Il calcio italiano è in guerra coi suoi tifosi

Striscione dei tifosi del Como contro Milan-Como a Perth, Australia

“Qui si tratta di capire se vogliamo l’uovo oggi o la gallina domani. Chi sviluppa una property sportiva ha l’obbligo di pensare a 5-10 anni e dobbiamo fare né più né meno quello che hanno fatto da sempre le grandi leghe americane. Se si vuole diventare una Lega internazionale si deve avere il coraggio di fare scelte impopolari”. Con queste parole, dette a Cronache di Spogliatoio in un’intervista pubblicata lunedì scorso, l’amministratore delegato della Serie A Luigi De Siervo ha spiegato che, nonostante le proteste, il piano per portare Milan-Como del prossimo febbraio a Perth non solo andrà avanti, ma che è pure la cosa corretta da fare. Soprattutto, per la prima volta l’uomo che gestisce il massimo campionato professionistico italiano ha messo in chiaro un aspetto centrale della sua gestione: la Serie A non deve pensare agli interessi dei suoi tifosi.

Per qualcuno potrebbe essere una banalità: da quando in qua un’azienda in un mondo ipercapitalista si dovrebbe preoccupare di altro che non sia il suo profitto? Ma, in realtà, a scricchiolare sono proprio i principi del mercato: per qualsiasi azienda, i propri clienti/consumatori sono (o dovrebbero essere) la cosa più importante. La fidelizzazione del cliente è un principio che ha sempre pagato (e continua a farlo), ma a cui la Serie A pare non essere più interessata. E, sia chiaro, in questa deriva il campionato italiano non è solo, come dimostra il recente tentativo della Liga spagnola di esportare Villarreal-Barcellona a Miami, andando a far visita al suo ex eccellente, Leo Messi. La Serie A, però, sotto la gestione De Siervo sta perseguendo con particolare caparbietà quello che sembra un preciso piano (presumibilmente inconsapevole) per alienarsi il proprio pubblico.

In parallelo al caso Milan-Como, l’ad della Serie A si è fatto conoscere in questi anni per la sua crociata contro la pirateria. È ovvio che un problema di fruizione illegale delle partite esista e che vada risolto, ma il modo in cui De Siervo sta combattendo questa battaglia è tra l’offensivo e il ridicolo. Nel novembre 2024 diceva che la pirateria arreca un danno di 300 milioni di euro al calcio italiano, sottraendo soldi ai club che altrimenti potrebbero usarli “per fare acquisti di giocatori”. Ma si tratta di una sparata demagogica: il danno, semmai, è alle emittenti che detengono i diritti tv del campionato, e anche se una parte di questi 300 milioni venisse poi destinata alle società, non sarebbe di certo determinante. Facendo un calcolo grossolano, 300 milioni per 20 club sono 15 milioni a testa: con questa cifra, la scorsa estate, la Juventus ha acquistato Edon Zhegrova dal Lille, non certo un campione che fa la differenza. Lo scorso giugno, De Siervo ha aggiunto che la pirateria è la causa della crisi di talenti del nostro calcio e, quindi, dei pessimi risultati della Nazionale: una considerazione che davvero non merita neppure di essere confutata, talmente è grottesca.

Se è sicuramente un dovere della Lega di Serie A contrastare questo fenomeno, è però lecito domandarsi se rappresenti davvero un danno economico per il campionato. In poche parole, chi guarda le partite illegalmente lo fa perché è tirchio o perché non può permettersi di pagare un abbonamento? Se fosse preponderante il secondo caso, è difficile credere che sconfiggendo la pirateria i suoi utenti si riverserebbero immediatamente sui servizi legali. Attualmente, per seguire tutti i match nazionali e internazionali delle squadre del massimo campionato italiano sono necessari tre abbonamenti diversi: DAZN (34,99 € al mese) per seguire tutta la Serie A; Sky (29,99 € al mese) per seguire quasi tutta la Champions League, più Europa e Conference League; e Amazon Prime Video (49,90 € all’anno) per le restanti partite della Champions League. Significa spendere circa 820 euro all’anno solo per il guardare il calcio, in un paese in cui il costo della vita sta aumentando notevolmente rispetto agli stipendi. Dati del 2023 evidenziano che il Purchasing Power Standard degli italiani è del 15% inferiore rispetto alla media UE, e un recente articolo del Corriere della Sera ha spiegato che, secondo l’Eurostat e l’Ocse, i lavoratori italiani guadagnano circa 5.000 euro all’anno in meno rispetto alla media europea.

