Russia 2018: il multiculturalismo è realtà

“Sheguey, io sono nero, fresco, talentuoso come Paul Pogba.” – Gradur

È difficile trovare una parola che rappresenti meglio di tutte le altre lo zeitgeist della nostra epoca quanto “multiculturalismo”. Di per sé, non vuol dire granché: siamo tutti frutto dell’incontro di differenti culture e popoli che si sono avvicendati sul pianeta dagli albori della civiltà. Ma mai come oggi la società occidentale è divisa tra chi esalta il melting pot offerto dalle migrazioni, e chi invece rimprovera la dissoluzione delle vecchie identità nazionali. Non sono mancati quelli che hanno descritto la finale tra Francia e Croazia proprio come il confronto tra tra queste due visioni del mondo e, se questa narrazione può apparire una forzatura nell’interpretazione di una partita di calcio, di sicuro è stata una valida chiave di lettura della nostra società: i tifosi sui social network, specialmente in Italia, si sono sostanzialmente divisi; molti hanno parlato, piccati, di una “vittoria dell’Africa, non della Francia” (aizzati anche da figure politiche come il Ministro dell’Interno Matteo Salvini, che è andato straordinariamente a Mosca a vedere la finale e tifare Croazia, o Mario Adinolfi, che prima del match aveva esaltato la Croazia bianca, “cattolica, con il matrimonio naturale sancito in Costituzione”). Non sono stati, quindi, i giocatori di Francia e Croazia a settare i toni del match sul multiculturalismo, ma i loro sostenitori.

 

La Francia, ma non solo

Ciò che resta, di Russia 2018, è proprio l’affermazione del multiculturalismo delle nazioni europee come un ormai innegabile dato di fatto, e questo al di là della vittoria transalpina. I campioni del mondo di Didier Deschamps si sono presentati in Russia con tre giocatori nati fuori dall’Europa (Thomas Lemar nella Guadalupa, Samuel Umtiti in Camerun, Steve Mandanda nella Repubblica Democratica del Congo); appena sei bianchi, tra cui però figurano due giocatori di origine spagnola (Hugo Lloris e Lucas Hernandez), uno di origine tedesca-alsaziana (Antoine Greizmann, per altro cresciuto calcisticamente nel Paese Basco spagnolo) e uno di origine in parte italiana (Olivier Giroud); quattordici giocatori provenienti dall’Africa (i congolesi Mandanda, Kimpembe e N’Zonzi, i maliani Dembelé, Kanté e Sidibé, i camerunensi Umtiti e Mbappé, il guineano Pogba, il togolese Tolisso, l’angolano Matuidi, il senegalese Mendy, il marocchino Rami e l’algerino Fekir), due dai Caraibi (Lemar dalla Guadalupa e Varane dalla Martinica) e uno dall’Asia (Areola, originario delle Filippine).

Ma la Francia, sebbene sia stato l’esempio più rappresentativo (ma lo è da tempo), non è stata l’unica a portare alta la bandiera del melting pot culturale, anzi nel 2018 è stata affiancata per la prima volta da un gran numero di squadre. Escludendo i paesi americani e l’Australia, multiculturali per ovvie ragioni storiche, le squadre europee hanno quasi tutte schierato sul rettangolo di gioco almeno un giocatore di origine straniera. Soprattutto, non si è trattato dei soliti stranieri naturalizzati, ma di veri e propri figli di migranti.

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“Quando le cose vanno bene sono l’attaccante del Belgio, quando vanno male sono l’attaccante originario del Congo.” – Romelu Lukaku, 25 anni e 4 gol a Russia 2018.

Tra le protagoniste del Mondiale russo ci sono state Belgio e Inghilterra, due nazionali giovani e profondamente multiculturali e, se per gli inglesi ormai non fa più notizia vedere giocatori di colore in nazionale (undici su ventitré, quest’anno), nel Belgio è un discorso relativamente nuovo e che non era mai stato così massiccio come ora. Undici dei ragazzi di Roberto Martinez – il ct catalano, uomo perfetto in squadra così multietnica – hanno genitori non-belgi, con una rilevante fetta originaria dell’ex-colonia del Congo (cinque giocatori), oltre ad albanesi (Januzaj), maliani (Dembelé), martinicani (Witsel), marocchini (Chadli e Fellaini) e iberici (Carrasco). Il caso del Belgio è il più significativo dell’intero Mondiale, anche più di quello francese, visto che si parla di un paese storicamente diviso da tensioni nazionaliste tra fiamminghi e valloni, e che grazie a questi “nuovi belgi” che sfuggono alla vecchia distinzione, sta finalmente trovando una propria unità nazionale.

