Tramonto danubiano

Si dice che il sogno dell’Ungheria si sia infranto prima sulle mani di Toni Turek, nell’estate del 1954, e poi contro l’acciaio dei carrarmati sovietici, nell’autunno del 1956. L’Aranycsapat, la “Squadra d’Oro” allenata da Gusztáv Sebes che aveva conquistato l’oro olimpico di Helsinki e che pareva destinata a vincere in scioltezza i Mondiali del 1954, si sfaldò in seguito alle defezioni eccellenti di Puskas, Kocsis e Czibor, e sparì dai radar del grande calcio internazionale. Poi vai a vedere bene, e le cose sono sempre un po’ più sfumate: ci fu un’altra Ungheria, meno da prime pagine ma a suo modo vincente, che riempì come poté quegli anni crepuscolari.

La scuola danubiana aveva una grande tradizione anche prima dell’epoca comunista, è giusto precisarlo: i magiari avevano già raggiunto i quarti di finale al torneo olimpico del 1912, e nel 1938 erano stati finalisti mondiali contro l’Italia; la loro spettacolare filosofia di gioco era radicata in quella Mitteleruopa che già aveva prodotto il Wunderteam austriaco degli anni Trenta. Ma senza dubbio la fallita rivoluzione del 1956 segna uno spartiacque nella storia, sportiva e sociale, del paese.

La nazionale che si presenta ai Mondiali del 1958 è solo una pallida imitazione di quella di quattro anni prima. A partire dalla panchina: dopo due clamorose sconfitte contro Turchia e Belgio, Sebes è stato licenziato e sostituito dal tecnico del Vasas Lajos Baróti. La rosa è priva dei suoi migliori giocatori, espatriati all’Ovest, e gli unici grandi nomi sono il portiere Gyula Grosics e l’attaccante ormai trentaseienne Nándor Hidegkuti, convinto a giocare nonostante sia ormai prossimo al ritiro. Sconfitti nello spareggio col Galles, i magiari lasciano il torneo al primo turno, certificando la fine di un’epoca.

Baróti assieme al dirigente federale olandese Lo Brunt e all’allenatore dei Paesi Bassi, il romeno Elek Schwartz, dopo una partita tra le nazionali nell’aprile 1961.

In realtà, però, Baróti ha iniziato un rinnovamento della rosa che sta già imponendo all’attenzione generale il ventitreenne centravanti Lajos Tichy, che ha raccolto l’eredità di Kocsis. Nel 1960, l’Ungheria conquista un’inattesa medaglia di bronzo alle Olimpiadi dopo aver rifilato un pesantissimo 7-0 alla Francia, e aver battuto l’Italia padrona di casa nello spareggio per il terzo posto. Tra i protagonisti di quel successo ci sono Kálmán Mészöly in difesa, János Göröcs a centrocampo, e soprattutto Flórián Albert in attacco, che a diciannove anni si afferma come l’astro nascente del calcio est-europeo.

Ripetere i successi dell’Aranycsapat è ovviamente pura utopia; riuscire a confermare l’Ungheria tra le squadre migliori al mondo è invece un obiettivo più realistico. Per tutti gli anni Sessanta, il calcio magiaro vive un periodo senza dubbio positivo che prende lo slancio da quel bronzo olimpico e, nel 1962, riporta la Nazionale a superare il primo turno dei Mondiali, chiudendo ai quarti con una squadra costruita sulla coppia offensiva Tichy-Albert, con quest’ultimo che diviene anche capocannoniere del torneo. Due anni più tardi, Baróti integra in rosa gli attaccanti Ferenc Bene e János Farkas, oltre al giovanissimo fenomeno Zoltán Varga, e chiuse al terzo posto gli Europei in Spagna. In ottobre, Bene e Farkas trascinano poi la selezione olimpica – ora allenata dall’ex-tecnico del Tatabánya Károly Lakat, che aveva assistito Baróti nel 1958 – alla sua seconda medaglia d’oro.

