La data era stata fissata per il 14 maggio 1938, e la sede sarebbe stata ovviamente l’Olympiastadion di Berlino, edificato per i sontuosi Giochi Olimpici di due anni prima. Non era la prima volta che l’Inghilterra affrontava la Germania in trasferta, ma di certo sarebbe stata diversa da tutte le altre. Molte cose erano successe, nel paese tedesco, dai tempi dell’ultima amichevole berlinese tra le due squadre, disputatasi il 10 maggio 1930 nel vecchio Deutsches Stadion, il predecessore dell’attuale impianto della Capitale. I tesi rapporti diplomatici tra il governo inglese del conservatore Neville Chamberlain e quello tedesco del Führer Adolf Hitler non facilitavano certo l’organizzazione di una partita di calcio, anche se sarebbe stato assurdo confondere lo sport con la politica. Però il contorno di quell’incontro era chiaro a tutti, e lo fu ancora di più quando Stanley Rous, il presidente della Football Association, avvertì il capitano dell’Inghilterra Eddie Hapgood che dalla squadra ci aspettava che osservasse l’inno tedesco esibendosi nel saluto col braccio teso.
La richiesta era arrivata a Rous direttamente dall’alto, assicurava il capo della FA: era stato addirittura Sir Nevile Henderson, l’influentissimo ambasciatore britannico a Berlino, a fare pressioni su quel punto. Henderson si era formato a Eton, aveva 55 anni ed era stato l’uomo scelto da Downing Street per capire quanto fosse pericoloso Hitler. A suo dire, il Cancelliere tedesco era un politico ambizioso ma malleabile, poteva essere facilmente manipolato dal Regno Unito e assolutamente non andava trattato come un pazzo furioso, perché in quel modo lo si sarebbe spinto ad azioni sconsiderate. Il piano dell’ambasciatore era quello di non infastidirlo, ma anzi dimostrare che i britannici, per quanto radicalmente lontani dalle sue idee, non gli erano completamente ostili. Non stupisce allora che avesse suggerito a Rous che la Nazionale dovesse fare il saluto nazista a Berlino, come segno di buona volontà politica.
Il bisogno di stemperare gli animi tra i due paesi era abbastanza urgente, e quale evento meglio di una partita di calcio poteva fungere a questo scopo? La Gran Bretagna non aveva preso bene la retorica antisemita del governo tedesco, né tantomeno l’annessione dell’Austria avvenuta a marzo, due settimane prima della scadenza per le convocazioni della partita dell’Olympiastadion. Era inoltre opinione comune che la Germania non intendesse fermarsi lì, e che avesse già preso di mira i Sudeti, una regione di confine in territorio cecoslovacco ma a maggioranza germanofona, in cui agiva già il Sudetendeutsche Partei di Konrad Henlein, da tutti ritenuto una diramazione del Partito Nazionalsocialista tedesco. A Londra, il Primo Ministro Chamberlain sposava in pieno i suggerimenti dell’ambasciatore Henderson, e stava anche sondando il terreno con l’Italia di Mussolini nella speranza di trovare in essa un alleato utile a smorzare Hitler.
La questione del saluto dell’Olympiastadion aveva un rilevanza anche alla luce dei precedenti eventi sportivi che avevano coinvolto i due paesi. Nel dicembre 1935, la Germania era venuta ospite a Londra, giocando allo stadio White Hart Lane e causando non pochi malumori: l’impianto era la casa del Tottenham, club particolarmente popolare tra la comunità ebraica londinese, e solo tre mesi prima il governo di Hitler aveva emesso delle leggi razziali contro gli ebrei tedeschi. Una cinquantina di lettere di protesta erano state inviate agli uffici del Tottenham per chiedere di non concedere il proprio stadio per l’incontro. Il club le aveva ignorate, scaricando ogni responsabilità sulla FA, ma in occasione della gara di campionato contro il Burnley 6.000 tifosi ebrei avevano abbandonato polemicamente gli spalti a incontro iniziato. La notizia che circa 10.000 tedeschi sarebbero venuti a Londra a seguire la partita aveva creato grande dibattito: la stampa ebraica denunciava la partita come uno strumento di avvicinamento politico tra Gran Bretagna e Germania, mentre non pochi tifosi inglesi scrissero ai media difendendo l’organizzazione dell’incontro e spesso indugiando in commenti dal vago sapore antisemita. Proprio in quel periodo – va ricordato – andava emergendo la British Union of Fascists di Oswald Mosley.

