“La prima volta che l’ho visto pensai ‘Chissà se mi saluterà, chissà se mi parlerà’. Diego era buono. Buono soprattutto con le persone vicino a lui.” – Monchi
Caldo, ma ventilato. Siviglia non è poi tanto diversa da Buenos Aires o da Napoli, in fondo. È il contesto a cambiare: là eri mito, con tutto il peso delle aspettative che questo comporta, e che tu comunque non ti sei mai tirato indietro dall’affrontare; qua sei accolto con il dovuto rispetto, ma anche con qualche naso storto. Sarai ancora un giocatore di calcio? Quant’è che non vedi il campo? Più di un anno?
La carriera di Diego Armando Maradona è un oggetto insolito. È stata pregna di successi e fama, eppure anche di tante seconde occasioni, che mal si conciliano coi primi. Napoli era stata la seconda occasione dopo Barcellona, e adesso la Spagna lo riabbracciava a soli trentuno anni, quando tutti lo ritenevano ormai un calciatore finito. Il 29 marzo 1991 era stato reso noto che l’autorità antidoping lo aveva trovato positivo alla cocaina dopo la vittoria in campionato sul Bari di due settimane prima, e da allora tutto era crollato.
La squalifica era stata pesante. Senza di lui, il Napoli era passato dallo scudetto dell’anno precedente all’ottavo posto in Serie A. Poi, con Claudio Ranieri in panchina e l’esplosione di Gianfranco Zola nel suo stesso ruolo, i partenopei erano risaliti in quarta posizione la stagione successiva. Un messaggio chiaro, almeno a livello tecnico: non abbiamo più bisogno di te. Per tutta risposta, Diego disse che “Se non mi lasciano andare, mi ritiro dal calcio”. Una minaccia che suonava come una blasfemia.

In realtà ne avevano bisogno eccome: Maradona era Napoli tanto quanto Napoli era Maradona. Era un bisogno psicologico, umano, prima ancora che sportivo. Il trasferimento a Siviglia fu un po’ la fine di entrambi, ma inevitabile come quella di una coppia il cui amore s’è consumato. Diego aveva rotto con il presidente Ferlaino già da tempo, con la squalifica era tornato a Buenos Aires e di fatto abbandonato il club, che aveva alla fine deciso di liberarsene, anche se non sapeva a chi né intendeva far circolare troppo la notizia. Era allora intervenuto Carlos Bilardo.
A Maradona, Bilardo doveva tantissimo: l’Argentina allenata dall’ex-tecnico dell’Estudiantes non era mai stata veramente forte e convincente quanto lui stesso sperava, ed era stato Diego a trasformarla nella migliore Selección della storia, quella campione del mondo nel 1986, terza in Copa América nel 1989 e di nuovo finalista del Mondiale del 1990. In estate, Bilardo s’era seduto con molte ambizioni sulla panchina del Sevilla, e Maradona rappresentava un’occasione troppo ghiotta per essere ignorata. Sarebbe andato a completare un tandem d’attacco potenzialmente devastante, assieme all’ex-bomber della Dinamo Zagabria Davor Suker. “Se non viene Diego, me ne torno a Buenos Aires” disse el Narigón ai suoi dirigenti, per mettere in chiaro le cose. Forse, Bilardo voleva solo restituire un favore.
La città andalusa ribolliva del fermento per l’Expo, Maradona poteva diventare l’ultima e più sorprendente novità portata in dote dalla manifestazione. Ci volle l’intervento del presidente federale Matarrese e addirittura di quello della FIFA Joseph Blatter per costringere Ferlaino, con le spalle al muro, a dare l’ok al trasferimento, ormai a fine settembre del 1992. La cifra pattuita tra le due società ammontava a 9 milioni di dollari, a cui se ne aggiungevano altri cinque, dovuti da Diego al Napoli per compensare un anticipo sullo stipendio.
Il Sevilla non pagò mai l’intera cifra, però: quando Maradona sbarcò in Andalusia, fu chiaro a tutti che non era nemmeno lontamente rassomigliante al giocatore che era stato fino a quasi due anni prima. Era ingrassato, era imbolsito, pareva dimostrare più anni di quelli che diceva la carta d’identità. Era difficile anche solo ipotizzare che, nella lunga attesa, non avesse continuato a fare uso di droga e alcol. Chi si ritrovò presto in ottima forma, però, furono le casse del club spagnolo, il cui merchandising andò a ruba dopo l’arrivo dell’argentino.

