Capire la Brexit attraverso il calcio

“Non vedo l’ora di uscirne, se devo essere sincero. Penso che staremo meglio fuori da questa dannata cosa. E al diavolo il resto del mondo!” – Neil Warnock

La notte tra il 23 e il 24 giugno 2016 segna uno spartiacque nella storia dell’Europa: il Regno Unito vota, a sorpresa, per abbandonare l’Unione. Potremmo impiegare righe su righe per spiegare il significato recondito di quel voto e come si è sviluppato, di chi sono le responsabilità maggiori e quanto gli elettori fossero consapevoli di ciò su cui stavano decidendo, ma non è questo il posto giusto per simili discorsi. Qua si parla di calcio, e il calcio qualcosa a che fare con la Brexit ce l’ha, e può essere un ottimo modo per capire.

Anche perché non pochi ex-calciatori britannici si sono schierati in favore della campagna lanciata dallo UKIP di Nigel Farage: Neil Warnock, con le cui parole si apre questo articolo, è uno dei grandi allenatori di provincia del calcio inglese, oggi alla guida del Middlesbrough. Peter Shilton è ancora più famoso, è stato il portiere dell’Inghilterra per vent’anni e uno dei leader del grande Nottingham Forest di fine anni Settanta; quando qualcuno inizia a dire che i britannici sono disinformati e che stanno perdendo fiducia nel lungo processo della Brexit, risponde sicuro: “La gente sa per cosa ha votato, sa che ciò che vuole è essere indipendenti dall’Europa, e sa che non è una cosa che accadrà da un giorno all’altro”. Farage ne ha fatto uno dei principali sponsor delle sue campagne.

Del gruppo fanno parte anche Chris Waddle, Sol Campbell, David James e John Barnes. Ma com’è possibile? Poco più di vent’anni prima del referendum, l’Inghilterra inaugurava la Premier League, il campionato super-ricco che puntava ai migliori calciatori del mondo, il più grande esempio di globalizzazione applicata al calcio, e ora si ritrova a voler chiudere le barriere, alzare i ponti e isolarsi dal resto del mondo? Ora che la Brexit sembra veramente a un passo, sappiamo delle difficoltà che i club inglesi stanno incontrando nella gestione dei propri giocatori, con la FA che spinge per ridurre il numero di stranieri tesserabili e gli ostacoli nel riconoscere i permessi di lavoro ai non-britannici, mentre il forte rischio di svalutazione della sterlina rispetto all’euro mette in crisi la supremazia economica del calcio inglese.

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Peter Shilton intervistato da Nigel Farage (di spalle) in uno show radiofonico su LBC, nel febbraio 2019.

“La Premier League è una grande risorsa per il paese, ma potrebbe essere anche meglio. Per operare dei cambiamenti, però, dobbiamo riprendere il controllo del gioco che amiamo: per questo supporto la campagna del Leave.” sostiene Campbell. Sono in tanti a pensarla così: il protezionismo permetterà al Regno Unito di tornare “padrone a casa sua” (una retorica che piace ai sovranisti, di qualunque paese essi siano) e investire maggiormente nei suoi prodotti. E quindi, con meno stranieri tra i piedi, lanciare più giocatori e allenatori locali, come pensa James. Questo è precisamente la propaganda di Farage declinata nel sottomondo calcistico.

La nascita della Premier League è stata la momentanea vittoria di una tendenza opposta, e aveva in sè i semi dell’attuale crisi xenofoba. Il campionato inglese è stato per anni dominato dai calciatori britannici (a lungo quasi esclusivamente bianchi: il primo nero in nazionale, Viv Anderson, ha esordito solo nel 1978, e in generale la storia dei calciatori neri nel massimo campionato è stata molto travagliata), e gli stranieri sono rimasti un’esigua minoranza fino alla rivoluzione del 1992, quando la loro quota ha iniziato a crescere vertiginosamente. L’Arsenal di Arsène Wenger ha incarnato lo spirito della nuova Premier League più di qualsiasi altro club, aprendo la strada non solo a giocatori e tecnici stranieri, ma per estensione anche ai proprietari stranieri, che oggi rappresentano la maggioranza.