Luigi De Siervo Serie A
Prima di essere eletto amministratore delegato della Serie A nel dicembre 2018, Luigi De Siervo è stato a lungo un dirigente della Rai e anche presidente e ad dell’azienda di marketing sportivo Infront Italy.

Siamo tutti d’accordo che non spetta alla Serie A combattere l’inflazione, però il calcio italiano non può non porsi il problema: il suo pubblico domestico ha sempre meno soldi da spendere per un prodotto che, al contrario, sta diventando sempre più caro. E che, in aggiunta, è un’esperienza sempre più totalizzante, che occupa gran parte del tempo libero delle persone, con partite praticamente tutte le sere, in diverse fasce orarie, e nei fine settimana anche tutti i pomeriggi. Il calcio rappresenta dunque un impegno non solo economico, ma anche di vita personale, che va valutato attentamente. A peggiorare ulteriormente le cose c’è che il costo delle partite non sta aumentando solo per chi se le vuole vedere dal divano, ma pure per chi va allo stadio, ancor più se in trasferta. Lo scorso agosto, Franco Vanni su Repubblica segnalava che in questa stagione gli abbonamenti in curva (i più economici) sarebbero costati in media quasi 390 euro all’anno. Quasi tutti i grandi club hanno aumentato i costi, e pochissimi (Fiorentina, Lazio, più il Milan per i vecchi abbonati) li hanno mantenuti uguali all’annata passata.

Stanno iniziando a verificarsi casi di tifoserie che disertano le partite in trasferta per protestare contro il costo eccessivo dei settori ospiti, come hanno fatto gli ultras della Fiorentina a fine settembre, in occasione del derby col Pisa. Sempre più di frequente capitano episodi di trasferte vietate all’ultimo dalle autorità (sottolineai già il problema ad aprile sull’Ultimo Uomo). La scorsa settimana è successo, per esempio, con Pisa-Lazio: il divieto per i sostenitori biancocelesti è stato comunicato solo martedì, due giorni prima della partita, quando molte persone avevano già comprato i biglietti e presumibilmente preso ferie da lavoro e pagato i viaggi sui mezzi pubblici per raggiungere la città toscana. Le responsabilità sono molteplici: dei club, da cui dipendono i costi dei biglietti; delle televisioni, che stabiliscono quelli degli abbonamenti tv; del governo, che vieta trasferte magari anche per ragioni fondate di ordine pubblico, ma spesso senza considerare le necessità dei tifosi (e che ha ovviamente il compito di contrastare l’impoverimento dei cittadini). La Serie A non può, però, far finta di non vivere in questo mondo.

Tutti questi fenomeni confluiscono infine in un clima generale di crescente ostilità del calcio italiano nei confronti dei tifosi. Quando dicono di sentire questo sport sempre meno loro, quando dicono che “oggi è tutto un business”, chiaramente operano una banalizzazione (sì, il calcio è un business: ma lo è da oltre un secolo), ma essa è il sintomo di un malessere che non è certo frutto di capricci infantili. In un contesto del genere, l’idea di iniziare a spostare alcune partite di campionato in un altro paese – addirittura in un altro continente – non può che rafforzare l’idea che la Serie A abbia ormai abbandonato i tifosi italiani, e voglia cercarsene di nuovi altrove. Non è del tutto una novità, è vero: il nostro calcio ha svolto un ruolo pionieristico, in questo processo, esportando la Supercoppa nazionale negli Stati Uniti già nel 1993 (e poi arrivarono la Libia, la Cina, il Qatar e, da ultima, l’Arabia Saudita). Ma la Supercoppa è sempre stata un torneo minore e di scarso appeal per il pubblico, tant’è vero che risale appena al 1988. Cosa diversa è organizzare all’estero delle partite di campionato.