È senza dubbio un Rinascimento. L’Ungheria forse non ha la forza travolgente della squadra di Sebes, ma conferma di avere grandi mezzi tecnici e dei giovani di sicuro valore. Ai Mondiali del 1966, giunge ancora ai quarti di finale, dopo aver eliminato i bicampioni in carica del Brasile con un netto 3-1, firmato da Bene, Farkas e Mészöly. Due anni più tardi, i ragazzi di Lakat conquistano un altro oro olimpico, e sfornano due nuovi talenti: Antal Dunai, miglior realizzatore della competizione, e il suo brillante partner offensivo László Fazekas, entrambi in forza all’Újpest. Il futuro è più che roseo, e sognare è lecito.

Ma la new wave del calcio magiaro riguarda anche i club, che per la prima volta riescono ad affacciarsi ai vertici del calcio europeo. Nel 1962, l’Újpest ha raggiunto la semifinale di Coppa delle Coppe, perdendola contro la Fiorentina (allenata, ironia della sorte, da Hidegkuti): accanto a giocatori della Nazionale di Baróti, come Göröcs e Solymosi, c’è anche un giovanissimo Ferenc Bene. Nel 1964, il MTK Budapest contende allo Sporting Lisbona la finale del torneo, grazie alle reti di Károly Sándor e alla sapiente guida tecnica di Béla Volentik, che come allenatore era maturato in Svizzera e nel 1962 aveva assistito Baróti nella selezione olimpica. Quindi, un anno più tardi, lo Győri ETO, vincitore a sorpresa del campionato ungherese, si guadagna la semifinale di Coppa dei Campioni contro il grande Benfica di Eusébio: artefice di quell’impresa, compiuta senza nemmeno un giocatore nel giro della Nazionale, è l’uomo che siede in panchina, quel Nándor Hidegkuti a cui la storia del calcio magiaro deve, se non tutto, moltissimo.

Estremamente veloce, ma anche dotato di tecnica sopraffina e di gran visione di gioco, Flórián Albert è un incrocio tra i grandi attaccanti della Squadra d’Oro ungherese del 1954. Tra il 1960 e il 1967 vince praticamente tutti i titoli individuali disponibili per un attaccante.

Ma la vera squadra che simboleggia questo periodo è il Ferencváros, che è per il calcio ungherese post-1956 ciò che la Honvéd fu per l’epoca dell’Aranycsapat. Nel 1961, sulla panchina del club verde di Budapest si è seduto József Mészáros che, reduce da due pionieristiche esperienze in Turchia e Iran, ha raccolto una squadra che non vinceva un titolo dal 1949 e, in due anni, l’ha ricondotta alla gloria nazionale e successivamente a una semifinale di Coppa delle Fiere. In rosa può ora vantare diversi giocatori della Nazionale (Dezső Novák, Sándor Mátrai, Gyula Rákosi, Máté Fenyvesi), ma soprattutto i due principali talenti del calcio magiaro, Zoltán Varga e Flórián Albert, che in quel momento è indubbiamente tra i più forti attaccanti al mondo.

Nell’edizione 1964-65 della Coppa delle Fiere, elimina in serie la Roma di De Sisti, Schnellinger e Angelillo; l’Athletic Bilbao di Iribar e Antón Arieta; il Manchester United di Bobby Charlton, Best e Law; e infine sconfigge la Juventus in finale a Torino, con rete di Fenyvesi. È il primo importante titolo internazionale vinto da un club ungherese e porta il Ferencváros, che nello stesso anno vince anche il campionato, ad aprire un ciclo: la stagione dopo arriva ai quarti di finale di Coppa dei Campioni, poi nel 1968 rivince il titolo nazionale e conquista un’altra finale di Coppa delle Fiere, stavolta persa contro il Leeds. In panchina, Mészáros ha lasciato il posto a Lakat, l’allenatore della Nazionale olimpica, e in campo si sta facendo largo l’elegante difensore László Bálint, che di qui a poco si guadagnerà il soprannome di Báró, il Barone, per la classe e l’autorevolezza che lo contraddistinguono. In attacco, ovviamente, giganteggia ancora Albert, fresco vincitore del Pallone d’Oro, premio che nemmeno il grande Ferenc Puskás era riuscito a conquistare.