I “meticci” hanno popolato anche la rosa del Portogallo con otto giocatori – in parte originari dei vecchi territori coloniali in Africa e Brasile, ma un paio addirittura mezzi francesi (Raphael Guerreiro e Anthony Lopes) e perfino un calciatore di origini rom (Ricardo Quaresma) – e della Spagna con due, i brasiliani Thiago Alcantara e Diego Costa, se quest’ultimo naturalizzato nel corso della sua carriera, mentre il primo è nato in Italia e cresciuto in Spagna. La Svizzera, poi, ha da tempo fatto del meticciato un valore aggiunto, costruendo sulle nuove generazioni figlie dell’immigrazione l’ossatura della propria nazionale: quindici nuovi svizzeri, provenienti principalmente dall’Africa o dai Balcani – compreso l’allenatore croato-bosniaco Vladimir Petkovic, emigrato in terra elvetica nel 1987 – con una predominanza di albanesi-kosovari, più l’aggiunta dell’ispano-cileno Ricardo Rodriguez. Stesso discorso per la Germania e i suoi otto tedeschi di nuova generazione, provenienti dall’Africa, dalla Turchia, ma anche da nazioni europee come Spagna, Polonia e Ungheria. E, se è vero che da sempre gli immigrati dal Terzo Mondo tendono a trasferisi nei paesi del Nord Europa, Danimarca e Svezia sono arrivate in Russia rispettivamente con sei e quattro calciatori di origine straniera.

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Yussuf Yurari Poulsen, nato a Copenaghen da padre tanzaniano e madre danese, dopo aver segnato il gol che ha dato alla Danimarca l’unica vittoria a Russia 2018, contro il Peru, rivelatasi poi decisiva per il passaggio del turno.

L’altro lato della medaglia: l’Europa dell’Est

Se nel 2018 l’Europa occidentale sta affrontando in pieno il rimescolamento culturale dovuto alle grandi migrazioni, è anche vero che la sua frazione orientale è quella in cui la difesa a oltranza delle identità nazionali si è fatta più dura. Paesi come la Polonia, la Russia, l’Ungheria o i territori della ex-Jugoslavia sono attraversati da forti correnti nazionalistiche spesso maggioritarie, che hanno portato al potere governi di estrema destra che ostacolano in ogni modo possibile l’immigrazione. E allora non è un caso che siano proprio le nazioni dell’Europa dell’Est quelle più povere di calciatori di origine straniera: i pochi presenti sono stati infatti i più classici naturalizzati, ovvero giocatori stranieri cresciuti all’estero ma che hanno ottenuto la cittadinanza per meriti sportivi o per lontane ascendenze (come il brasiliano-polacco Thiago Cionek o il brasiliano-russo Mario Fernandes), o figli di emigranti (come i croati Ivan Rakitic e Mateo Kovacic, nati rispettivamente in Svizzera e in Austria da famiglia croate).

Paradossalmente, queste nazioni sono anche quelle che forniscono da tempo il maggior numero di calciatori migranti provenienti dall’area europea: otto nazionali svizzeri e sei australiani a Russia 2018 sono di origine balcanica, di ascendenza polacca sono l’asso argentino Paulo Dybala così come il brasiliano Filipe Luis o il talento tedesco Leon Goretzka. Ragionando su più vasta scala, dalla caduta del Muro di Berlino, l’Europa dell’Est è stata un serbatoio di migranti verso l’Occidente; tuttavia, queste nazioni sono tra le più giovani del Vecchio Continente, e hanno raggiunto l’unità politica e nazionale troppo di recente per essere già pronti a rimetterla in discussione.

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Michael John Jedinak, capitano dell’Australia e autore degli unici due gol dei Socceroors a Russia 2018. È nato a Sydney in una famiglia croata, motivo per cui i suoi nonni, che non parlavano inglese, lo chiamavano con il diminutivo balcanico “Mile”.

Russia 2018, infatti, ci ha dato anche la riprova di come il nazionalismo sia ancora forte nei paesi che stanno oltre la ex-cortina di ferro. Lo spogliatoio della Croazia, ripreso in un video finito sui social dopo la vittoria per 3-0 sull’Argentina, intonava una canzone inequivocabilmente nazionalista. E che dire dei kosovari in forza alla Svizzera Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri, che segnando un gol a testa alla Serbia hanno festeggiato mimando il simbolo dell’aquila albanese, rievocando anni di violenze etniche serbe in Kosovo (nazione che, sebbene sia riconociuta da 113 stati dell’Onu, ancora viene ignorata dal governo di Belgrado)?

L’episodio di Xhaka e Shaqiri ha acceso molte polemiche all’interno del Mondiale stesso: Aleksandar Mitrovic, attaccante della Serbia, ha commentato dicendo che potrebbero anche optare per la nazionale albanese, invece di giocare per la più forte e ricca Svizzera; la stampa serba ha attaccato la Fifa per non aver preso una posizione dura contro i due giocatori, chiedendosi cosa sarebbe successo se una cosa del genere fosse avvenuta a parti invertite. Per non farsi mancare nulla, alcuni tifosi serbi si sono fatti fotografare in Russia con addosso felpe col volto di Ratko Mladic, criminale internazionale responsabile del massacro di Srebrenica, mentre il ct Mladen Krstajic ha paragonato il Var alla Corte dell’Aja (che si occupò di condannare i criminali di guerra serbi dopo la guerra civile jugoslava e la guerra in Kosovo), definendo entrambi “giustizia selettiva”.

