Può esistere un Mondiale di 90 minuti? Può esistere un’avventura tanto effimera, quasi onirica, come quella delle Indie Orientali Olandesi ai Mondiali del 1938, che possa comunque essere considerata reale? Quella che oggi chiamiamo Indonesia – prima di Erick Tohir, prima di Radja Naingolaan, prima anche di Giovanni Van Bronckhorst – divenne quasi per caso la prima nazionale asiatica a prendere parte a una Coppa del Mondo. Lo fece in sordina, senza lasciare altra traccia nell’universo del pallone se non il proprio nome; arrivò, giocò e se ne tornò subito a casa, dopo un inappellabile 0-6 subito dalla futura finalista Ungheria. Eppure, per la prima volta una colonia prendeva parte al più importante torneo calcistico del pianeta.
Il 1938 sarebbe dovuto essere il Mondiale del Giappone: la Fifa, interessata a fare favori all’Asse (l’Italia aveva organizzato in casa il torneo precedente, e si presentava ora da favorita, accanto alla Germania che da poco si era annessa l’Austria e le sue stelle), aveva deciso di aprire la coppa alle nazioni asiatiche, consegnando di fatto ai nipponici un pass per la Francia. Al ricco e organizzato Giappone sarebbe bastato superare un’avversaria continentale in uno spareggio di qualificazione, e in Asia il calcio era praticamente inesistente: non esisteva ancora un’associazione continentale e, tra le poche federazioni esistenti, nessuna aveva mai schierato una selezione nazionale. Fu per questo motivo che si ripiegò su una nazione coloniale, che grazie all’organizzazione della madrepatria olandese poteva essere in grado di mettere assieme una rosa e sostenere il match pro-forma.

Ma nel 1937 era scoppiata la Seconda guerra sino-giapponese: l’invasione della Cina si era rivelata più complicata del previsto, e il Giappone decise di rinunciare agli impegni sportivi, compresa la partita contro le Indie Orientali Olandesi che si doveva disputare sul campo neutro di Saigon. La Fifa, allora, organizzò un nuovo match di qualificazione ad Amsterdam, che avrebbe visto gli indonesiani opposti agli Stati Uniti, che inizialmente aveva declinato l’invito a partecipare al Mondiale. Ma, ancora una volta, tutto saltò: la Federazione nordamericana, già gravata da problemi economici interni, faceva conto di ottenere il denaro necessario alla trasferta olandese grazie a un match amichevole contro l’Inghilterra, che però all’ultimo non si era disputato. Il destino stava spingendo le Indie Orientali Olandesi verso la fase finale del torneo.
Coloni olandesi come il secondo portiere Van Beusekom o il centrocampista Van Den Burgh, immigrati cinesi come il portiere Mo Heng Tan o la punta See Han Tan, e indigeni come l’occhialuto capitano Achmad Nawir o l’attaccante Tjaak Pattiwael. Oltre la metà di loro non aveva mai giocato in nazionale, e la quasi totalità erano in realtà studenti che praticavano il calcio solo come passatempo. Tre settimane di viaggio via nave, da Tandjok a Genova, e poi in treno fino all’Olanda, per disputare almeno delle amichevoli di preparazione contro club locali. In campo, erano quasi indistinguibili dalla nazionale olandese, che nel 1938 disputava il suo secondo Mondiale: stessa maglia orange, stesso inno; le uniche differenze erano il melting-pot coloniale dei loro volti, e la statura estremamente ridotta.
Ma quel miscuglio etnico così moderno nascondeva una storia non semplice. Nelle Indie Olandesi, la società era strettamente stratificata e divisa: i cittadini di origine europea, che fossero immigrati o “nativi”, stavano al vertice della piramide sociale; sotto di loro c’erano gli immigrati cinesi, per lo più operai e solo in alcuni rari casi studenti; e all’ultimo gradino c’erano i veri nativi, gli indonesiani. Una struttura che si riverberava sul mondo del calcio: non una, ma bene tre differenti federazioni, ognuna in rappresentanza di uno specifico gruppo etnico del paese. La Nederlandsch Indische Voetbal Bond, fondata nel 1919 e che tutelava unicamente i calciatori bianchi, era l’unica riconosciuta dalla Fifa; fino al 1935, con la nascita della nuova federazione e la rimozione dei vincoli etnici, la nazionale mista dei Mondiali di Francia non sarebbe stata possibile. A suggellare quel risultato, come allenatore fu eletto Johannes Mastenbroek, il presidente della nuova federazione.
Non lasciarono alcun segno nella memoria collettiva. Ancora oggi, nelle poche foto d’epoca risulta difficile distinguere un giocatore dall’altro. Si racconta che ci mancò poco che l’attaccante The Hong Djien non firmasse per il Santos o il Barcellona, che lo avevano seguito durante la tournée europea (che proseguì anche dopo la sconfitta contro l’Ungheria). Il centrocampista Frans Alfred Meeng fu catturato durante l’occupazione giapponese e imbarcato, assieme ad altre migliaia di prigionieri, sulla nave Jun’yo Maru, che 1944 fu distrutta dalla marina britannica, portando con sé oltre 5mila uomini. Nel 1945, a guerra finita, l’Indonesia divenne una nazione indipendente e nel 1951 la nazionale tornò a giocare, seppure in una partita non ufficiale contro una selezione sino-malese; in quell’occasione, il portiere Mo Heng Tan fu l’unico della rosa del 1938 a tornare in campo, a 38 anni di età. Cinque anni più tardi, la nazionale indonesiana fermava sul clamoroso 0-0 l’Unione Sovietica nel torneo olimpico di Melbourne, perdendo poi la ripetizione per 0-4. Non si è mai più qualificata per la fase finale dei Mondiali.
Fonti
–AA VV, World Cup 1939 Qualifying, Rec.Sport.Soccer Statistics Foundation
–AFFOLTI Stefano, Il cameo delle Indie Olandesi ai Mondiali del 1938, Gente di Calcio
-BUSCHETTA Matteo, I Mondiali dei vinti: Storie e miti delle peggiori nazionali di calcio,
–JERMADI Fikri, The Dutch East Indies’ summer of football, Back Page Football
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