettere fine a quell’assurdo autunno 1967, il 17 dicembre moriva il primo ministro australiano Holt. Era andato a trovare alcuni amici in un albergo sulla spiaggia a sud di Melbourne; a un certo punto, probabilmente per impressionarli, Holt si tuffò nell’oceano, e non riemerse più. Aveva 59 anni e non era in perfette condizioni di salute; il suo corpo non fu mai più ritrovato.
Fonti
–COOKE Richard, The forgotten story of… the Socceroos in Vietnam, The Guardian
–PARKINSON James, At height of Vietnam War, Australia tried soccer diplomacy, WBUR