La partita si era svolta nel massimo del fair-play, con il capitano tedesco Fritz Szepan che aveva addirittura ricordato che la Germania era lì per giocare a calcio, non per fare politica. Ma in contemporanea fuori da White Hart Lane si era tenuto un corteo anti-nazista in cui erano stati scanditi slogan come “Il nostro obiettivo [Our goal, nda]: la pace; l’obiettivo di Hitler: la guerra” e “Manteniamo pulito lo sport, combattiamo il Fascismo”. Le immagini dall’interno dello stadio avevano suscitato un certo malumore, nonostante l’apparente tranquillità dell’evento: la squadra tedesca aveva ascoltato il proprio inno nazionale sfoggiando il rituale braccio teso, mentre la bandiera con la svastica era stata esposta accanto a quella con la croce di San Giorgio, in un perverso segnale di fratellanza che a molti britannici aveva fatto un certo ribrezzo. L’Inghilterra s’impose con un netto 3-0, firmato da George Camsell del Middlesbourgh – autore di una doppietta – e da Cliff Bastin dell’Arsenal. Ma, nemmeno un anno dopo, altre partite di calcio erano state nuovamente occasione di polemiche.
Nell’estate del 1936 una squadra di dilettanti britannici partecipò ai Giochi Olimpici di Berlino, sconfiggendo la Cina per 2-0 per poi perdere 5-4 ai quarti di finale contro la Polonia. Già in quelle due occasioni Stanley Rous aveva raccomandato ai giocatori di fare il saluto nazista prima del fischio d’inizio, come segno di rispetto verso il governo tedesco: in questo caso, il presidente della FA non poté però usare la scusante di una richiesta dall’alto, dato che Nevile Henderson sarebbe stato nominato ambasciatore solo l’anno successivo. Tuttavia i giovani studenti britannici che andarono a Berlino si rifiutarono sistematicamente di fare il saluto che era stato loro ordinato, facendo scoppiare un caso diplomatico tra i rispettivi paesi. Accettarono di malavoglia, invece, di stringere la mano a Hitler, anche se in seguito alcuni di loro confessarono di non aver gradito la cosa: il centrocampista Daniel Pettit, iscritto a Cambridge, rivelò che appena possibile andò a lavarsi le mani.
Due anni più tardi, Rous e il governo britannico volevano quindi evitare il ripetersi di un simile incidente. Ma quando, poche ore prima del calcio d’inizio, il presidente della FA comunicò ai giocatori che dovevano eseguire il saluto, nessuno la prese bene. Il malumore nello spogliatoio inglese era abbastanza forte, al punto che Hapgood – normalmente un uomo misurato – urlò contro Rous e gli suggerì non troppo elegantemente dove poteva infilarselo, il saluto nazista. Dovette intervenire l’ambasciatore Henderson, usando tutta la sua arte diplomatica per spiegare ai giocatori che quello non sarebbe stato un gesto di approvazione verso il regime tedesco, ma solo un modo per mostrare rispetto per il paese che li ospitava. In Germania, quel saluto era usato comunemente dalle persone- spiegò Henderson – e gli stessi giocatori avversari lo avrebbero eseguito durante l’inno britannico. Alla fine, tutta la squadra decise di obbedire, con la sola eccezione del 22enne difensore del Wolverhampton Stan Cullis, che venne quindi relegato in panchina e rimpiazzato da Alfred Young dell’Huddersfield Town.
Questa, almeno, è una versione della storia. Il giornalista John Leonard è abbastanza scettico riguardo l’opposizione di Cullis al saluto: come ha ricostruito, infatti, l’undici titolare inglese era già stato scelto il 29 aprile, e il giocatore dei Wolves era aggregato solo come riserva (in un’epoca in cui non erano previste le sostituzioni nei 90 minuti). È possibile che Cullis fu tra i contrari al saluto, ma non fu escluso dalla partita per questo motivo (sembra piuttosto che la decisione precedente di lasciarlo in panchina fosse dovuta alla brutta partita disputata contro la Scozia il 9 aprile) e quindi la celebre frase “Count me out!” con cui si rifiutò di giocare sarebbe unicamente un mito. In seguito, sia Henderson che soprattutto Rous negarono di aver dato alcuna imposizione ai giocatori, parlando solo di un consiglio che la squadra aveva accettato senza protestare. Tuttavia, nelle loro successive autobiografie sia Hapgood che Stanley Matthews raccontarono quell’episodio con amarezza e vergogna, sostenendo che si opposero ma che gli fu detto chiaramente che si trattava di un ordine, non di una richiesta. Paradossalmente Hitler – che Henderson temeva tanto di offendere in caso di mancato saluto – nemmeno fu presente alla partita.

La FA insisteva molto sull’indipendenza dello sport dalla politica, un cavallo di battaglia di Rous fin dalle tensioni attorno al match di White Hart Lane, eppure sia la federazione che il governo avevano ben chiaro quanto fosse importante vincere a Berlino. Le preoccupazioni non mancavano: la Germania non perdeva da 14 partite consecutive e, rinforzata dai giocatori austriaci assimilati, andava in cerca di un grande risultato per presentarsi tra le favorite ai Mondiali estivi in Francia. Per contro, negli ultimi due anni i Three Lions avevano perso due volte con Galles e Scozia, e una con Belgio e Austria. Sul campo dell’Olympiastadyon, però, l’Inghilterra tenne fede alla sua nomea e s’impose con un netto 6-3: Bastin segnò la rete del vantaggio, poi pareggiò Rudolf Gellesch dello Schalke 04; gli inglesi tornarono avanti con John Robinson e allungarono con Frank Broome e Matthews. Jupp Gauchel provò a riportare in partita i padroni di casa, ma all’inizio del secondo tempo Robinson andò nuovamente in rete, e nel finale arrivarono altri due gol, firmati dall’austriaco Hansi Pesser e da Leonard Goulden del West Ham.
