“Raggiungemmo una piccola spiaggia piena di scheletri di decine di navi in costruzione / Nessuna delle navi era pronta a salpare / Solo parti disperate di tronchi di eucalipto e di gelso segati / Il più saggio di noi propose una partita di calcio con la guardia costiera.” – Ibrahim El Sayed
Il vecchio aveva gli occhi piccoli e chiari, i capelli pettinati ordinatamente e il volto magro e definito dei mitteleuropei. Quando annunciò ad amici e parenti che sarebbe andato a lavorare in Egitto, lo presero per pazzo, perché anche se erano dieci anni ormai che saltava senza successo da una panchina all’altra in club minori dell’Europa socialista, nessuno pensava che la soluzione per rilanciare la propria carriera – lui, che aveva vinto una Coppa Italia e una Coppa delle Coppe allenando la Fiorentina – potesse comportare l’auto-esilio ai margini del mondo del calcio. Quell’uomo si chiamava Nándor Hidegkuti, ed era abbastanza sicuro di averci visto giusto. Ma ne fu assolutamente convinto solo quando, durante una seduta d’allenamento, vide come toccava il pallone il ragazzo che tutti chiamavano Bibo.
Bibo era un attaccante appena diciottenne, con un controllo di palla che mai qualcuno si sarebbe aspettato da un egiziano. Una decina d’anni prima, mentre Hidegkuti iniziava la spirale discendente della sua carriera, il padre di quel ragazzetto gli portava via il pallone dai piedi e lo spediva nella propria stanza a studiare: da semplice impiegato statale, sognava un figlio laureato, con un buon lavoro e una vita agiata, non certo un calciatore. Un giorno, confinato alla sua scrivania, Bibo colse l’attimo e scappò dalla finestra; attraversò il quartiere di corsa, arrivò al campo della sua squadra, si mise gli scarpini, varcò il rettangolo verde e fece sei reti. Quando il vecchio El-Khatib vide la targa che gli avevano donato in quanto miglior giocatore, pensò che forse il sogno di suo figlio si reggeva su gambe abbastanza robuste. Bibo, secondo l’anagrafe, si chiamava Mahmoud El-Khatib.

Le circostanze che li avevano fatti incontrare erano più grandi di loro, probabilmente. Hidegkuti ricordava l’Egitto ai Mondiali del 1934, quando era stata la prima nazionale africana a partecipare al torneo iridato; da esperto di calcio, sapeva delle due Coppe d’Africa in bacheca, conquistate nelle prime due edizioni, e sapeva che, dopo di esse, il football era quasi stato dimenticato, all’ombra delle piramidi. Nel frattempo, sotto Nasser prima e al-Sadat poi, il paese entrava nella sfera d’influenza sovietica e prendeva le armi contro Israele. Hidegkuti, che era stato una leggenda del calcio e uno dei grandi interpreti dell’Ungheria finalista ai Mondiali del 1954, nello stesso anno in cui nasceva Bibo, aveva accettato il contratto dell’Al-Ahly per riportarlo su trono d’Egitto, che ormai mancava da oltre un decennio: undici titoli nazionali, e poi il vuoto degli anni Sessanta.
Hidegkuti e Saleh Selim, ex-stella del club e ora suo massimo dirigente, rivoluzionarono completamente l’Al-Ahly, introducendo le sedute tattiche, ormai da tempo diffuse in Europa, e imponendo un rigido regime alimentare ai giocatori. La rosa fu drasticamente rinnovata, affidandosi a giocatori più giovani – la cossidetta “squadra degli studenti” dell’Al-Ahly – da plasmare secondo nuovi dettami tattici basati sulla circolazione della palla e il gioco offensivo. Mahmoud El-Khatib divenne il perno attorno a cui ruotava tutta la manovra della squadra, come Hidegkuti lo era stato nell’Ungheria degli anni Cinquanta: era come se il decaduto calcio magiaro volesse rinascere, lì al riparo da occhi indiscreti. Nel 1975, l’Al-Ahly tornò a vincere il campionato e aprì un ciclo da undici titoli nazionali in quindici anni, imponendosi come la squadra egiziana del secolo.

Qui la storia inizia a essere meno di Hidegkuti, che nel 1980 si trasferì a Dubai, e sempre più di El-Khatib. Due anni dopo l’addio dell’allenatore ungherese, condusse i suoi alla vittoria della Coppa dei Campioni africana, per poi essere premiato con il Pallone d’Oro continentale, primo egiziano di sempre a ricevere il premio. Nel 1986 fu il trascinatore dell’Egitto alla Coppa d’Africa, riportando al Cairo il trofeo atteso per ventisette anni. El-Khatib divenne così il secondo padre del calcio egiziano, dopo quel signore, quasi sicuramente britannico, che per primo aveva iniziato a giocare a calcio lungo le sponde del Nilo chissà quanti anni prima, e i cui insegnamenti erando andati perduti come i vecchi manoscritti periti nell’incendio della biblioteca di Alessandria.
Nel 1988, dopo tanti gol e troppi infortuni, appese le scarpe al chiodo. Una nuova generazione andava affacciandosi, quella che nel 1990 avrebbe riportato l’Egitto a disputare una Coppa del Mondo, la prima del dopoguerra e anche stavolta in Italia. Sono state le generazioni di Hossam Hassan, il Maradona del Nilo; di Ahmed Hassan, il recordman di presenze in nazionale e fantasista di Besiktas e Anderlecht; di Mido, l’attaccante cresciuto al fianco di Ibrahimovic all’Ajax e passato anche dalla Roma; e infine di Mohamed Salah, la stella del Liverpool che ha riportato l’Egitto ai Mondiali per la terza volta nel 2018, e che oggi si può fregiare del titolo di miglior calciatore egiziano della storia. Ma quella storia è partita, o forse ri-partita, da Mahmoud El-Khatib, che ha avuto solo la sventura del pioniere: essere stato grande nel momento più basso del calcio del suo paese.
Fonti
–ASSEM Ahmed, Nandor Hidegkuti: Hungarian hero who laid the foundation of a dynasty, Kingfut