È difficile, oggi, vedere un disegno su un muro e non pensare “Banksy!”. Non si sa neppure bene cosa significhi, quel nome, e ancor meno si sa cosa nasconda: Banksy è la figura più enigmatica della contemporaneità, l’artista di strada più famoso al mondo ma di cui nessuno conosce l’identità. La notorietà e il suo opposto che convivono nello stesso soggetto, e l’una alimenta costantemente l’altra.
Ma mettiamo da parte per un attimo l’artista, perché la nostra storia inizia in un’epoca in cui non c’è artista e non c’è mistero. La nostra ambientazione è Bristol, nemmeno 500mila abitanti nel South-West inglese, uno dei porti più famosi al mondo. Dove c’è un porto c’è via vai, c’è mescolanza e c’è, quindi, un fiorente magma culturale: per quelli che ne sanno, questa è la città artisticamente più viva di tutto il Regno Unito. I tizi ben vestiti con i microfoni in mano la chiamano ancora ‘controcultura’, solo quelli un po’ più giovani prediligono il termine ‘cultura underground’. Termine stupendo, underground: se lo guardi da destra, significa “sottosuolo”, qualcosa di sporco, puzzolente e nascosto, probabilmente losco e ostile; se lo guardi da sinistra, vuol dire “metropolitana”, cioè una cosa che è propria delle grandi città, che pensano di caratterizzarsi per ciò che succede in centro, e invece vivono e respirano soprattutto nel tessuto urbano delle periferie.
Fin dalla fine degli anni Settanta, Bristol ha sviluppato una fortissima identità culturale underground. I ragazzi bianchi abbracciarono subito il punk, che finì per mescolarsi con la cultura degli immigrati caraibici e il reggae; si diffusero i primi sound system e la cultura dei graffiti, ed emersero figure iconiche come 3D, al secolo Robert Del Naja, italo-britannico che si interessava di musica e street-art, che prima si fece conoscere con il Wild Bunch e poi fondò i Massive Attack.
Tutti attivisti politici, ovviamente: antifascisti, antirazzisti, anarchici, che portavano avanti una dura critica a una società che marginalizzava le minoranze ed esasperava le divisioni sociali su cui poi marciava gentaglia come i neonazisti del National Front. Nel 1980, la polizia era dovuta intervenire per sedare una grossa rivolta di giovani sia bianchi che neri, appartenenti alle fasce più povere della cittadinanza, scoppiata nel quartiere di St. Paul, attorno al Black and White Café di Grosvenor Road: 130 arresti, 25 feriti, di cui 19 poliziotti e membri della stampa.
È solo nei primi anni Novanta, però, che iniziò a farsi strada la DryBreadZ Crew, un terzetto di graffittari adolescenti composto da Kato, Tes e Banksy. Come quasi tutti i componenti della scena culturale cittadina, erano artisti, attivisti politici di estrema sinistra e tifosi di calcio. In particolare del Bristol City FC, che dal 1979 aveva vissuto un tracollo dalla prima alla quarta divisione, ma che in quel momento stava vivendo una modesta risalita, e nel 1990 riconquistava la Second Division.
Del gruppo, Banksy è quello che ha chiaramente più talento. Nel 1997 conosce Steve Lazarides, un promettente fotografo figlio di immigrati greco-ciprioti, a cui è stato commissionato di scattare alcune foto delle sue opere, e i due iniziano a collaborare: Banksy dipinge, Lazarides fotografa e diffonde. Due anni dopo, Banksy si reca presso Stoke Croft, in una delle zone più degradate di Bristol, piena di edifici abbandonati che diventano teatro di rave che poi attirano la polizia e degenerano in tafferugli. Lì, al numero 80 della via, copre un vecchio annuncio di uno studio legale con un graffito che raffigura un orsetto di pezza intento a tirare una molotov contro la polizia. Sotto, appone la sua firma: il suo nome inizia a diventare abbastanza noto.