La vittoria inglese venne accolta positivamente in patria, e la stampa trattò in maniera molto didascalica il fatto del saluto nazista, che dunque fece poca notizia. Così come si parlò relativamente poco di quanto avvenuto il giorno successivo, quando allo stesso Olympiastadion si tenne una seconda partita molto meno pubblicizzata, tra un’altra selezione tedesca e l’Aston Villa. Anche in questo caso la FA aveva “consigliato” ai giocatori di fare il saluto nazista, cosa che avvenne all’inizio dell’incontro, al momento degli inni nazionali. I 90 minuti furono piuttosto tesi, soprattutto perché il Villa praticava la trappola del fuorigioco, frustrando sia i giocatori che il pubblico tedeschi, e causando molto nervosismo. Così, quando la partita terminò (con una vittoria per 3-2 degli inglesi) e le due squadre avrebbero dovuto rischierarsi a centrocampo per un secondo saluto, la maggior parte dei giocatori dell’Aston Villa filò dritta negli spogliatoi. Il governo tedesco protestò con i britannici, che si giustificarono parlando di un’incomprensione e non di un’offesa deliberata. La FA dovette inviare l’ex-presidente del club di Birmingham Frederick Rinder a spiegare alla squadra che, nelle due successive partite della tournée tedesca, avrebbero dovuto rispettare alla lettera il protocollo.
Così accadde, dunque, nella succesiva partita contro un nuovo undici tedesco giocatasi a Düsseldorf, e ancora nella terza, disputata a Stoccarda (anche se in questo match le tattiche del Villa furono nuovamente oggetto di veementi proteste da parte dei tifosi tedeschi, costringendo all’intervento le forze dell’ordine per proteggere i giocatori ospiti). In piena epoca di appeasement non ci fu quindi nessun calciatore inglese che esplicitamente si sottrasse al saluto nazista? In realtà, sembra che uno ci fu: nel 1934, un anno dopo l’elezione di Hitler, il Derby County disputò quattro partite amichevoli in Germania, e già all’epoca le autorità britanniche fecero pressioni sui giocatori perché facessero il saluto. Ma Jack Kirby, il 25enne portiere dei Rams, fu l’unico elemento della formazione a tenere le braccia basse in ognuno dei match. La sua storia è stata raccontata dall’ex-compagno di squadra George Collin al Derby Telegraph nel 1989: anche all’epoca la squadra era contraria e la FA e la politica insistettero, ma solo Kirby non volle sentire ragioni. Questa vicenda, a lungo dimenticata, ha trovato una conferma nel 2021, quando nella casa dell’ex-dirigente del Derby County Gilbert Dickenson è stata ritrovata una foto che testimonia il rifiuto del portiere inglese.
Ciò che avvenne dopo la partita dell’Inghilterra a Berlino è storia: a fine settembre le grandi potenze europee s’incontrarono a Monaco di Baviera e diedero il via libera alla Germania all’annessione dei Sudeti. Henderson continuò a sostenere che, andando incontro alle richieste di Hitler, si sarebbe evitata una guerra sanguinosa. Continuò a pensarla così fino a che, undici mesi dopo la conferenza di Monaco, la Germania invase la Polonia. Oltre 600 calciatori professionisti britannici si arruolorano per combattere i nazisti, tra cui praticamente l’intera squadra del Bolton Wanderers, il cui capitano Harry Goslin già nei mesi precedenti aveva tenuto un discorso allo stadio contro l’espansionismo nazista. Tra i volontari si contarono anche Daniel Pettit, lo studente e calciatore di Berlino 1936 che aveva detestato dover stringere la mano a Hitler, e Stan Cullis del Wolverhampton. Dopo la guerra, nel 1961, Stanley Rous fu eletto presidente della FIFA: in questa veste si spese con deplorevole ostinazione nel difendere il regime fascista del National Party in Sudafrica, ribadendo ancora una volta la necessità di mantenere lo sport separato dalla politica. Si sa poco di ciò che successe in seguito a Jack Kirby, dopo il ritiro dal calcio nel 1939. L’ex-portiere del Derby County morì a soli 50 anni, nel 1960, in gran parte dimenticato dal mondo del calcio: solo di recente è stata lanciata una campagna di raccolta fondi per restaurare la sua tomba, che giace in stato di semi-abbandono nel cimitero della chiesa di St. Peter a Netherseal, nel Derbyshire meridionale. Fu l’unico calciatore a non fare il saluto nazista.

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Fonti
–CARTER Neil, Aston Villa, the Offside Trap and the Nazi Salute, History Workshop
–HARDING John, When England played Germany at White Hart Lane in 1935, The Guardian
–LEONARD John, England’s Nazi Salute: Football’s Day of Shame, John Leonard Blog
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