“È straziante. Dopo vent’anni che tentiamo di uscire da tutto lo schifo che è successo, ora siamo punto a capo. È sconvolgente.”
Nadia Nadim
Il 15 febbraio 2002, allo Stadio Olimpico Ghazi di Kabul si giocò quella che è probabilmente la partita di calcio più importante della storia afgana. Non era un match ufficiale, in campo non c’erano grandi stelle e nemmeno due squadre riconosciute, ma solo una selezione dei migliori giocatori della città, chiamata appunto Kabul United, e una dei migliori giocatori dell’ISAF, la coalizione militare internazionale che solo tre mesi prima aveva posto fine a cinque anni di repressivo governo islamista, cacciando i Talebani.
Tutto era iniziato ad andare male nel 1979, quando Stati Uniti e Arabia Saudita avevano preso a finanziare gruppi di mujaheddin – guerriglieri islamisti – contro il governo filo-sovietico di Kabul: da lì, per farla molto semplice, nei primi anni Novanta emersero i Talebani guidati dal mullā Mohammed Omar, che nel 1996 presero il potere, instaurando un regime liberticida, violento e repressivo, fondato su una rigida osservanza della Sharia mescolata al codice tribale pashtun, che prevedeva anche la completa repressione di ogni libertà delle donne e di ogni moda occidentale.
O almeno di quasi tutte, perché lo sport venne presto identificato come qualcosa di fondamentale per il nuovo Afghanistan, e in particolare il calcio, diffusissimo nella regione fin dagli anni Venti, sebbene né i club locali che la Nazionale avessero mai ottenuto risultati di rilievo (l’unico era stato la partecipazione al torneo olimpico del 1948). Il calcio necessitò una regolamentazione, in particolare per quanto riguardava l’abbigliamento: i calciatori furono costretti a giocare con pantaloni lunghi e maglie a maniche lunghe nonostante le temperature, per non lasciare gambe o braccia scoperte. I comandanti talebani erano tutti grandi appassionati, e si impegnarono per organizzare a Kabul un campionato con dodici squadre, sponsorizzandone ognuna personalmente: il calcio era divenuto il modo con i nuovi capi dell’Afghanistan si sfidavano per dimostrare chi fosse il migliore. Sebbene il gioco d’azzardo fosse severamente vietato dalla legge islamica, non si facevano scrupoli di scommettere tra loro su chi avrebbe vinto le partite. Allo stesso tempo, finanziavano il proprio club con soldi pubblici, pagando per le strutture di allenamento, l’equipaggiamento e anche gli stipendi dei giocatori, che fino a quel momento non avevano mai ricevuto denaro per giocare a pallone.

Ma, se da un lato i Talebani avevano creato una sorta di professionismo del calcio afgano, dall’altro facevano in modo che lo sport fosse solo un loro passatempo personale: la Nazionale sparì dai radar del calcio internazionale, mentre l’Afghanistan si isolava sempre di più. E, come se non bastasse, a ogni giocatore era chiaro che non erano altro che marionette nelle mani di un regime criminale, che massacrava senza pietà la gente e manteneva il Paese nella morsa della fame e del declino economico e sociale. Lo Stadio Olimpico Ghazi ospitava tutte le gare del campionato nel fine settimana, ma nel resto dei giorni era il luogo dove i Talebani conducevano i propri oppositori politici o le donne che si erano macchiate di “crimini” come l’adulterio o la disobbedienza al marito, e li giustiziavano davanti a una folla obbligata ad assistere alle esecuzioni come se fossero comuni eventi d’intrattenimento. Mohammad Isaq, stella del Sabawoon, racconterà che un giorno, durante il riscaldamento prima di una partita, trovò per caso sei mani amputate in un angolo del campo.
Il regime talebano cadde più o meno nello stesso modo in cui era salito al potere: grazie agli Stati Uniti. Nel novembre 2001, le truppe della coalizione occidentale liberavano Kabul e promettevano un futuro migliore per l’Afghanistan. La partita che si giocò tre mesi dopo, nello stadio simbolo dei soprusi del regime, doveva segnare l’inizio di una nuova era. Il governo britannico ci aveva investito molte risorse, al punto da inviare due nomi noti della Premier League – Gary Mabbutt, ex-difensore del Tottenham degli anni Ottanta e Novanta, e Lawrie McMenemy, che aveva guidato dalla panchina il Southampton alla conquista della FA Cup del 1976 – ad allenare le due formazioni, e addirittura Peter Jones – che aveva diretto la finale di FA Cup del 1999 tra Manchester United e Newcastle – ad arbitrare. Per la prima volta dalla salita al potere dei Talebani, a Kabul si tornava a disputare un match di calcio internazionale.