L’improvvisa globalizzazione di un campionato tradizionalmente chiuso verso gli stranieri ha creato sentimenti contrastanti, che variavano a seconda dei risultati. Finché le cose sono andate bene, a livello economico e sportivo, nulla da dire; ma agli occhi dello scettico gli argomenti non mancavano: negli anni Settanta e Ottanta, i club britannici dominavano in Europa, ma dopo l’istituzione della Premier League le loro vittorie sono divenute meno continue; la nazionale, che nel 1990 arrivava quarta ai Mondiali italiani – miglior risultato dal trionfo del 1966 – viveva un nuovo periodo di delusioni. La crisi economica post-2008 è stata l’innesco di una rivoluzione culturale di destra, che ha ribaltato il mito della globalizzazione trasformandolo in un incubo, e proponendo l’isolazionismo come unica soluzione. È successo nel calcio, ed è successo nel resto della società. “Quello che dovremmo fare adesso – diceva Nigel Farage nel marzo 2019 – sarebbe lasciare l’Unione senza un accordo e tornare a essere una nazione indipendente.”

La Brexit è stata essenzialmente questo: il rifiuto di un concetto di globalizzazione economica ed etnica, che sembrerebbe aver causato più danni che benefici. Il fatto che la Premier League sia ancora il campionato più ricco e competitivo al mondo, quello più seguito e spettacolare, passa in secondo piano così come passa in secondo piano che il Regno Unito sia ancora una delle prime nazioni al mondo per PIL a parità di potere d’acquisto. La propaganda sovranista vive di eventi simbolici, più o meno percepiti: nel 2009, mentre la crisi iniziava a farsi sentire, la Premier League perdeva Cristiano Ronaldo, il Pallone d’Oro in carica, in favore della Liga spagnola, e da allora il trofeo al miglior calciatore al mondo è sempre stato assegnato a un giocatore del campionato iberico. Ai tifosi importa poco dei soldi che girano nel sistema calcio, ma dei titoli, e così mentre la Premier restava ricca, i club inglesi vincevano sempre meno: nel decennio successivo alla crisi, solo il Chelsea è riuscito a vincere la Champions League.

Si è spesso detto che la Brexit ha ottenuto i suoi maggiori successi nelle zone industriali dell’Inghilterra, quelle più duramente colpite dalla crisi economica. Casualmente, quelle stesse zone sono state colpite, negli anni immediatamente precedenti al referendum, anche da una crisi del calcio locale. Chi ha visto la serie Sunderland ‘til I die avrà notato che in un episodio c’è una manifestazione pro-Brexit: il Leave, in città, ha vinto con il 61,3%. Un tempo squadra abbastanza gloriosa, seppur mai di prima fascia (vinse una FA Cup nel 1973), il Sunderland AFC era tornato in Premier League nel 2007 con molte ambizioni, dovute principalmente all’arrivo ai vertici della società del miliardario statunitense Ellis Short. Il sogno di un club vincente grazie ai soldi del proprietario straniero, però, non si realizzò mai e, nonostante una lunga militanza nel massimo campionato, il Sunderland restò sempre nella bassa classifica e dal 2013 si ritrovò di fatto a lottare per non retrocedere. Un anno dopo il voto sulla Brexit, il club cadde in Championship, per poi subire un’altra immediata retrocessione in Football League One.

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Ellis Short è solo dei nuovi proprietari stranieri che hanno rilevato club inglesi senza riuscire a portarli al successo: altri esempi sono Massimo Cellino al Leeds, Carson Yeung al Birmingham, Tony Xia all’Aston Villa, Dejphon Chansiri allo Sheffield Wednesday e Abdullah bin Mosa’ad bin Abdulaziz Al Sa’ud allo Sheffield United.

Nell’estate del 2016, la mappa dei club inglesi in declino è quasi perfettamente sovrapponibile ai luoghi in cui la Brexit ottiene i suoi migliori successi. Il Norwich City FC retrocede in Championship nel 2016, stessa categoria in cui gioca ormai da anni il decaduto Ipswich Town; entrambi i club provengono dall’East of England, dove il Leave si è affermato con il 56,5%, con addirittura un picco a Ipswich del 58,3%. Nello Yorkshire & The Humber – la regione di Sheffield, una delle patrie gloriose del calcio, e di Leeds, la cui squadra era un tempo tra le più forti del paese – la percentuale è il 57,7%. Nelle East Midlands, il 58,8%: da qui provengono il Nottingham Forest, che a fine anni Settanta era la squadra più forte d’Europa e oggi manca dalla prima divisione dal 1999; il Notts County, nel 2015 retrocesso in Football League Two; e il Derby County, campione nazionale nel 1975 e oggi bloccato in Championship. Nelle vicine West Midlands, invece, la Brexit si è imposta con il suo massimo risultato, il 59,2%, proprio mentre l’Aston Villa abbandonava la Premier League dopo ventotto stagioni di militanza, il Birmingham City stazionava a metà classifica in Championship, e il Wolverhampton chiudeva al 14° posto la seconda divisione dopo che pochi anni prima aveva subito un tracollo vertiginoso fino alla Football League One.

