È il 1999: già solo palleggiare in quello stadio, con quella maglia bianca indosso, è un successo storico. Siamo a Bury, Inghilterra e terza serie del calcio locale, in una squadra dal lontanissimo passato glorioso ma appena retrocessa. Baichung Bhutia è uno dei nuovi arrivati, ha 23 anni e fa l’attaccante: viene da una serie di ottime stagioni, condite da valanghe di gol e premi, che lo hanno imposto come il più forte giocatore del suo paese. È indiano, anche se in realtà è un tibetano buddista del Sikkim. Non è realmente il primo indiano a giocare in Europa – Mohammed Salim scese in campo due volte con la maglia del Celtic, nel 1936: altri tempi, altro calcio, di cui ormai nessuno si ricorda più – ma il suo è sicuramente un colpo che fa scalpore. Bury non è Londra, ma Bhutia gioca ad appena 16 km da Old Trafford: una distanza sufficiente per respirare l’aria dei sogni.
La storia del calcio indiano è quella che è. Baichung Bhutia è il calciatore più forte della storia di un paese in cui il calcio non ha storia. E non ce l’ha per una beffa, che ogni tanto ancora qualcuno ricorda in maniera distorta, romantica e, come tutte le romanticherie, non proprio aderente alla realtà. Bisogna tornare indietro fino al 1950; anzi, a prima ancora.
È il 1947: il mondo scopre la nuova modernità del dopoguerra. Il Regno Unito concede, dopo decenni di proteste, l’indipendenza all’India, avviando la decolonizzazione. La nuova nazione nasce sotto il segno dell’odio e del conflitto, con la separazione politica in due distinte entità – una induista e una musulmana – che darà vita a problemi geopolitici che ancora oggi che ancora oggi affliggono la regione. Mohāndās Gāndhī, che già da quasi vent’anni è riuscito a imporsi come leader nazionalista moderato, viene assassinato da un fanatico induista nel gennaio del 1948. Pochi mesi dopo, la squadra di calcio dell’India si trova a Londra a disputare le Olimpiadi: gioca contro la ben più quotata Francia – che schiera Raymond Krug dello Strasburgo, Jean Palluch dello Stade Reims e André Strappe del Lille – e ne esce con una disgnitosa sconfitta per 2-1.
Non male, per una squadra che era scesa in campo a giocare senza scarpe, incurante di pestoni e irregolarità del terreno. La stampa britannica va in visibilio per questa storia degli indiani che giocano a piedi nudi, i giornalisti fiutano una bella storia di colore e il capitano Talimeren Ao – difensore trentenne con laurea in fisica – li ingolosisce con una frase che sembra fatta apposta per diventare un titolo: “Vedete, noi in India giochiamo a football; voialtri giocate a bootball“. L’India di Londra 1948 è una Cenerentola ante-litteram del calcio mondiale.

Ma non è solo una favoletta per il pubblico generalista occidentale: la nazionale indiana, sospinta dalla consapevolezza di essere la prima nazione post-coloniale a prendere parte a una grande manifestazione sportiva, annovera alcuni ottimi giocatori, per gli standard asiatici dell’epoca. Il capitano Ao è un difensore molto solido e apprezzato, e accanto a lui si destreggiano due dei migliori calciatori della storia locale, lo spettacolare attaccante Sheoo Mewalal e Sailen Manna, che con Ao forma una coppia difensiva attorno alla quale si regge l’intera squadra.
Già dopo l’eliminazione dal torneo olimpico, l’India ha continuato a far parlare di sè, affrontando una piccola tournée europea nella quale ha sconfitto sorprendentemente l’Ajax per 5-1. I presupposti per tentare l’impresa di qualificazione ai Mondiali brasiliani di due anni dopo ci sono tutti: prima degli indiani, solo un’altra squadra asiatica ha preso parte alla rassegna iridata, le Indie Orientali Olandesi nel 1938, approdate in Francia senza scendere in campo una sola volta, grazie a una serie di clamorose defezioni.
La storia si ripropone in maniera molto simile: inserita in un girone con Birmania, Filippine e Indonesia (erede politica delle Indie Orientali Olandesi del 1938), l’India riesce a staccare il pass per il Brasile senza disputare nemmeno una partita, a causa del ritiro di tutte le avversarie, economicamente impossibilitate a sostenere le trasferte. Tutto il Mondiale del 1950 – il primo dopo la guerra – è segnato dai ritiri: la Scozia fa marcia indietro per motivi d’onore, non accettando di essere arrivata seconda (dietro l’Inghilterra) nel girone di qualificazione; l’Austria rinuncia a sua volta per motivi economici, regalando la qualificazione alla Turchia, che a sua volta non se la sente di sostenere il viaggio fino in Brasile; il Portogallo viene invitato allora in sua vece, ma anch’esso dice di no. Ne seguono altri: Belgio, Argentina, Ecuador e Perù. Infine, beffardo, giunge anche il forfait dell’India.
La FIFA aveva inserito nel regolamento che gli scarpini ai piedi erano un requisito fondamentale per potere disputare il torneo e, al sentire questo, gli indiani si rifiutarono di partecipare, come forma di protesta. La storia perfetta: in un calcio (e in un mondo) che andava facendosi sempre più moderno, freddo e pragmatico, il rifiuto della gloria mondiale da parte dei calciatori indiani per non venir meno alle proprie tradizioni è quasi commovente. Quel ‘no’ incarna l’orgoglio di un paese che, dopo la conquista dell’indipendenza dall’ormai ex-Impero Britannico, non ha alcuna intenzione di sottomettersi alle regole degli europei.