Il risultato – vittoria dell’ISAF per 3-1 – importa poco ai fini di questa storia. Conta di più il fatto che lo Stadio Olimpico Ghazi aveva riempito tutti i suoi 35.000 posti per quella partita, e altre centinaia di persone si erano assiepate fuori dall’impianto, senza però avere modo di entrarvi: era l’evento che segnava la fine dell’epoca oscura e l’inizio di qualcosa di nuovo, tutti volevano prendervi parte. Al punto che si verificarono degli scontri tra i tifosi e i soldati occidentali che regolavano gli ingressi allo stadio e dovevano mantenere l’ordine, e ci furono anche alcuni feriti. “Appena siamo arrivati in campo – racconterà poi Mabbutt – la gente ha iniziato a scavalcare le recinzioni. I soldati, brandendo bastoni avvolti nel filo spinato, colpivano la folla per tenerla a bada; ricordo un uomo anziano portato via con il sangue che gli sgorgava dalla testa. La musica delle tre bande che suonavano in campo copriva il rumore degli spari di avvertimento delle truppe. La gente lanciava mattoni sulle terrazze dall’esterno mentre i soldati tedeschi usavano gas lacrimogeni per disperdere la folla”.
Col senno di poi, si potrebbe parlare di un presagio. Eppure, tra non poche difficoltà l’Afghanistan da lì in avanti sembrò essere sulla strada giusta per costruirsi un nuovo futuro, anche grazie al calcio. Nel 2013, la Nazionale vinse il suo primo titolo internazionale, conquistando la Coppa SAFF, un torneo dell’Asia meridionale, e un anno dopo arrivò quarta nella AFC Challenge Cup: a trascinare la squadra, tanti ragazzi figli dell’esodo afgano e rifugiati in Europa, specialmente in Germania, come il portiere Mansur Faqiryar e gli attaccanti Mustafa Hadid e Sandjar Ahmadi. Ma la vera storia del calcio afgano nell’epoca post-talebana, non è questa: è quella delle donne.

La repressione delle libertà delle donne è stato un fenomeno traumatico per l’Afghanistan, con il brusco passaggio dalla possibilità di lavorare e andare a scuola all’essere chiuse in casa e costrette a indossare il burqa, un velo integrale che copre tutto il corpo, compresi gli occhi, e che era stato vietato già nel 1961. Chi poteva, scappava dal Paese e cercava di raggiungere il vicino Pakistan, una nazione democratica profondamente legata agli Stati Uniti e nota per la figura della politica progressista Benazir Bhutto. Tra le persone che seguirono questo viaggio ci fu la famiglia di Nadia Nadim, allora una ragazzina di 11 anni il cui padre era stato giustiziato dai Talebani: lei, assieme alla madre e ad altre quattro sorelle, raggiunse il Pakistan e da lì l’Italia, tentando di raggiungere clandestinamente il Regno Unito, dove aveva dei parenti; la madre pagò un camionista per portarle a Londra, e invece furono scaricate in Danimarca. Non molti anni dopo, Nadim si sarebbe affermata come una delle più forti attaccanti al mondo e, sebbene abbia sempre rappresentato la Nazionale scandinava, può a ragione essere considerata il nome più importante della storia del calcio afgano, sia tra le donne che tra gli uomini.
Una storia diversa da quella di chi, invece, in Afghanistan ci è rimasta. Khalida Popal, aveva 9 anni quando i Talebani presero il potere a Kabul e lei vide sua madre, un’insegnante di educazione fisica che le aveva insegnato a giocare a calcio, esclusa dalla società civile e costretta a nascondersi sotto il burqa. In quegli anni si è formata la sua coscienza politica, anche grazie al fatto di vivere in una famiglia molto di larghe vedute: “Devo la mia ricerca di libertà alla mia cultura famigliare: gli uomini della mia famiglia credevano nell’equità, motivo per cui mia nonna e mia mamma godevano degli stessi diritti”. La caduta del regime le ha permesso di tornare a giocare a calcio in strada e mettere assieme una squadra di ragazze come lei, che nel 2007 è stata riconosciuta come la prima Nazionale femminile afgana della storia, di cui Popal è stata scelta come capitana. Per il suo attivismo, ha ricevuto minacce di morte da gruppi religiosi estremisti, e alla fine è stata costretta a lasciare l’Afghanistan, diventando rifugiata politica in Danimarca, proprio come Nadim.
Da Copenaghen, la sua lotta per i diritti delle sue connazionali non si è fermata. Innanzitutto, ha stretto un accordo con l’azienda danese Hummel per realizzare e fornire alla Nazionale femminile afgana delle divise che coprano anche la testa, così da consentire alle giocatrici più osservanti in ambito religioso di non dover vestire l’hijab durante le partite senza nemmeno andare contro la propria cultura. Popal ha inoltre creato l’associazione Girl Power, che sostiene progetti di emancipazione femminile attraverso lo sport. Nel 2018 è stata sempre lei a presentare alla FIFA un’approfondita indagine che denunciava i ripetuti abusi sessuali commessi dai dirigenti della Federcalcio afgana sulle calciatrici, generando un vero e proprio scandalo nazionale. E oggi Khalida Popal vede il Paese e la causa per cui ha sacrificato tanto precipitare di nuovo nell’inferno dei fanatici.
Fonti
–BEZHAN Frud, Afghans Lift Lid On Sports Under The Taliban, Radio Free Europe Radio Liberty