Qualche giorno fa, su Twitter, l’account ufficiale della Roma condivideva la foto, tratta dal Corriere della Sera, di un bambino che gioca a calcio in una strada deserta. Il post recitava: “Ritorneremo. Tutti”. Da qualche giorno, infatti, si sta iniziando a parlare del dopo, di come il mondo ritornerà a vivere dopo il coronavirus. Concentrarsi sulla ripresa del calcio potrebbe sembrare superficiale, ma non è così: immaginare il calcio post-coronavirus significa anche immaginare, per estensione, la società che verrà.
Partiamo da un dato di fatto: qualcosa verrà a mancare. Spostare la fine dei campionati e delle coppe in estate significa che non ci saranno amichevoli estive, il calciomercato si sovrapporrà alle partite; l’estate 2020 non sarà un periodo di pausa, attesa e preparazione alla stagione successiva, ma assomiglierà probabilmente a un frullato di primavera-estate calcistica. E così, probabilmente anche le nostre vacanze non ci saranno, o saranno molto più ridotte, e l’estate apparirà molto più simile al resto dell’anno (ma più caldo). I contratti che dovrebbero scadere a giugno saranno prolungati d’ufficio e la campagna acquisti durerà quattro mesi, secondo il progetto della FIFA, in questo modo il mercato sarà salvo e i club potranno continuare a fare girare i soldi che servono a tenere in piedi il sistema.
Ma ci saranno davvero dei soldi da far girare? Da tempo ci si chiede se il costo dei giocatori, tra cartellino e ingaggio, non sia diventato troppo alto (è letteralmente un tema di cui si discute da sempre, da quando i primi calciatori iniziarono a venire pagati per giocare). Il coronavirus potrebbe finalmente aver messo il sistema di fronte ai suoi difetti: i club, in una situazione del genere, saranno veramente disposti a tirar fuori una somma a nove cifre per il colpo dell’anno? Prima di tutto questo, la stampa parlava insistentemente di un ritorno di Neymar al Barcellona: il PSG, tre anni fa, lo pagò 222 milioni di euro, ma chi oggi sarebbe disposto a spendere per lui anche solo la metà?
Lo stop alle competizioni sta già da ora colpendo i bilanci dei club, che iniziano a studiare tagli agli ingaggi dei giocatori per contenere le perdite. Questo succede addirittura tra le squadre di prima fascia, come il Barcellona che, a causa del coronavirus, deve ora fare i conti con una complicata situazione di bilancio che si porta dietro da tempo: nonostante lo scorso ottobre il Barça annunciasse ricavi record per oltre un miliardo di euro per la stagione in corso (che adesso, giocoforza, saranno inferiori), aveva comunque delle passività consistenti. Forse una riflessione sarà necessaria: quanto può essere valida una strategia che ti permette di raggiungere ricavi altissimi eppure essere lo stesso indebitato?
Questo, però, significa ripensare l’intero modo in cui finora sono stati gestiti la maggior parte dei club di calcio, e in generale le aziende. È quello che ha detto, per esempio, il vicepresidente dell’Inter Javier Zanetti a SkySport, parlando della necessità di definire un sistema “più sostenibile”. Di fronte alla concreta possibilità di perdere i guadagni delle tournée estive, i club potrebbero dover ricorrere a una “decrescita forzata”.
Le proposte di taglio degli ingaggi hanno generato, qua in Italia, degli scontri con l’AIC; Tommasi ha assicurato che i calciatori faranno la loro parte, ma alcuni problemi rimangono. Una cosa è tagliare del 50% lo stipendio di Cristiano Ronaldo, e un’altra è applicare la medesima decurtazione a un giocatore delle serie minori, o a una giocatrice del campionato femminile. Un calciatore di buon livello in Serie B guadagna circa 7.000 euro al mese, in Serie C 2.500; la Serie A femminile, non essendo ancora realmente professionistica, ha stipendi medi da 15mila euro lordi all’anno.