Sotto il velo della leggenda si nasconde un storia che non è poi così romantica, però. Innanzitutto, l’India è un paese dalla cultura sportiva ancora fortemente britannica, e l’Inghilterra fino proprio al 1950 ai Mondiali non ha mai voluto partecipare, ritenendoli un torneo minore e preferendo di gran lunga quello olimpico. Tra gli indiani, l’idea di concorrere alla Coppa Rimet non appare poi così allettante, soprattutto se confrontata con i costi economici di un estenuante viaggio in nave fino al Brasile. Poi, c’è una questione tecnica: l’India è stata sorteggiata in un girone di ferro, con il Paraguay reduce da due secondi posti nel Campeonato Sudamericano, l’Italia campione del mondo nelle ultime due edizioni, e la Svezia detentrice dell’oro olimpico.
Non è neppure del tutto vero che gli indiani giochino a piedi nudi, a ben vedere. A Londra 1948, solo otto giocatori su undici erano senza scarpe, e nel campionato locale esistono squadre che forniscono regolarmente scarpini ai calciatori, come l’Hydebarad, che è il club della polizia cittadina. La “tradizione” dei piedi nudi sembra essere piuttosto una necessità, dovuta ai problemi economici dei calciatori, che non sono professionisti e anzi si mantengono facendo altro – come Sailen Manna, che lavora per il Geographical Survey of India – e al calcio dedicano giusto ritagli di tempo.
La polemica contro le regole della FIFA, allora, altro non è che una scusa: l’India è un paese giovane, che sta cercando di costruirsi un’indipendenza de facto, non solo politica, e che non vede alcun vantaggio nello spendere tanti soldi per mandare la propria squadra di calcio a farsi umiliare in Brasile, in un torneo di secondo piano. Ma la scusa adottata è anche una testimonianza dello spirito di un paese fiero e interessato a che immagine di sè dare al mondo: l’India non si sente subalterna a nessuno, e per rinunciare al Mondiale sceglie di far circolare una storia di orgoglio – cioè di forza – e non di debolezza.

Si pensa che sia stato il “no” del 1950 a segnare lo stop allo sviluppo del calcio in India, ma anche questa è una leggenda che non ha riscontri storici. Il rifiuto di partecipare al Mondiale brasiliano è un evento che, nella storia sportiva indiana, ha valore meramente statistico: da lì in avanti, infatti, la nazionale vivrà il suo periodo migliore. Nel 1951 vincerà la medaglia d’oro nei Giochi asiatici; nel 1952 farà ritorno alle Olimpiadi, pur subendo una pesante sconfitta contro la Jugoslavia di Branko Zebec (10-1, con poker del fuoriclasse del Partizan). Ma quattro anni dopo, otterrà la sua prima vittoria, regolando per 4-2 i padroni di casa dell’Australia e chiudendo appena alle spalle del podio. Nel 1960, gli indiani disputeranno il torneo olimpico di Roma, perdendo 2-1 contro l’Ungheria (poi medaglia di bronzo) e 3-1 contro il Perù, ma bloccando la Francia sull’1-1. Nel 1962 vinceranno ancora i Giochi asiatici, e due anni dopo arriveranno secondi dietro Israele nella prima edizione della Coppa d’Asia.
Gli anni d’oro del calcio indiano vanno di pari passo con quelli che affermano la nazione come una delle grandi potenze del continente: uno stato esteso, capace di affrontare grosse riforme socio-economiche, fortemente nazionalista ed espansionista. E sono queste pulsioni, in parte, a segnare il declino del football: l’India costruisce la propria identità nazionale anche sullo sport, favorendo il cricket (globalmente poco praticato) rispetto al calcio. Il suo bisogno di auto-affermazione passa da tre guerre contro il Pakistan, per il controllo delle regioni del Kashmir e del Bangladesh, dallo sviluppo della bomba atomica e, nel 1975, dalla conquista del Sikkim.
Un anno dopo, nasce Baichung Bhutia. Giocherà al Bury per tre stagioni, senza mai ottenere quelli che noi europei definiremmo grandi risultati; ma le sue (tre) reti con il club britannico lo renderanno il primo calciatore indiano a segnare in un campionato professionistico europeo. Forse questa storia avrebbe potuto essere diversa, ma forse va bene anche così.
Fonti
BRUNI Daniele, A piedi nudi sul prato: la parabola dell’India ai Mondiali del ’50, Zona Cesarini
KAPADIA Novy, The 1950 World Cup: a missed opportunity for India, Sportskeeda
1 commento su “India 1950: un’occasione mancata”