Il 1968 è l’apice del calcio magiaro: da qui si scollina e, gradualmente, inizia la discesa. Durante le Olimpiadi messicane, otto atleti ungheresi ne approfittano per chiedere asilo politico in Occidente; Varga, che ha solo 23 anni ed è il miglior prospetto del calcio magiaro, è tra di loro. Si accasa inizialmente allo Standard Liegi, ma da qui inizia a girare l’Europa e offrire lampi di classe prima con l’Hertha Berlino, poi all’Aberdeen, all’Ajax (dove conquista la Supercoppa europea nel 1973), al Borussia Dortmund e, infine, all’Augbsurg e al Gent. Con Varga, l’Ungheria perde uno dei suoi più grandi e giovani talenti e, simbolicamente parlando, il proprio futuro.

Ad attutire il colpo ci pensa, un’altra volta, Lajos Baróti. L’ex-tecnico della Nazionale ha trovato un ingaggio all’Újpest, che in poco tempo ha riassemblato dondogli un gioco fluido e offensivo, costruito su un quintetto d’oro composto da László Fazekas e l’esperto János Göröcs come mezzali, Antal Dunai come falso 9 (sullo stile di Hidegkuti nell’Aranycsapat), e di punta Ferenc Bene e Sándor Zámbó. L’Újpest conquista così il predominio del calcio ungherese, e nel 1969 perde la finale di Coppa delle Fiere contro il Newcastle. Nel 1971, anche Baróti però lascia l’Ungheria, andando ad allenare la nazionale peruviana, e al suo posto viene assunto Imre Kovács, sotto la cui guida il club bianco-viola raggiunge i quarti di finale della Coppa dei Campioni, con un Dunai incontenibile, che risulta capocannoniere della competizione. Due stagioni più tardi, l’Újpest arriva a giocarsi addirittura una semifinale contro il Bayern Monaco, ma la squadra è ormai a fine ciclo e, con Dunai assente per infortunio, viene facilmente eliminata.

Nonostante due ottimi terzi posti in Bundesliga, Varga dovette lasciare l’Hertha Berlino dopo essere stato coinvolto in un vasto scandalo di partite truccate. Rientrò in Germania nel 1974, conducendo il Borussia Dortmund al ritorno in prima divisione.

Intanto, sull’altra sponda della Budapest che conta, le Aquile Verdi del Ferencváros mettono in scena in loro ultimo acuto. Già tre anni fa avevano ceduto in semifinale di Coppa UEFA davanti al Wolverhampton, ma adesso in panchina siede Jenő Dalnoki (uno che, da giocatore, aveva fatto parte dell’Aranycsapat, benché nelle retrovie) e in campo, oltre ai veterani István Géczi e István Juhász, brillano l’ormai affermato Bálint e il ventenne regista Tibor Nyilasi. Il Ferencváros arriva alla finale di Coppa delle Coppe dopo aver eliminato Liverpool, Malmö e Stella Rossa, ma nell’ultima partita si trova di fronte la fortissima Dinamo Kiev di Oleh Blochin, allenata da Valerij Lobanovskij, e si deve arrendere.

È solo ora che il tramonto danubiano è evidente. La Nazionale, sotto la guida di Rudolf Illovszky, ha sì chiuso al terzo posto gli Europei del 1972 e, nello stesso anno, vinto l’argento olimpico, ma manca la qualificazione ai Mondiali dal 1966. Albert, falcidiato dagli infortuni, si è appena ritirato, e la stella di Dunai è in fase calante. Proprio le 1975, la Federcalcio prova a rivitalizzare l’ambiente richiamando Baróti, che grazie all’apporto di nomi nuovi come András Törõcsik dell’Újpest, Sándor Pintér della Honvéd e Béla Váradi del Vasas riesce a compiere un altro miracolo e a staccare il pass per i Mondiali argentini, dove però i magiari non supereranno il primo turno. La stessa storia che si ripeterà per le successive due edizioni del torneo.