Nello spogliatoio divenne un immediato punto di riferimento. Nonostante in squadra ci fosse un altro argentino – il giovane mediano Diego Pablo Simeone, acquistato in estate dal Pisa – Maradona finì per legare soprattutto con un signor nessuno che faceva solo il secondo portiere, Ramón Rodríguez Verdejo, che però tutti chiamavano Monchi. Diego amava passeggiare per Siviglia, ma poteva uscire solo tra le 6 e le 7 di mattina, per non essere assalito dai fan; Monchi, invece, era mattiniero per natura.
Presto, anche il campo iniziò a piegare le proprie regole a quelle di Maradona. Per quanti potessero essere i suoi chili di sovrappeso o per quanto i suoi muscoli potessero essere intorpiditi dal tanto tempo lontano dallo sport, quando Maradona decideva di fare qualcosa tutto l’universo iniziava a ruotargli attorno. Se ne accorse il Real Madrid, in una serata d’autunno: per molti, pur senza segnare, quella fu la miglior partita che Diego avesse mai disputato in Spagna, nemmeno ai tempi di Barcellona.
Aveva lasciato la Catalunya nel 1984. L’aveva fatto perché lo trattavano come un grande calciatore, mentre lui riteneva di meritare qualcosa di più, forse ciò che si deve a un Dio. Che avesse ragione o torto, solo a Napoli avevano saputo accontentarlo. A Siviglia non andò altrettanto bene: piccola squadra e grandi ambizioni andavano a braccetto con una certa serietà societaria.
Nel febbraio 1993, Diego fece presente al club che avrebbe voluto giocare la partita del Centenario della Federcalcio argentina contro gli storici rivali del Brasile, e poi affrontare la Danimarca nella Coppa Artemio Franchi, che vedeva opposti i campioni del Sudamerica e quelli d’Europa. Nello stesso periodo, però, il Sevilla se la doveva vedere con il Logroñés, e suggerì di optare solo per una delle due partite in nazionale. Maradona disse che le avrebbe giocate entrambe; prima di partire per Buenos Aires, nel match di campionato con il Logroñés, passeggiò svogliato per 90 minuti, per essere sicuro di non arrivare troppo stanco all’appuntamento con l’Albiceleste. A molti, in Andalusia, non andò giù.

E tutto precipitò. Le voci sulle sue notti brave e le corse spericolate in Porsche divennero sempre più frequenti, la sua forma fisica non migliorava, e il presidente Luis Cuervas dovette addirittura assumere un investigatore privato per pedinarlo e sapere cosa combinava nel suo troppo tempo libero. Infine, alla penultima di campionato, con un plateale litigio per una sostituzione si ruppe anche il rapporto con Bilardo.
“Maradona? Non sarebbe in forma nemmeno per giocare a golf” disse il vice-presidente José Maria del Nido, sottintendendo “addio, e tante care cose”. Ma a te? Sì, a te! Il campione del mondo, il giocatore più forte di tutti i tempi, il Ragazzo d’Oro, la Mano di Dio e tutte quelle vaccate lì: a trentadue anni, un ex-calciatore che si era distrutto da solo. La sua breve esperienza a Siviglia era stata uno splendido riassunto dei suoi anni a Napoli, a cui erano mancati soltanto i titoli: una candela che s’era bruciata più in fretta, ecco tutto.
Quando s’imbarcò per tornare a Buenos Aires, alla fine di un campionato chiuso comunque al settimo posto, nessuno pianse sul serio l’addio di Maradona: per molti, Maradona a Siviglia non lo si era davvero mai visto.
Fonti
–BERTELLOTTI Lucas, Maradona del Sevilla, una versión que ni Bilardo pudo controlar, Goal.com
–DELORME Robin, Quand Maradona évoluait avec le FC Séville, So Foot
–TEJWANI Karan, Diego Maradona: The Sevilla Diaries, These Football Times