Il gol di Fran mise il punto a una clamorosa sentenza che da qualche minuto pareva essere stata scritta nel destino: Deportivo 4 – Milan 0. I Rossoneri erano i detentori della Champion League, vinta l’anno prima nella storica finale tutta italiana di Manchester, e venivano dati per favoriti anche quell’anno, specialmente dopo aver regolato il Deportivo 4-1 nel match di San Siro. Ma alla Coruña il calcio aveva previsto un’epilogo ben diverso.
Eppure il Deportivo non era una sorpresa, anche se quella conquistata nella sfida col Milan era la prima semifinale internazionale mai raggiunta dai galiziani: nel turno precedente, avevano eliminato con un doppio 1-0 i vice-campioni della Juventus, ed era ormai da qualche anno che bazzicavano l’Europa e le alte posizioni della Liga spagnola. Ma fu in quel momento raggiunsero la loro massima notorietà fuori dai confini nazionali, che si sarebbe anche rivelato l’ultimo acuto di una squadra che, per più di un decennio, aveva scombianto i piani del calcio spagnolo.
Se la rimonta del Riazor del 2004 segna l’epilogo di una storia vincente, il suo perno risale a quattro anni prima, quando il Deportivo vinse il suo primo e unico campionato, interrompendo la dittatura di Madrid e Barcellona che durava da quindici stagioni. L’artefice del miracolo era un uomo con la faccia da professore, Javier Iruretagoyena, il cui cognome era comunemente abbreviato in Irureta: era stato un’attaccante dell’epoca d’oro dell’Atlético Madrid, quello che vinse l’Intercontinentale del 1974, e come alleanatore aveva girato prima i Paesi Baschi e poi la Galizia. Arrivato a La Coruña nel 1998, aveva costruito qui la sua eredità calcistica più solida.

Ma le origini del Super Dépor risalgono fino al 1988, quando fu eletto presidente del club il giovane Augusto César Lendoiro, un esponente del Partido Pupular da tempo attivo nei quadri dirigenziali: all’epoca, il Deportivo militava nai bassifondi della Segunda División e stava vivendo una crisi finanziaria che rischiava di farlo scomparire. Della sua grande storia – quella della squadra che, allenata dall’ex-romanista Alejandro Scopelli mancò di un soffio il titolo nazionale nel 1950, che fu poi allenata da Helenio Herrera e che lanciò Luisito Suárez, l’unico nativo spagnolo a vincere il Pallone d’Oro – era ormai tristemente alle spalle.
Posta alla punta più estrema delle territorio nazionale, La Coruña è una città di mare in cui le pulsioni autonomiste – meno note di quelle catalane o basche – si mescolano con una forte devozione religiosa dovuta alla vicinanza con Santiago de Compostela. In Spagna, il potere calcistico, se non proprio centralizzato, è comunque sempre stato spostato verso Oriente: all’epoca in cui arrivò Lendoiro, i pochi titoli vinti da squadre site a ovest di Madrid erano stati il campionato del 1946, andato al Siviglia, e altre quattro Coppe del Re, vinte tra il 1935 e il 1977 sempre dal Siviglia e una, l’ultima, dal Real Betis.
Il nuovo presidente fu abile nel saper gestire le finanze del club, consolidando la leadership in panchina di Arsenio Iglesias, una leggenda del Dépor sia da giocatore che da allenatore, ma soprattutto creando un clima più sereno in società, così da permettere ai giocatori di rendere al meglio. A partire proprio dalla nuova stella del vivaio galiziano, l’interno sinistro in maglia 10 Fran, che esordì tra i professionisti nel 1988 e divenne uno dei simboli dell’epoca d’oro del Deportivo. Accanto a lui si muovevano giocatori come l’uruguayano Martín Lazarte, l’altro canterano Antonio Doncel, o il centrocampista basco Jon Aspiazu, ai quali dal 1990 si aggiunse l’elegante libero jugoslavo Miroslav Đukić, uno dei più emblematici acqusiti della prima gestione Lendoiro: era un giocatore di 24 anni rimasto fuori dai radar dei grandi club, perfino nel suo paese (giocava nel Rad Belgrado) che pareva solo in attesa di un’occasione per mostrare il proprio valore.
Soprattutto, la nuova società seppe ritagliarsi uno spazio che conta nel mercato brasiliano, chiudendo nel 1992, un anno dopo il ritorno in Primera División, due importanti acquisti: il mediano del Bragantino, un piccolo club paulista, Mauro Silva, e il poliedrico attaccante del Vasco da Gama Bebeto, che in Sudamerica faceva faville ma non aveva ancora convinto nessuna squadra europea a ingaggiarlo. Alla sua prima stagione in Galizia, Bebeto conquistò la classifica cannonieri davanti a Zamorano del Real Madrid e Stoichkov del Barcellona, portando il Deportivo fino al terzo posto; nella stagione seguente, i biancazzurri persero il titolo per la differenza reti, a causa anche di un rigore sbagliato da Đukić nel finale dell’ultima di campionato, in favore del grande Barcellona di Cruijff, che raggiungeva così il suo quarto titolo consecutivo.
