L’evento simbolo di una carriera si compì pochi istanti dopo il fischio d’avvio del secondo tempo, quando un’improvvisa verticalizzazione colse impreparata la difesa dell’Italia. Luciano Spinosi gli si gettò addosso con le mani, perché era troppo lento per stargli appresso, e Sanon se lo trascinò dietro fin quasi a farlo cadere, entrò in area e battè Zoff in uscita. Il portiere della Juventus non prendeva gol da 1.142 minuti in partite internazionali con la maglia azzurra: ci si domandava quale fenomeno avrebbe posto fine al suo record, e invece arrivò un 22enne ragazzo nero dai sobborghi di Port-au-Prince.
Sì, Haiti era ai Mondiali. Quel giorno era il 15 giugno 1974, e poco importa se poi l’Italia vinse 3-1 e Haiti lasciò il torneo dopo zero punti in tre partite: Emmanuel Sanon, aveva inciso il suo nome nella storia del calcio. Una settimana dopo, per togliersi lo sfizio, segnò di nuovo, stavolta all’argentino Daniel Carnevali; ma niente in confronto a quella prima rete che cambiò la sua carriera. Era un giovane attaccante cresciuto in una famiglia povera di Pétionville, un sobborgo alla periferia meridionale della capitale, lì dove la terra inizia ad impennarsi, quei posti che da laggiù sono chiamati bidonville – baraccopoli – dalla gente dei quartieri dabbene.
Era nato e cresciuto in un Paese disastrato, in cui i colpi di stato erano pane quotidiano. Almeno fino a che a potere non era arrivato Papa Doc, che aveva trasformato l’insicurezza politica nella certezza della repressione violenta: per anni alcuni generali dell’esercito, abituati a fare il bello e il cattivo tempo ad Haiti, avevano provato a rovesciarlo, se non addirittura ad assassinarlo, e Papa Doc li aveva maciullati uno dopo l’altro, appoggiandosi alla sua fedelissima milizia personale, i Volontaires de la Sécurité Nationale. Comunemente, la gente li conosceva come Tonton Macoute, dal nome di un creatura maligna della religione vudù che usciva solo la sera e rapiva i bambini incautamente avventuratisi per strada a tarda ora, ficcandoli nel suo grosso sacco di iuta. Come il mostro del folklore, i miliziani uscivano solo la notte e le loro prede sparivano nel nulla.
Crescere ad Haiti, negli anni Sessanta, era come vivere un film dell’orrore. Emmanuel Sanon combatteva la paura giocando a calcio nella squadra della scuola cattolica salesiana, che era divenuta la sua casa dopo la prematura morte di entrambi i genitori. Entrò presto nella squadra della scuola, il Don Bosco, diventandone rapidamente la stella: a 20 anni, fu uno dei protagonisti della vittoria nello scudetto, che gli aprì le porte della Nazionale, proprio nel momento in cui Papa Doc stava morendo. Alla nascita, il dittatore era stato registrato come François Duvalier, la sua famiglia proveniva dalla Martinica e ad Haiti risultava anche piuttosto ricca e gonfia di agganci importanti, che gli avevano permesso di andare a studiare negli Stati Uniti e laurearsi in medicina. Incredibile che uno come Papa Doc, con tutti i legami che aveva con le élite bianche, fosse riuscito a vincere le elezioni spacciandosi per paladino della popolazione nera dell’isola. Nonostante fosse un uomo di scienza, aveva abbracciato la politica fin dal 1946, sfruttando la superstizione e il populismo per prendere il potere: nei suoi anni di gloria, diceva di essere l’incarnazione di Baron Samedi, il traghettatore dei morti, e che chi gli si opponeva finiva per essere trasformato in uno zombi, un morto che cammina sotto il suo controllo.

Quando morì, gli successe il figlio Jean-Claude, di cui tutti avevano paura a pronunciare il nome per non finire nelle grinfie del Tonton Macoute, e così era noto semplicemente come Baby Doc. Il nuovo dittatore, ironia della sorte, aveva esattamente la stessa età di Sanon, anzi era di sette giorni più giovane: ma se il calciatore era cresciuto in una baraccopoli, Jean-Claude Duvalier aveva passato la sua vita nella bolla dorata costruita per lui dal padre. Rispetto al padre, però, non era preda degli stessi psicotici deliri di onnipotenza: Baby Doc finse una politica di democratizzazione, che gli permise di riallacciare i rapporti diplomatici ed economici con gli Stati Uniti, fondamentali per arricchirsi sottraendo soldi allo Stato e per avere protezione internazionale.
