Questo articolo è stato originariamente pubblicato in inglese nella newsletter The Beautiful Shame, il 25 dicembre 2024.
Nel mondo del calcio, poche espressioni hanno avuto la stessa diffusione di sportwashing in questi anni. I Mondiali in Russia e in Qatar gli hanno dato grande rilevanza, e il torneo del 2034 in Arabia Saudita alimenterà nuovamente la sua fama. Tuttavia, in ambito accademico, questo termine è stato messo sempre più in discussione, venendo considerato troppo vago e con connotazioni etnocentriche. La sua fortuna, però, resta grande nel contesto mediatico: i giornalisti usano frequentemente il termine sportwashing perché è chiaramente comodo e di facile comprensione.
È stato inventato nel 2015 dall’attivista Rebecca Vincent per la campagna Sport for Rights. Vincent protestava contro l’uso politico dello sport da parte del regime azero di Ilham Aliyev durante la prima edizione dei Giochi Europei, tenutasi a Baku. Lo sportwashing dell’Azerbaigian è ben noto ai tifosi di calcio: il governo di Aliyev ha costruito uno stadio da 70.000 posti per i Giochi, che in seguito ha ospitato il Campionato Europeo Under-17 del 2016, la finale di Europa League del 2019, tre partite di EURO 2020, ed è anche lo stadio casalingo del Qarabağ, una squadra accusata di essere uno strumento del regime per rivendicare il Nagorno-Karabakh.
Quindi, cos’era lo sportwashing per Rebecca Vincent? Uno strumento di un potere autoritario utile per ripulirsi l’immagine utilizzando un evento sportivo, guadagnando così una buona reputazione agli occhi del mondo. La fortuna di questo termine è legata ai cambiamenti globali nello sport business negli ultimi anni: i governi dittatoriali possono sfruttare il loro potere economico per aumentare la propria influenza nello sport e, di conseguenza, anche la loro influenza politica. Questa è la situazione di Russia, Turchia, Cina, Qatar e Arabia Saudita, solo per citare alcuni esempi. Sportwashing è anche una parola accattivante e intuitiva, perché è facile collegarla a una galassia di termini simili: greenwashing, pinkwashing, rainbow-washing. Tutti trasmettono in maniera chiara lo stesso messaggio: l’uso di qualcosa (politiche green, in favore dei diritti delle donne o della comunità LGBTQ+) per coprire e “ripulire” un atteggiamento più controverso. Eppure, c’è qualcosa che non va nel suo utilizzo.

Lo sportwashing non è una novità
Sebbene questa parola abbia appena nove anni, il concetto che rappresenta è molto più antico. I Mondiali del 1978 in Argentina o i Giochi Olimpici del 1938 a Berlino possono essere considerati suoi predecessori, ma lo storico Paul Christensen, professore di Storia greca antica al Dartmouth College (Stati Uniti), ha dichiarato a Sports Illustrated che possiamo far risalire lo sportwashing addirittura ai Giochi Olimpici antichi. Nel 416 a.C., Alcibiade spese grandi somme di denaro per competere nelle gare di carri, schierando sette quadrighe diverse e ottenendo un primo, un secondo e un quarto posto. Alcibiade era un politico ateniese e in quel periodobAtene stava perdendo la guerra del Peloponneso contro Sparta: utilizzò i suoi soldi per far passare l’idea di un’Atene ancora prospera e in salute; “Fu una manovra geopolitica a tutti gli effetti” ha detto Christensen.
Sportwashing è anche considerato un nuovo modo per dire soft power, quello che Joseph Nye ha definito nel 2004 come “far desiderare agli altri ciò che tu desideri”. Tuttavia, Jules Boykoff ha sottolineato che questi due concetti sono piuttosto diversi. Nella sua fondamentale analisi del fenomeno dello sportwashing, Boykoff spiega che l’approccio del soft power trascura il ruolo della domestic audience (il “pubblico interno” al paese): le dinamiche nazionali sono “centrali per comprendere lo sportwashing e i suoi effetti collaterali”. Aggiunge inoltre che esso “può certamente aprire la strada a interventi militari o alla loro intensificazione”, mentre il soft power non si riflette nel hard power.
Una prospettiva etnocentrica
Un punto cruciale su perché smettere di usare il termine sportwashing è il fatto che esso viene riferito sempre a paesi non occidentali: l’Arabia Saudita sta facendo sportwashing, così come il Qatar, la Russia, la Cina, l’Azerbaigian, ecc. Tuttavia, le Olimpiadi di Londra 2012 hanno fatto largo uso della sport politics, e abbiamo visto qualcosa di simile durante la finale di EURO 2020 in Inghilterra. Lo sport è stato un fattore cruciale per gli Stati Uniti durante la Guerra Fredda proprio come lo era per l’Unione Sovietica; l’amicizia con Kylian Mbappé è stata utilizzata come strumento di propaganda da Emmanuel Macron durante le elezioni presidenziali francesi del 2022. “È un’espressione usata con un chiaro intento politico, ovvero: biasimare le strumentalizzazioni dello sport da parte di un paese di cui non si apprezza la condotta morale” ha affermato Nicola Sbetti, professore di Sport e politica internazionale all’Università di Bologna, su The Sport Light.