Ciò che è meno noto è che, nel frattempo, Banksy gioca anche a calcio. Nel 1992, un gruppo di appartenenti a un centro sociale di Easton – il quartiere popolare in cui sorge la discussa M32 Motorway, in gran parte abitato da immigrati magrebini e indiani – fondano un club di calcio amatoriale, l’Easton Cowboys Football Club, che si iscrive alla Bristol and Wessex League ma, accanto alla pratica sportiva, intende portare avanti iniziative sociali per l’integrazione e la difesa degli spazi urbani. È uno dei primissimi casi in Europa di calcio popolare, che in Inghilterra è chiamato ancora Sunday afternoon kickabout, cioè quel calcio che si pratica un po’ così, per svago, nei pomeriggi domenicali che seguono le partite dei professionisti.
L’Easton Cowboys si guadagna presto una grande fama, allargandosi a un club di cricket e, poi, a una squadra femminile, che ha come conseguenza il cambio verso una denominazione più inclusiva: Easton Cowboys and Cowgirls FC. La squadra prende parte a vari tornei di calcio popolare in Germania e Belgio, e ne organizza altri in Inghilterra; poi, nel 1998, è tra le promotrici dell’Alternative World Cup, una Coppa del Mondo di calcio popolare che convoglia a Thornecomb, nel Dorset, squadre provenienti da tutta Europa e anche una dal Sudafrica (che poi vince il torneo, per la cronaca), e attira un tale interesse da venire trasmessa in tv.
Banksy è uno degli iscritti al club, e occasionalmente scende in campo nel ruolo del portiere. A Easton lo conoscono abbastanza bene, meglio di quanto lo conosciamo noi oggi: il quartiere è pieno di sue opere, che spuntano qua e là come funghi nei boschi a fine estate. Alcuni suggeriscono possa essere originario proprio della zona. Simon Hattenstone, il giornalista del Guardian che lo intervisterà qualche anno più tardi, lo descrive come un comunissimo ragazzo bianco tra i 25 e i 30 anni, look casual e trasandato, che assomiglia a una via di mezzo tra il cantautore Jimmy Nail e il rapper Mike Skinner.
Un’altra descrizione d’epoca ce la fornisce Louis Theroux, all’epoca un emergente documentarista dal taglio spiccatamente politico. Grande appassionato di calcio, Theroux si trovava a una partita del Queen’s Park Rangers – club londinese che stava per iniziare una drammatica stagione, al termine della quale sarebbe retrocesso in terza serie – perché un amico gli aveva consigliato di dare un occhio al nuovo, sgraziatissimo eppure efficace centravanti della squadra, Peter Crouch. Durante la partita, Theroux fece amicizia con un altro tifoso presente sugli spalti, che disse di essere uno street-artist e di chiamarsi Banksy. Il regista vide alcune sue opere in un piccolo booklet, e pensò fossero davvero buone; chiacchierarono un po’ e finita lì, ognuno a casa sua. “Avanti veloce di un anno, e la gente era lì che diceva ‘Hai sentito di questo Banksy? Nessuno sa chi sia!’ E io rispondevo ‘Banksy? Io lo conosco: abbiamo visto una partita del QPR assieme!'”.
L’anno è il 2001, e succede anche un’altra cosa: l’Easton Cowboys decide di compiere una straordinaria tournée in Chiapas. Questo semisconosciuto stato rurale del sud del Messico è balzato agli onori delle cronache internazionali nel 1994, quando un gruppo paramilitare noto come Ejército Zapatista de Liberación Nacional ha preso il controllo di parte del territorio instaurando una forma di governo orizzontale e libertaria, guadagnando fama anche e soprattutto grazie a uno dei suoi leader, il Subcomandante Marcos, la figura probabilmente più simile a Banksy che esista al mondo: sempre con un passamontagna in testa, nessuno conosce con certezza la vera identità di Marcos o il suo aspetto, eppure è famosissimo per le sue idee, raccolte in diversi libri di racconti dal forte contenuto filosofico e politico.