L’esempio del Giro d’Italia che inizia con un prologo all’estero (l’ultima edizione ha avuto tre tappe in Albania) è del tutto fuoriluogo: si tratta di alcune giornate di corsa che si aggiungono alla competizione, senza alterarne la struttura. Di Milan-Como, invece, in una stagione se ne gioca solo una: quella è l’unica occasione per un sostenitore comasco per andare a vedere la propria squadra a San Siro contro i rossoneri. Non ha nemmeno senso fare paragoni con le leghe americane, che non prevedevano in alcun modo i match internazionali fino alla decisione di giocarne alcuni in Europa: nel calcio, le partite all’estero già ci sono, e sono quelle delle coppe organizzate dalla UEFA. Gli artifici retorici usati da De Siervo per giustificare la sua ultima trovata denotano, in verità, o malafede o una scarsa conoscenza del prodotto che amministra. E il fatto che tutti i 20 club della Serie A stiano dalla sua parte non ne rafforza certo la posizione, ma conferma invece che il calcio italiano è in mano a persone incapaci di comprendere il punto di vista del loro pubblico.

Andrea Abodi Ministro dello Sport
“Così si manca di rispetto agli appassionati che vogliono seguire la propria squadra” ha commentato il Ministro dello Sport Andrea Abodi, a proposito di Milan-Como a Perth. Ironicamente, proprio Abodi ha avuto un ruolo nell’accordo che ha portato l’Italia a ospitare, nel 2024 e nel 2025, le finali del campionato nazionale libico sul proprio territorio.

Veniamo infine alla questione più squisitamente pratica: ne vale davvero la pena? Secondo Giorgio Di Maio, che ne ha scritto martedì sull’Ultimo Uomo, no. L’Australia non sembra un mercato particolarmente ricco per il calcio, né dal vivo né in tv, per cui non si capisce in che modo giocare a Perth potrebbe garantire vantaggi sul lungo periodo alla Serie A. In più, bisogna capire come questa operazione potrebbe essere replicata in futuro. Come ha detto abbastanza chiaramente Gerry Cardinale, agli americani non interessa vedere Cagliari-Lecce, quindi all’estero devi portare le grandi squadre, o perlomeno club con attrattiva internazionale (come può essere il Como, appunto). Oggi è fattibile, con i rossoneri e i lariani che competono solo in campionato e non hanno turni infrasettimanali: andare e tornare dall’Australia o dagli Stati Uniti per poi giocare di nuovo il mercoledì sarebbe invece improponibile. Quindi, ogni anno la Serie A deve sperare che almeno una delle sue big fallisca l’accesso alle coppe, con conseguente perdita di introiti, che difficilmente il compenso dovuto al match all’estero potrà coprire. Tutto questo, poi, solo per una partita a stagione? Non pare un progetto molto solido, a dire il vero.

Ma se anche avesse successo, davvero si vuole correre il rischio di alienarsi il pubblico locale – marginalizzato sia negli stadi che in tv, umiliato e svilito continuamente – per inseguire un ipotetico pubblico occasionale straniero? Perché possiamo anche portare 60.000 persone (più o meno la capienza del Perth Stadium) a vedere Milan-Como a febbraio 2025, ma chi garantisce che ne avremo altrettante tra un anno per una partita diversa? La Serie A intende rivolgersi a dei tifosi abituati a seguire soprattutto altri sport, per cui il calcio sarà probabilmente sempre e solo un diversivo. Pensiamo agli statunitensi, il cui mercato sportivo è già in gran parte saturo e che difficilmente baratteranno il loro amore per il football o il baseball con quello per una disciplina europea (e a maggior ragione riesce difficile pensare che lo possano fare in un’epoca di feroce nazionalismo identitario come quella attuale). Il pubblico extra-europeo non potrà dunque che essere sempre e solo di tipo occasionale.