La cortina di ferro ancora non è caduta, che i gioielli danubiani iniziano a lasciare Budapest, stavolta senza bisogno di fughe rocambolesche. Bálint è il primo: nell’estate del 1979 passa dal Ferencváros al Club Brugge, per poi trasferirsi nel campionato francese e giocare con Toulouse e Grenoble. Baróti va ad allenare il Wacker Innsbruck, ma presto passa al Benfica, con cui nel 1981 vince un campionato e una Coppa di Portogallo, e raggiunge la semifinale di Coppa delle Coppe. Fazekas si accorda con l’Anversa nel 1980, e due anni dopo viene raggiunto da Pintér; Váradi va al Tours e Nyilasi all’Austria Vienna. Infine, nel 1985, Törõcsik si accasa al Montpellier.

La finale di Coppa UEFA raggiunta a maggio dal semisconosciuto Videoton pare quasi un miraggio. Quasi fosse un segno del destino, l’allenatore dell’ultima grande squadra magiara è Ferenc Kovács, che giocava in quella prima storica finale europea raggiunta nel 1964 dal MTK Budapest, e che poi è stato vice di Baróti durante i Mondiali del 1978. Davanti gioca un centravanti agile e scattante appena maggiorenne, József Szabó, che a qualcuno ricorda Albert: con 8 reti è il capocannoniere della coppa, anche se poi sarà il Real Madrid a sollevare il trofeo. Ma è un colpo a salve: non ci sarà nessuna rinascita. Un anno dopo, Szabó tenta l’avventura in Grecia, all’Iraklis, non gioca quasi mai, torna indietro, scompare; Kovács va in Spagna, firma col Las Palmas, fallisce, torna indietro a sua volta.

I capitani Tibor Végh e Santillana si scambiano i gagliardetti prima di Videoton – Real Madrid. Gli spagnoli si impongono per 3-0 in Ungheria, per poi venire sconfitti nel ritorno al Bernabéu per 1-0.

La notte, alla fine di questo lungo tramonto, arriva nel 1987, quando il trequartista della Honvéd Lajos Détári (una scoperta di Lajos Tichy) firma per l’Eintracht Francoforte. In un calcio sempre più globalizzato e in epoca di Perestrojka, i tifosi ungheresi sanno di doversi rassegnare a non vedere più i loro club competere ad alto livello, e che ora il successo del calcio magiaro passa dall’affermazione dei suoi giocatori nei campionati stranieri. Ma Détári è un giocatore talentuoso quanto complicato: un po’ è il carattere, un po’ le ginocchia fragili, e un po’ la sfortuna. Gira tra Germania, Grecia, Italia e Svizzera tra troppi alti e bassi, e alla fine resterà per sempre un meraviglioso eterno incompiuto. In un’altra epoca, forse, in un contesto diverso, sarebbe potuto essere il degno erede di Ferenc Puskás.

Dopo Détári, non ci sono più motivi per parlare dell’Ungheria in ambito calcistico. La caduta del Muro porta con sé la crisi del calcio dell’Est, ma è una strada su cui i magiari sono già ben avviati. Ogni tanto, qualche talento spunterà ancora (Pál Dárdai, Gábor Király, Zoltán Gera), ma nessuno in grado di risollevare le sorti di un calcio che, ormai, è relegato ai margini dell’Europa, dopo essere stato a lungo tra i più affascinanti al mondo.

Fonti

MAIN Damon, Zoltán Varga – A hero in exile, In Bed With Maradona

PICCOLINO BONIFORTI Gio, L’eleganza magiara: Flórián Albert, il fuoriclasse barocco, Zona Cesarini

REYNOLDS David, Sweeter than dreaming: Hungary’s unforgettable 1966 World Cup campaign, These Football Times

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