Nel giugno del 1995, dopo un altro secondo posto in campionato, il Deportivo scriveva per la prima volta il suo nome nella storia del calcio spagnolo, conquistando una delle Coppe del Re più memorabili di sempre: la sfida contro il Valencia era stata sospesa a una decina di minuti dalla fine a causa di un violento acquazzone, quando il risultato era di pareggio, con Mijatović che aveva recuperato la rete del galiziano Manjarín; il match fu terminato tre giorni dopo, disputando solo i minuti mancanti, ma poco dopo che le squadre erano scese in campo, il centrocampista ex-Atlético Madrid Alfredo, riportava il Deportivo in vantaggio, gelando il Valencia e scongiurando i tempi supplementari. La stagione successiva, con la squadra passata al gallese John Toshak a seguito del ritiro trionfale di Iglesias, il Dépor vinse la Supercoppa spagnola e raggiunse le semifinali di Coppa delle Coppe, venendo sconfitto dai futuri campioni del Paris Saint-Germain, ma con Bebeto capocannoniere del torneo.

Irureta divenne tecnico del Deportivo nell’estate del 1998, dopo che il club aveva vissuto un leggero periodo di flessione: il basco era stato eletto allenatore dell’anno dopo aver portato i rivali regionali del Celta Vigo alla qualificazione alla Coppa UEFA, ed era generalmente considerato uno dei migliori tecnici in Spagna, anche se pure lui era fuori dal giro dei grandi club. Il suo calcio basato sul possesso palla e i passaggi veloci dava grande risalto ai giocatori delle corsie laterali, e per questo richiedeva esterni molto atletici, ma il vero perno del gioco era il trequartista centrale, un regista avanzato che coordinava la variegata manovra offensiva preferendo sempre l’ultimo passaggio alla conclusione personale. A Vigo, in quel ruolo aveva esaltato al massimo le capacità di Aleksandr Mostovoj, l’ultimo Zar dell’ormai decaduto calcio sovietico. Irureta era stato uno dei primi a riproporre il 4-2-3-1 ideato da Juanma Lillo al Cultural Leonesa dei primi anni Novanta, anticipando anche Vicente Del Bosque e tutta una tradizione del moderno calcio iberico.
Nel corso delle stagioni precedenti, la rosa aveva sì perso Bebeto, che a 32 anni aveva fatto ritorno in Brasile, ma guadagnato importanti elementi, dal portiere camerunense Jacques Songo’o ai difensori Noureddine Naybet e Lionel Scaloni, dal mediano Flávio Conceição al brillante ma bizzoso Djalminha, arrivato a sostituire il connazionale Rivaldo, andato a cercare gloria in Catalogna. Con Irureta si erano aggiunte altre pedine fondamentali: il terzino del Las Palmas Manuel Pablo e la punta portoghese del Salamanca Pedro Pauleta. Si trattava di altri due acquisiti in puro stile Dépor, due giocatori di talento ma ignorati dalle squadre di più alto profilo e relegati ai margini del calcio che conta, il primo nelle Canarie e il secondo in un piccolo e sconosciuto club castigliano.
Ma il calciatore che più di tutti avrebbe spostato gli equilibri della squadra, conducendola a suon di gol allo scudetto del 2000, arrivò solo nel 1999, pescato con la solita incredibile lungimiranza dall’appena retrocessa formazione canarina del Tenerife: l’olandese Roy Makaay. La punta originaria di Wijchen si inserì nella scia dei grandi attaccanti esplosi nell’atmosfera di La Coruña, divenendo il finalizzatore principale della macchina offensiva di Irureta e l’assoluto dominatore delle aree di rigore spagnole, in un’epoca in cui la Liga poteva vantare punte di grande spessore come Hasselbaink, Kluivert e Savo Milošević.
Il titolo del 2000 catapultò quello che un tempo era un piccolo club di provincia tra le squadre più forti di Spagna, e per completare la trasformazione da squadra dei bassifondi a parte della nobiltà, Lendoiro decise di rafforzarsi con nuovi acquisti, a partire dagli emergenti Diego Tristán e Walter Pandiani, per sostituire il partente Pauleta (che a Bordeaux si sarebbe affermato come uno dei più prolifici bomber d’Europa). Il primo era stato una delle rivelazioni dell’ultimo campionato, segnando 18 reti con la maglia del Mallorca, mentre il secondo si era affermato come nuova promessa del calcio uruguyano, dopo un’ottima stagione nell’attacco del Peñarol. Ma la vera fortuna del Deportivo fu la grave crisi che aveva travolto l’Atlético Madrid, devastato dalla dispendiosa gestione di Jesús Gil e condannato alla Segunda División. Ai Colchoneros, Lendoiro sottrasse l’abile portiere José Francisco Molina, il giovane terzino sinistro Joan Capdevila e soprattutto Juan Carlos Valerón, l’uomo che sarebbe divenuto il simbolo della seconda fase della storia del Super Dépor.