Nell’uso che ne fanno i media, la differenza tra soft power e sportwashing è essenzialmente guidata da ragioni politiche: il primo riguarda le democrazie liberali (generalmente i paesi del mondo occidentale), il secondo i regimi autoritari. Da un lato, abbiamo il buon uso della politica sportiva; dall’altro, il cattivo uso: la questione non è così legata ai diritti umani come pensiamo. Nel 2022 molti hanno protestato contro i Mondiali in Qatar, e molti altri stanno facendo lo stesso con i Mondiali del 2034 in Arabia Saudita, ma cosa dire dell’edizione del 2026 negli Stati Uniti di Trump? Molte partite si giocheranno negli stadi texani di Dallas e Houston, in uno stato dove l’aborto è illegale dal 2022. Negli ultimi anni, in Texas e Florida sono state approvate leggi contro i diritti LGBTQ+, e anche la Florida ospiterà alcune partite dei Mondiali nel Hard Rock Stadium di Miami. È difficile immaginare le stesse proteste viste in Qatar due anni fa.

Lo Sportwashing non serve più solo a “ripulirsi”
Nel 2015, il termine era nato per descrivere un uso specifico dello sport da parte dei regimi autoritari, focalizzato sul fare una buona impressione all’esterno. Ma ora sportwashing viene utilizzato in relazione a nuove e differenti strategie, come ha sottolineato ancora Boykoff: “Stanno emergendo nuove forme di sportwashing, con controversi regimi autoritari che finanziano squadre, competizioni ed eventi in stati democratici”. Stanis Elsborg ha scritto che questo concetto “semplifica e non riesce a cogliere la complessità delle politiche sportive molto sofisticate di molti regimi autoritari”.
Vladimir Putin ha usato degli eventi sportivi – come le Olimpiadi invernali di Sochi 2014 e i Mondiali di calcio del 2018 – per influenzare e consolidare una nuova identità nazionale russa, non solo per promuovere una buona immagine del paese all’estero. Le strategie sportive del Qatar e dell’Arabia Saudita fanno parte di un progetto più ampio di nation building e diplomazia internazionale: naturalmente vogliono legittimarsi agli occhi della comunità globale, ma c’è molto di più in gioco. Con il piano Vision 2030, il governo di Riad mira a diversificare l’economia, promuovere il turismo, attrarre nuovi investitori e modernizzare il paese, sia a livello infrastrutturale che sociale (in particolare rivolgendosi alle giovani generazioni: il 63% dei sauditi ha meno di 30 anni). L’intrattenimento sportivo è un fattore chiave in questo progetto, e il calcio è lo sport più popolare tra i giovani sauditi.
Cosa possiamo usare al posto di sportwashing?
Compreso che il termine è controverso e semplicistico, qual è la sua migliore alternativa? Come abbiamo visto con Boykoff, soft-power non è un buon sostituto, poiché i due termini sono troppo diversi e l’evoluzione recente del concetto di sportwashing complica ulteriormente la loro connessione. Sport politics – usato in questo articolo – o sport diplomacy possono essere soluzioni valide, ma è difficile che raggiungano la stessa popolarità di sportwashing, perché sono più “soft”: manca in essi l’implicita condanna morale che si ha nel termine originale. Questo potrebbe non essere necessariamente un male, se parliamo in ambito accademico, ma per gli attivisti per i diritti umani e le ong, sportwashing ha un valore intrinseco insostituibile: non si limita a indicare che stiamo parlando dell’uso politico dello sport, ma afferma anche che non siamo d’accordo con esso.
Una possibile soluzione, quindi, è continuare a usare sportwashing, ma ampliando il suo ambito di riferimento a tutti i paesi che sfruttano lo sport per fare propaganda. Dobbiamo riconoscere che, se lo sportwashing esiste davvero, non è una prerogativa dei regimi autocratici. Questo è particolarmente vero in un’epoca in cui i valori occidentali sono costantemente messi a rischio e in discussione dagli stessi paesi occidentali: i legami economici con dittature in giro per il mondo, il fallimento nell’affrontare il massacro in corso a Gaza, le politiche brutali contro i migranti in Europa e in Nord America, l’ascesa di partiti di estrema destra che mirano a restringere i diritti civili. Quella superiorità morale oggi non esiste più, ammesso che ci sia mai stata.
In quanto giornalisti, dobbiamo prendere una posizione chiara: se vogliamo continuare a usare sportwashing, dobbiamo conoscerne tutte le controversie e accettare che le democrazie occidentali spesso non sono così diverse dai regimi autoritari. I Mondiali del 2030 vedranno la collaborazione tra Spagna e Portogallo, ma anche la monarchia assoluta del Marocco; gli Europei del 2032 saranno una collaborazione tra l’Italia e la Turchia di Erdoğan: un racconto sportivo consapevole non può essere ingenuo su questo. Altrimenti, è meglio usare parole diverse.
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2 pensieri riguardo “Perché dovremmo smettere di usare la parola “sportwashing””