Un anno di calcio e guerra in Palestina

Il 13 ottobre 2023, sei giorni dopo gli attacchi di Hamas e l’immediato inizio dei bombardamenti israeliani, l’IDF iniziava l’invasione della Striscia di Gaza. Nei dodici mesi successivi abbiamo assistito al contatore dei morti che saliva, a quello dell’umanità che scendeva, a parole dei governi internazionali che quasi mai sono andate a combaciare coi fatti. E, in tutto questo, il calcio non è potuto restare indifferente a quello che è solamente l’ultimo capitolo di una delle più lunghe tragedie della storia contemporanea, con buona pace di chi crede che lo sport e la politica debbano restare separati. Quello che segue è un tentativo di razionalizzare i fatti principali di quest’anno dal punto di vista calcistico, il giorno prima della discussa trasferta di Israele a Udine contro l’Italia, prima della quale nella città friulana si terrà un corteo di protesta (dopo che il 5 ottobre una manifestazione per la Palestina a Roma è stata teatro di repressione e di scontri con la polizia).

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Perché è giusto che i calciatori scioperino

Per adesso è solo una voce, ma il fatto che a confermarla siano stati alcuni dei più importanti calciatori al mondo la rende abbastanza rilevante: se FIFA e UEFA non faranno marcia indietro sull’aumento delle partite stagionali, i giocatori potrebbero entrare in sciopero. Sotto accusa c’è soprattutto il nuovo Mondiale per Club (che è già in causa legale con FIFPro, il sindacato internazionale dei giocatori), ma pure il rinnovato format della Champions League è oggetto di critiche. Più partite significano più soldi per i club, e ancor di più per le grandi organizzazioni internazionali (FIFA e UEFA), ma l’aumento del numero di partite comporta anche rischi per la salute dei giocatori, che sono maggiormente soggetti a infortuni, oltre che a maggiore stress psicologico. Già questo dovrebbe bastare a capire perché uno sciopero sarebbe necessario: da un lato c’è chi prende decisioni unilaterali per accrescere i propri guadagni; dall’altro chi subisce queste decisioni e ci rimette in salute. Eppure non pochi tifosi, in questa diatriba, sembrano propendere maggiormente per la parte delle società invece che per quella dei calciatori.

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Una partita che non si sarebbe dovuta giocare

La prima reazione è stata quella di scherzarci su. Perché, a ben vedere, non può non far ridere l’idea di gente che se ne dice di cotte e di crude in parlamento e che improvvisamente è costretta a far squadra per vincere una partita di pallone. Viene da chiedersi se non sia più sensata – e nell’interesse collettivo – una sana collaborazione a Montecitorio e una più accesa rivalità sul campo sportivo. Certo, era per una buona causa: i proventi della Partita del Cuore di martedì scorso tra Nazionale Cantanti e Nazionale Politici sono stati destinati all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma e all’Ospedale San Salvatore dell’Aquila. Ma al di là di questo, qualche dubbio sul fare giocare una sfida per beneficienza a dei politici che passano il resto del tempo a odiarsi e insultarsi – e che, almeno in parte, avrebbero il potere di agire concretamente sulla Sanità – qualche dubbio sull’iniziativa dovrebbe lasciarlo.

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Come l’Italia sta diventando una periferia del calcio

Rieccoci qui, circa due anni e tre mesi dopo la Macedonia del Nord. L’Italia del pallone sembra bloccata in un perverso loop temporale in cui il tempo passa, i nomi cambiano ma tutto resta più o meno sempre uguale. Sui media già tornano a vorticare tutte le retoriche che già conosciamo: ci sono troppi stranieri in Serie A; non si crede abbastanza nei giovani; c’è una grave crisi tecnica; i giovani non giocano più per strada… I discorsi sono sempre gli stessi da tempo, e la sensazione è che anche questa volta si parlerà molto prima di trovare l’alibi giusto che permetterà al calcio italiano di rinviare ancora una volta una riforma radicale, che vada dai vertici della FIGC al modo in cui vengono allenati i settori giovanili a livelli più bassi della piramide. Perché la verità è che la crisi dell’Italia non è un problema del 2024, nemmeno del 2018, ma almeno del 2014. Solo che in questi anni abbiamo avuto la sventura di riuscire a nasconderla in almeno due occasioni (l’Europeo di Conte e quello di Mancini), credendo che bastasse cambiare allenatore e stile di gioco per risolvere ogni guaio senza dover rimettere in discussione certezze consolidate da decenni e ormai vecchie.

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Addio alla Champions League

La finale di ieri sera tra Real Madrid e Borussia Dortmund è stata l’atto conclusivo della storia della Champions League, o più correttamente della prima Champions League. Dalla prossima stagione subentrerà un nuovo format, che di fatto inaugurerà una nuova fase della storia del torneo, se non un torneo del tutto diverso. La Fase 3 della lunga vita della principale competizione europea per club non comporterà però un cambio di nome, come avvenuto per la transizione precedente: ormai il brand si è consolidato, e non avrebbe senso modificarlo. Le motivazioni di questo cambio, oggi, appaiono molto più politiche di quelle di 32 anni fa, quando furono soprattutto le sirene dei maggiori introiti economici a spingere per la rivoluzione: adesso, pur restando importantissima la questione dei guadagni, la UEFA è stata mossa principalmente dalla necessità di rispondere a una possibile scissione dovuta al progetto della Superlega. Ma cosa resta del torneo che ha trasformato il calcio europeo nello sport globale per eccellenza?