Nessun altro giocatore al mondo, a parte forse Mostovoj, calzava a pennello per il ruolo di trequartista negli schermi di Irureta quanto Valerón: pur non eccellendo sotto il profilo fisico, era un regista dalla grande intelligenza tattica e con una capacità di vedere il gioco e servire i compagni che, da sole, lo rendevano uno dei giocatori di maggior classe al mondo. Il calcio stava andando verso un’epoca di fantasisti veloci e robusti, di cui il brasiliano Kaká sarebbe stato uno dei primi grandi rappresentanti, per cui Valerón stava viaggiando pericolosamente contromano sulla strada della storia: forse fu anche quello, assieme ai suoi magici anni al Deportivo, a farne una delle figure più romantiche del calcio degli anni Duemila.

Per altre quattro stagioni, il Dépor fu tra le protagoniste in patria e fuori, lottando sempre per lo scudetto (due secondi e due terzi posti) e vincendo altre due Supercoppe nazionale e una Coppa del Re. E altri nomi si erano aggiunti alla rosa guidata da Irureta: Jorge Andrade aveva puntellato la difesa, il mediano dell’Espanyol Sergio aveva portato nuove energie in uno dei settori a cui il tecnico basco prestava maggiore attenzione, e il poliedrico Albert Luque aveva aggiunto nuove soluzioni sul fronte offensivo. Fu questa la squadra che rimontò il Milan nella mitica notte del Riazor del 2004.
Cinque anni dopo, Lendoiro dichiarò che il suo più grande errore fu di non aver venduto i giocatori giusti quando poteva. I risultati lo avevano spinto a gestire il Deportivo sempre più come un grande club, pur senza averne le fondamenta economiche: i giocatori forti si tenevano, perché solo così si poteva restare competitivi. Nei suoi primi quindici anni di gestione, le uniche cessioni eccellenti erano state quella di Rivaldo al Barcellona e di Makaay al Bayern Monaco, nel 2003. Gli acquisti, seppure solitamente studiati al dettaglio, erano divenuti invece sempre più frequenti e onerosi.
Quando, nel 2005, fu chiaro che non c’era più denaro da spendere, e fu annunciata un’eufemistica nuova politica societaria basata sui giovani – senza che mai si fosse pensato di potenziare la cantera – era troppo tardi per cedere le stelle. Molina, Naybet, Mauro Silva, Djalminha e Songo’o erano ormai prossimi al ritiro, mentre gli infotuni di Andrade e Tristán ne avevano considerevolmente ridotto il valore economico. Le poche cessioni di rilievo riguardarono Scaloni e Duscher al Racing Santander, Pandiani al Birmingham, Luque al Newcastle, e Capdevila al Villarreal, l’unico degli ex-Dépor che ebbe ancora una carriera di prestigio. Irureta, invece, era stato tra i primi a lasciare, in contrasto con i giocatori e forse anche con la società, e a nemmeno 60 anni si ritrovò di fatto ad abbandonare il mondo del calcio.
Il declino del Deportivo La Coruña fu, però, lungo e graduale: fino al 2010 navigò attorno alla metà classifica, prima sotto la guida di Joaquín Caparrós – che veniva da cinque begli anni al Siviglia – e poi di Miguel Ángel Lotina – l’uomo che nel 2006 aveva vinto una Coppa del Re sulla panchina dell’Espanyol – e grazie ad alcuni buoni giocatori, dal terzino brasiliano Filipe Luís all’attaccante messicano Andrés Guardado, oltre ovviamente agli ultimi grandi vecchi rimasti, Manuel Pablo e Valerón, bandiere che ricordavano un’epoca gloriosa ormai passata, come moniti perché non venisse dimenticata.
La sfortunata retrocessione del 2011 – in cui il club arrivò terz’ultimo, ma a un solo punto dalla salvezza e a soli sei dall’ottava posizione – si abbatté sul Deportivo come la mazzata finale, soprattutto a livello mentale. Tre anni dopo, la fine della lunga era di Augusto César Lendoiro arrivò a suggellare il definitivo tramonto del sogno del Super Dépor, che per più di dieci anni aveva tenuto una piccola squadra di un angolo remoto del paese tra le grandi di Spagna. Fu una storia anacronistica e controcorrente, perché mentre il calcio andava da una parte, il Dépor spingeva nel senso opposto; mentre emergevano le più spietate politiche di player-trading, il Dépor si vantava di tenere le sue stelle in squadra finchè potevano darle qualcosa.
Fonti
–GINNELL Luke, The rise and fall of Deportivo La Coruña, These Football Times
–La leggenda del Super Depor: dalla Galizia all’Europa, Contra-Ataque
–PORRI Gabriele, Il trionfo del Super-Depor, Il Calcio Racconta