Sappiamo anche anche nelle grandi città ha prevalso il Remain, mentre il Leave si è fermato al 40%. Non in tutte, però: a Newcastle upon Tyne è arrivato a un clamoroso 49,3%. Il club locale, il Newcastle United, nel 2007 sollevava la Coppa Intertoto e nel 2012 arrivava quinto in Premier League, per poi crollare e finire retrocesso poche settimane prima del voto. A Leeds – dove il mitico United nel 2001 giocava la semifinale di Champions, per poi finire sull’orlo della bancarotta e precipitare nelle serie minori – il Leave ha ottenuto il 49,7%. A Birmingham il 50,4%. A Sheffield, città natale di Neil Warnock, il 51%. Per contro, una delle città minori in cui la Brexit non ha vinto è stata Leicester, in cui appena prima del voto la squadra locale conquistava uno dei campionati più incredibili della storia inglese.

Il calcio, da sempre valvola di sfogo per le classi lavoratrici, è divenuto motivo di rabbia e frustrazione proprio in quei contesti che maggiormente stavano risentendo della crisi economica. Improvvisamente, molte persone si sono ritrovate senza lavoro e non hanno trovato alcuna soddisfazione nel tifo sportivo. Ciò le ha rese facile preda della propaganda della destra – in assenza di un’adeguata narrazione in favore della sinistra e dei liberali – anche per via delle facili simmetrie tra il mondo calcistico e quello extra-calcistico: presenza esagerata di giocatori e allenatori stranieri, cioè non interessati alla maglia quando “uno di qui”; mancanza di denaro con cui costruire una squadra migliore; club divenuti di proprietà di imprenditori stranieri, incapaci di comprendere lo spirito della società e dei suoi tifosi, interessati solo al business, che vivono lontani dalla città e non frequentano lo stadio. Da qui, diventa facile pensare a un Regno Unito in crisi a causa dei troppi lavoratori stranieri e delle assurde leggi dei burocrati europei, le cui aziende sono deboli e vengono cedute a ricchi magnati asiatici slegati dal tessuto sociale cittadino.

“Il campionato è il problema, perché se non avessimo questa gran quantità di stranieri che vengono qua a portare via spazio nelle nostre squadre principali, sono certo che la nazionale farebbe meglio” disse Boris Johnson, Segretario di stato per gli affari esteri, pochi giorni dopo il referendum. Il 27 giugno, appena quattro giorni dopo la Brexit, la nazionale inglese era stata inaspettatamente eliminata dagli Europei a opera della modestissima Islanda, che era alla sua prima partecipazione alla fase finale di un torneo internazionale. Il turno erano gli ottavi, e a peggiorare le cose c’era il fatto che l’Inghilterra aveva ottenuto lo stesso risultato delle rivali Irlanda e Irlanda del Nord, sulla carta infinitamente più deboli, e aveva addirittura fatto peggio del Galles, che avrebbe chiuso il torneo in semifinale. Johnson, che era stato uno dei nomi di punta el Leave in seno al Partito Conservatore, avrebbe pian piano eroso la popolarità di Farage diventando il nuovo alfiere della Brexit, fino a divenire Primo Ministro nel luglio 2019.

A oggi, la Brexit ancora non è stata formalizzata. Eppure, qualcuno si è magari accorto che il calcio inglese è tornato a rivestire un ruolo di primo piano nel calcio mondiale, senza bisogno di rivoluzioni: nel 2018 la Nazionale allenata da Gareth Southgate e trascinata dalle reti di Harry Kane è arrivata quarta ai Mondiali, esprimendo anche un ottimo calcio; nel 2019, i club inglesi hanno vinto entrambe le competizioni europee, piazzando per giunta quattro squadre su quattro nelle due rispettive finali. Tutto questo non sembra aver avuto grande impatto a livello politico, però, visto che a novembre Johnson ha vinto le elezioni migliorando il risultato ottenuto da Theresa May due anni prima. Perché alla fine il calcio può spiegare un po’ di cose, ma non tutto.

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