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Israele verrà davvero sospeso dalla FIFA?

Lo scorso 17 maggio, Gianni Infantino è riuscito a mettere la palla in corner. Sappiamo tutti che evitare un gol, però, non significa automaticamente non subire gol nel prosieguo della partita, né tantomeno uscire vincitori dall’incontro. Nonostante questa grande giocata, il momento della verità è solo rimandato. Stiamo parlando del voto sulle sanzioni alla Federcalcio israeliana IFA, richieste da tempo dalla PFA, cioè l’omologa palestinese, e appoggiate dai vertici della AFC, la confederazione asiatica. Al Congresso della FIFA di metà maggio si sarebbe dovuto votare a questo proposito, ma Infantino è riuscito a prendere tempo, annunciando che la questione verrà affidata a un comitato di esperti legali e discussa nuovamente in un Congresso straordinario fissato per il prossimo 20 luglio. La decisione, dunque, è solo rimandata di pochi mesi, comprensibilmente dopo gli Europei.

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Il calcio italiano ha dimenticato il 25 aprile

Chi giovedì scorso ha dato un’occhiata sui social potrebbe aver notato che praticamente tutti i club portoghesi hanno pubblicato qualcosa per celebrare il Dia da Liberdade, il giorno della caduta del regime fascista di Salazar, il 25 aprile 1974. Il cinquantennale della fine della dittatura è chiaramente un evento speciale, ma in realtà ogni anno le socità lusitane non mancano di sottolineare questa ricorrenza. Il Benfica, il Porto, lo Sporting, e poi anche tutte le altre squadre anche meno in primo piano: tutte partecipano alla memoria del giorno della democrazia in Portogallo. La fine del fascismo in Portogallo cade, com’è noto, nello stesso giorno di quella italiana, dove la liberazione dal nazifascismo è avvenuta però 29 anni prima. Eppure, in Italia praticamente nessuna società di calcio professionistico sembra avvertire il bisogno di ricordare quello che è stato un momento fondamentale per la storia del nostro paese, e anche per il nostro calcio.

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Non siamo razzisti ma supercalifragilistichespiralidoso

Quando, la scorsa settimana, diedi il titolo al precedente articolo sul caso Acerbi, temevo di avere forzato un po’ troppo i toni: “Non saremo razzisti, ma ci proviamo con tutto noi stessi”. Sette giorni dopo, sembra però evidente che quella frase era stata fin troppo generosa, e soprattutto mi sono ritrovato senza più un titolo così adeguato per questa necessaria seconda parte. Qui non intende tornare nel merito di ciò che è successo in campo e della sentenza, perché il Giudice Sportivo ha preso una decisione definitiva. Prove video, audio o altre testimonianze non ce ne sono, per cui non ho elementi per discutere l’assoluzione del difensore dell’Inter. C’è però tutto un contorno di questa videnda che dimostra molto chiaramente come la questione del razzismo sia intrinsecamente inaffrontabile nel calcio italiano. E il problema è prima di tutto informativo ed educativo: nel senso che la maggior parte della gente che dovrebbe conoscere il fenomeno pare invece essere la meno informata a riguardo.

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Non saremo razzisti, ma ci proviamo con tutto noi stessi

Il caso tra Acerbi e Juan Jesus segnerà probabilmente un prima e un dopo nel rapporto tra il calcio italiano e il razzismo. Quale sarà la decisione del Giudice Sportivo, attesa già nella prossima settimana, le conseguenze sono probabilmente prevedibili: in caso di condanna, gli innocentisti quasi certamente peroreranno la causa del difensore nerazzurro paventando o complotti anti-Inter o la solita “dittatura del politicamente corretto”; in caso di assoluzione, sarà difficile, dopo quello che è circolato sui social, lavare via dal giocatore l’immagine del razzista impunito, considerati anche i precedenti non proprio edificanti del nostro calcio nel sanzionare simili comportamenti. E, ovviamente, se ci sarà la squalifica la carriera di Acerbi potrà dirsi finita: è già trapelato che l’Inter potrebbe licenziarlo, di sicuro non verrà portato agli Europei, e a 36 anni gli converrà ritirarsi e lasciar calmare le acque, nella speranza di poter rientrare nell’ambiente in un prossimo futuro.

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Stiamo assistendo alla fine del modello tedesco?

Un terremoto sta scuotendo le fondamenta del calcio tedesco: lunedì 11 dicembre, la DFL – l’organizzazione che gestisce le due leghe professionistiche del paese – ha annunciato il raggiungimento di un accordo tra i club per l’apertura a nuovi investimenti da parte dei fondi di private equity. Un fatto storico, soprattutto per il suo aspetto implicito: le dirigenze di due terzi dei club (questa la maggioranza richiesta per il via libera) hanno preso una decisione in aperta opposizione al volere dei loro tifosi, che in Germania rappresentano una fetta consistente dei soci. Non stupisce allora che pochi giorni dopo l’associazione delle tifoserie tedesche facesse uscire un comunicato da battaglia, lanciando lo slogan “Wir werden kein teil eures deals sein!”, che si è poi visto esposto in diverse curve nel successivo turno di campionato. Numerosi gruppi ultras sono rimasti in silenzio per 12 minuti all’inizio delle partite come forma di protesta, e in alcuni casi si sono verificati lanci di oggetti in campo (palle da tennis e monete di cioccolato), che hanno costretto alla temporanea sospensione di alcuni incontri. Ma questa situazione è in realtà solo la punta dell’iceberg.

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