Banksy segue il club in Chiapas e ne difende la porta nei match giocati in loco, raccogliendo fondi per la causa zapatista. Tra una partita e l’altra, realizza vari murales sulle case dei villaggi da cui passano gli Easton Cowboys. Il più famoso si intitola A la libertad por el fútbol, e raffigura un guerrigliero zapatista nell’atto di compiere una rovesciata. Lo stesso titolo, tradotto in inglese, è stato usato nel 2012 per il libro in cui Will Simpson e Malcolm McMahon raccontano le origini dell’Easton Cowboys and Cowgirls, di cui sono tra i fondatori. Di questa avventurosa trasferta messicana abbiamo anche una foto, che è probabilmente l’unica immagine di Banksy che ci è pervenuta: un uomo, con fazzoletto rosso sulla bocca e cappello bianco da cowboy in testa, che dipinge un murales. Chi ha diffuso la fotografia si è premurato di oscurare quel poco di volto che sarebbe possibile vedere, così il mistero persiste immutato.

“La verità è che non era un brutto portiere. – ricorda Simpson – È un bravo ragazzo. Ci capita ancora di vederlo quando viene a Bristol, e passa dal The Plough, che è sia il nostro pub che la nostra sede.” Già, perché di ritorno dal Messico la vita di Banksy cambia radicalmente: le sue opere fanno sempre più parlare, nel Regno Unito e fuori; nel luglio 2002 tiene una mostra a Los Angeles, quindi si trasferisce stabilmente a Londra. Il suo stile si è evoluto, orientandosi verso lo stencil – che gli permette di lavorare in tempi molto più brevi rispetto a prima – e ricalcando la tecnica dell’artista francese Blek le Rat. Dirà in seguito che l’idea dello stencil gli venne osservando il numero di serie di un camion della spazzatura, sotto cui si era nascosto per sfuggire alla polizia. Nel 2005 compie un viaggio in Palestina, dove realizza diversi murales nei territori occupati della Cisgiordania, tra cui uno dei più celebri in assoluto: quello del manifestante che lancia un mazzo di fiori.
Da qui in avanti diventa una star, l’artista contemporaneo più famoso al mondo. Benché molti lo accusino di essere solo un vandalo, la sua arte ha di fatto abbattuto lo stigma sociale verso la street-art, travalicando i confini dell’underground da cui era sorta circa vent’anni prima. Le sue opere sono satire sociali semplici ma graffianti, dissonanze cognitive in cui spesso e volentieri lo sport è protagonista: ne è un perfetto esempio la serie No Ball Games, la cui prima opera appare a Los Angeles nel 2006, e un’altra viene scoperta tre anni dopo su un muro di Tottenham, un sobborgo di Haringey, a Londra. In quest’ultima, due bambini giocano passandosi, invece di una palla, un divieto – il ‘No Ball Games’, appunto – sottolineando l’eterno scontro tra il valore ludico e ribelle dello sport contro quello autoritatio e restrittivo del decoro urbano.
Le Olimpiadi del 2010 a Londra diventano un altro spunto per nuovi murales, come Going for Mould, in cui un saltatore con l’asta fa pratica in una periferia cittadina degradata. Molti lo interpretano come una critica al business olimpico, che investe milioni di euro in progetti urbanistici fallimentari, che potrebbero invece essere spesi per risistemare i quartieri disagiati. Ogni tanto, dona alcune sue opere all’Easton Cowboys and Cowgirls, per sostenere le periodiche campagne di autofinanziamento, e ha anche disegnato una maglietta celebrativa per la squadra, dimostrando che i legami con il tessuto da cui proviene sono ancora molto forti.
Qualcuno, in questi anni, ha provato a svelare il mistero attorno al suo nome, assicurando che Banksy in realtà sia Robert Del Naja, o magari il fumettista Jamie Hewlett, o l’ex-conduttore di Art Attack Neil Buchanan, o anche un ex-studente della Bristol Cathedral School di nome Robin Gunningham. Tutte ipotesi senza conferma, e che probabilmente non necessitano di averla. Ma se volete per forza una risposta, una volta il Subcomandante Marcos disse, a chi voleva saperne di più sul suo conto: “Sono un messicano qualsiasi, forse un po’ buffone, più del necessario per i gusti di qualcuno, e piuttosto sboccato. Non posso dire di più, ma possiamo sempre chiedere alla Procuraduría General de la República: magari è riuscita a mettere assieme maggiori informazioni.”
Fonti
–ONYANGA-OMARA Jane, Banksy in goal: The story of the Easton Cowboys and Cowgirls, BBC News
–PACIONE Gianmarco, Lo sport secondo Banksy, Athleta Magazine