Un’altra cosa che li differenziava, era l’atteggiamento verso il calcio. Inutile al fine della sua politica di feroce tradizionalismo haitiano, il calcio era stato snobbato da François Duvalier, e l’unica volta che ci aveva avuto marginalmente a che fare, era stata una spiacevole seccatura. C’era un certo Joe Gaetjens, un signore 40enne di buona famiglia mulatta che aveva studiato a New York e aveva giocato d’attaccante negli anni giovanili, arrivando addirittura a fare il professionista in Europa, dopo aver giocato i Mondiali con gli Stati Uniti (gli esperti di calcio lo sapevano: Gaetjens aveva segnato il gol con cui gli USA avevano sconfitto l’Inghilterra, la squadra più forte del mondo, nel 1950). Gaetjens veniva da una famiglia di oppositori politici filo-americani; la maggiore parte di loro era andata in esilio oltre confine, nella Repubblica Dominicana, ma Joe era rimasto ad Haiti, e nel 1964 il Tonton Macoute era venuto a prenderlo.
Dittatore moderno, Baby Doc invece vedeva nel calcio un importante strumento di consenso, in grado di dimostrare al mondo la modernità del suo regime. Così sfruttò i suoi contatti e il suo denaro per persuadere la CONCACAF a organizzare il torneo di qualificazione ai Mondiali proprio ad Haiti. La Nazionale caraibica non era male, aveva addirittura un giocatore impegnato in Europa – il difensore Wiler Nazaire, cresciuto in Francia e sotto contratto col Valenciennes – e come allenatore Baby Doc aveva voluto un italiano, Ettore Trevisan, che aveva una lunga esperienza in Serie C ma anche in Francia e Grecia. Pensare di fare meglio del Messico era utopia, e così dove non poterono i mezzi tecnici dei giocatori poterono gli arbitri: il Messico sconfisse Haiti 1-0, ma cadde fu bloccato sul pareggio da Honduras e Guatemala, e cadde clamorosamente contro Trinidad & Tobago, lasciando agli isolani il primo posto nel girone e l’inaspettato esordio ai Mondiali del 1974.
Trevisan non arrivò mai a vederli, quei Mondiali: la sua presenza avrebbe rovinato l’immagine della purezza etnica di Haiti, ancora cara al regime nonostante la modernizzazione, e così venne licenziato e sostituito dal suo vice Antoine Tassy. Fu il Mondiale del gol di Emmanuel Sanon, ma anche un po’ il Mondiale della speranza per tanti giocatori haitiani: il portiere Henry Francillon e il difensore Serge Racine restarono in Germania, accasandosi rispettivamente al Monaco 1860 e al Wacker 04 Berlino; altri compagni (Arsène Auguste, Edouard Antoine, Guy e Roger Saint-Vil, Gérard Joseph) scelsero il campionato nordamericano, che proprio in quel periodo stava vivendo nuova gloria con l’arrivo di Pelé ai New York Cosmos.

Emmanuel Sanon, l’eroe dei Mondiali 1974, restò in Europa ma accasandosi ai belgi del Beerschot di Anversa, dove visse anni d’oro, arrivando a conquistare la Coppa del Belgio nel 1979. Nel 1980, mentre Baby Doc celebrava il suo vergognosamente sfarzoso matrimonio, fu vicino a trasferirsi all’Anderlecht per sostituire Rob Rensenbrink, ma qualcosa andò storto: Sanon si stancò del Belgio e raggiunse gli Stati Uniti, terra d’elezione di tanti esuli haitiani, giocando prima nel Miami Americans e poi nel San Diego Sockers, durnate gli anni di decadenza del campionato. Nel 1986, un infortunio al ginocchio lo convinse ad appendere gli scarpini al chiodo e a ritirarsi a Miami. In quei mesi, Jean-Claude Duvalier fuggiva in esilio in Francia dopo una rivolta popolare, ma invece di volgersi alla democrazia Haiti tornò alla vecchia routine di golpe militari e omicidi politici, che bene o male sembra non essere mai finita.
Fonti
–Sanon se lo ricorda bene sorpattutto Zoff, Il Nobile Calcio
–VAN ENCKEVORT John, Emmanuel Sanon, World Cup hero from Haiti, Soccer Stories