Inseguire il tifoso estemporaneo è qualcosa che i club hanno iniziato a fare già da diverso tempo, puntando molto sul l’attrattiva delle città italiane. Non è un caso che i club acquistati da imprenditori stranieri siano soprattutto quelli delle principali mete turistiche del paese (Roma, Firenze, Bologna, Venezia, Pisa, Como, eccetera), e che sempre più spesso si cerchi di dare un’immagine glamour e internazionale alle società, dipingendo la partita come un elemento della True Italian Experience al pari di una buona cena o di una visita a un museo. L’aumento del costo dei biglietti è in parte connaturato anche a questo fenomeno, che mira a rendere lo stadio un’esperienza più esclusiva. Se ne parla poco, ma alcuni stadi stanno subendo, in piccolo, un processo simile a quello delle città che li circondano: sempre più elitarie a causa dei costi elevati, che costringono i residenti ad andarsene, lasciando spazio ai turisti. Nel calcio, questo fenomeno è in crescita ma resta ancora marginale, eppure chi può dire che il futuro non vada proprio in questa direzione?

Cinque anni fa, agli inizi della pandemia, su Rivista Undici preconizzavo, un po’ fantasiosamente, un avvenire del calcio a porte chiuse: si trattava di una provocazione, che affondava però le proprie radici in una situazione che si stava già iniziando a delineare, quella di una disaffezione tra il mondo del calcio italiano e i suoi tifosi. Più in generale, il ruolo del tifoso come base del club sta venendo meno. Lo confermano, paradossalmente, anche progetti per molti versi meritori come quello del Fortuna Düsseldorf, che vuole rendere lo stadio gratuito per i suoi sostenitori: se, da un lato, può essere visto come un piano in controtendenza, dall’altro denota che i club non hanno più davvero bisogno dei tifosi per sostenersi economicamente. Il pubblico come accessorio o status symbol, che può quindi essere incluso nel pacchetto a determinate condizioni, imposte dall’alto. In Arabia Saudita, il Neom SC arriva a pagare delle persone per venire ad animare gli spalti: tifosi finti per creare atmosfera, come attori a teatro per un pubblico reale di avventori occasionali, che paga per lo spettacolo in campo e per il contorno di cori e bandiere.

Genoa Juventus 28 settembre 2024
Genoa-Juventus del 28 settembre 2024, a porte chiuse in seguito agli scontri del derby di Coppa Italia tra Genoa e Sampdoria.

La prospettiva italiana è praticamente all’opposto, ma il contesto strategico sembra essere lo stesso. Lo stadio è sempre più un luogo esclusivo, rivolto ad avventori e non ad affezionati, con le vecchie tifoserie che stanno perdendo rilevanza e rischiano di subire una sorta di selezione. Solo chi si adeguerà e potrà permetterselo resterà, magari trasformandosi in tutto e per tutto in un dipendente del club, pagato per intrattenere il nuovo vero pubblico. Come le cheerleader degli sport americani, solo in curva invece che in campo. Ma queste sono essenzialmente fantasie su quello che potrebbe essere il calcio in un tempo non tanto vicino all’oggi. Il problema è come ci si potrebbe arrivare.

La Serie A sta cercando di recidere il cordone ombelicale che la lega al tifo domestico, senza sapere se sarà in grado di trovarne un nuovo e più economicamente vantaggioso. Forse i suoi dirigenti sono convinti che il tifoso sia un dato di fatto inalienabile, che non possa permettersi di voltar solo le spalle e che, quindi, sia disposto ad accettare ogni abuso pur di non perdere il pallone, come in una relazione tossica da manuale. Forse è vero, ma forse non lo è del tutto. E, sacrificando l’uovo di oggi per ottenere la gallina di domani, il rischio è di ritrovarsi con un pollaio vuoto.

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1 commento su “Il calcio italiano è in guerra coi suoi tifosi”

  1. Rispondo con un’ulteriore provocazione: un calcio che prende queste caratteristiche può anche smettere di mandare in campo dei giocatori. Viviamo in un’epoca in cui, più che ad una squadra, i tifosi sono legati ad un calciatore o ad un certo gruppo: c’è più gente che tifa Cristiano Ronaldo che il Manchester United, in giro per il mondo; ed i calciatori in carne ed ossa rischiano di essere troppo “inaffidabili”, per il business che rappresentano. Tanto vale affidarsi ad uno spettacolo creato dall’intelligenza artificiale, che può superare i limiti degli esseri umani e trasformarsi in qualcosa che starà a metà tra il wrestling ed il Grande Fratello. Se non mi ricordo male, per altro, Borges aveva scritto un racconto simile (ne aveva parlato anche Odifreddi… sì, purtroppo un periodo ho seguito Odifreddi).

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