Il nazionalismo est-europeo, nato come risposta al regime comunista, è germogliato in società povere in cui la parte più giovane e istruita della popolazione ancora oggi emigra verso l’Ovest. Anche in questo caso, il calcio rappresenta bene la situazione: la Croazia ha appena due convocati che ancora militano nel campionato locale (e in nazionale annoverano appena 5 presenze), identica quota per la Serbia, mentre per la Polonia i “locali” sono appena quattro.

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Granit Xhaka, 25 anni e un gol a Russia 2018. Nato a Basilea da genitori albanesi emigrati dal Kosovo, è nella nazionale elvetica dal 2011; suo fratello maggiore Taulant, dopo tutta la trafila nelle giovanili svizzere, nel 2014 ha deciso di giocare per l’Albania.

La rivincita delle periferie

Se negli ultimi anni la cronaca ha portato le banlieues di Parigi e Bruxelles a essere indicate come ghetti in cui germoglia il radialismo islamico, Russia 2018 ci riporta storie di numerosi ragazzi che, in quelle periferie degradate – e spesso abbandonate dalle istituzioni, a dimostrazione che l’integrazione è una sfida che ancora non può dirsi conclusa – hanno scoperto il calcio e, con esso, un modo per emergere dalla propria condizione. I quartieri poveri, dove si concentra giocoforza la maggior parte degli immigrati, ospitano stretti campetti di calcio, sul modello dei playground del basket statunitense, dove ragazzi di etnia diversa si confrontano e sperimentano una propria forma di integrazione “dal basso” che vede il pallone al centro del processo.

Perché l’integrazione di Francia, Belgio, ma anche Gran Bretagna, Portogallo e altri paesi, è spesso merito di chi nelle periferie c’è e s’inventa metodi per sopravviverci, e non di chi guarda da distanza di sicurezza e si limita a usare il proprio potere per avallare quei processi. Lo sport diventa fenomeno d’aggregazione, e il calcio è lo sport più adatto a diffondersi socialmente, poiché richiede solo un pallone, un po’ di spazio e amici con cui giocare; i club amatoriali dei sobborghi sostituiscono le costose scuole calcio istituzionali, in un processo di democratizzazione dello sport che costringe il calcio “che conta” a dover scendere nei quartieri a cercare i campioni di domani, invece di aspettare che arrivino.

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Kylian Mbappé, 19 anni e quattro gol a Russia 2018, dove è stato premiato come miglior giovane del torneo. È nato e cresciuto a Bondy, cittadina alla periferia di Parigi, stesso luogo in cui sono cresciuti l’ala del Togo Serge Gakpé, il mediano del Mali Bakaye Traoré o l’ex-bomber del Camerun Patrick Mboma.

Nei sobborghi parigini non sono cresciuti solo i campioni del mondo in maglia blu come Kylian Mbappé, ma anche importanti elementi di altre nazionali, in particolare di quelle africane. Il marocchino Mehdi Benatia, il tunisino Wahbi Khazri o il senegalese M’Baye Niang sono solo alcuni degli oltre 50 calciatori francesi che hanno preso parte, dispersi tra diverse squadre, a Russia 2018, facendo della Francia la nazione di gran lunga più rappresentata del Mondiale. È questo il vero successo del multiculturalismo calcistico transalpino.

Nelle banlieues sta nascendo un nuovo sentimento nazionale che fa sicuramente paura ai sostenitori nazionalisti: la nazione non viene più vista come un monolite culturale radicalmente separato da ciò che sta oltre i suoi confini, ma come il luogo d’incontro di sentimenti differenti. “Questi ragazzi – ha spiegato ad Al Jazeera Gregory Pierrot, un antropologo che lavora all’Università del Connecticut – hanno origini in specifici paesi e culture e sono orgogliosi della propria eredità e, forse più importante, sono orgogliosi dell’eredità altrui. E questo è ciò che li rende francesi: la Francia, il luogo concreto e la comunità ideale, è il luogo in cui tutti loro s’incontrano.”

 

Fonti

AA VV, Francia-Belgio non è solo Francia-Belgio, Il Post

ALLAHOUM Ramy, Is France’s ethnically diverse team a symbol of multiculturalisme?, Al Jazeera

AUDISIO Emanuela, Mondiali 2018: nazionalisti e melting pot, la finale di calcio che oppone due mondi, La Repubblica

DONATO Antonio, Lo sport come pratica di intercultura, Collettivo Tommie Smith

JACOBS Frank, The multiculturalisme of World Cup teams, Big Think

LANZILLO Maria Laura, Multiculturalismo e società multiculturale in Europa, Enciclopedia Treccani

TAUFIQURRAHMAN M., Learing from France’s multiculturalism, World Cup run, The Jakarta Post

VALLI Bernardo, La società multietnica che divide l’Europa: ecco per l’Est non vuole i migranti, La Repubblica

ZAGREBELSKY Gustavo, La sfida multiculturale alla società occidentale, La Repubblica

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