Stiamo parlando di situazioni in cui il dissesto economico era un problema reale già prima del coronavirus. All’inizio della stagione di Serie C, ben cinque club hanno rinunciato all’iscrizione per ragioni finanziarie, e il Rieti ha già subito quattro punti di penalità per i ritardi nei pagamenti dei giocatori; l’anno scorso, inoltre, si era verificata la farsa di Cuneo-Pro Piacenza. L’incapacità del calcio italiano di trovare una dimensione stabile alla terza categoria professionistica è un nodo che tornerà drammaticamente al pettine, costringendo le istituzioni a confrontarsi con le difficoltà dell’Italia a sostenere tre serie pienamente professionistiche che raggruppano in tutto 100 club, più di qualunque altra nazione europea.
Per fare fronte a tutto questo, non è improbabile immaginare che il governo (o meglio, che i governi, in tutta Europa) decida di destinare un contributo straordinario anche alle società calcistiche, similarmente a quanto si chiede per le altre aziende del paese: il calcio italiano ha fruttato allo Stato 1,2 miliardi di euro nel 2019, entrate a cui si preferirebbe non rinunciare. Però questa potrebbe diventare l’occasione per i club per ottenere la tanto sospirata riforma della legge sugli stadi, così come provvedimenti più contestati, tipo la vendita soggettiva dei diritti tv o il ritorno alle sponsorizzazioni delle scommesse. In tempi normali, queste ultime due proposte troverebbero molte resistenze, ma in piena emergenza – come dimostrano le novità sulle app di tracciamento e la sorveglianza coi droni – certe cose si digeriscono più facilmente.
Messa da parte (si fa per dire) la questione economica, c’è quella delle partite. Ipotizzando la ripresa di campionati e coppe in estate, è abbastanza scontato che, almeno per i primi tempi, si procederà a porte chiuse. Quando, a fine febbraio, il sottoscritto ipotizzava un calcio con stadi senza pubblico, sembrava parlasse di fantascienza, ma oggi il discorso suona molto più reale. Immaginare, tra qualche mese, stadi ricolmi di gente è un arduo esercizio di fantasia; non sappiamo neppure quante persone, specialmente in Lombardia, se la sentirebbero di andare a vedere una partita stretti tra qualche migliaio di persone. E anche andare a seguire il match al bar con gli amici non sembra un’ipotesi tanto più praticabile.
Per il mondo del calcio, la visione casalinga diventerà ancora più importante. Le televisioni che oggi tirano avanti con repliche di vecchie partite e collegamenti via Skype presto potrebbero dover proporre nuovi pacchetti di abbonamento a spettatori che prima ne facevano a meno. Pian piano, dovremo superare lo scetticismo verso le partite senza pubblico, perché non avremo alternativa. E il mondo del calcio dovrà trovare un rimedio all’assenza dei cori, dei boati, degli You’ll never walk alone. Bisognerà iniziare a pensare il calcio ancor più come spettacolo che come sport.
E poi c’è un altro aspetto, quello che riguarda la sicurezza dei calciatori. Se adesso vi state cullando con l’idea di questi giocatori “più umani”, che possono ammalarsi e che come noi devono stare a casa e confrontarsi con la vita di tutti i giorni, presto potreste scoprirli ancora più eterei e avulsi dal nostro mondo rispetto a prima. I calciatori dovranno vivere isolati, protetti e continuamente monitorati, più di qualsiasi altra categoria sociale, per scongiurare la minima possibilità di contagio: solo così sarà possibile riprendere a giocare. È però difficile che i club delle serie minori possano garantire qualcosa del genere, ed è probabile che dovranno prendersi una pausa a tempo indeterminato.
Ma noi come reagiremo a tutto questo? Noi tifosi e, ancor di più, noi cittadini comuni. Avremo ancora voglia di seguire un calcio così alieno rispetto a quello che abbiamo conosciuto fin qui? Noi, durante il giorno, a scuola o a lavoro con guanti e mascherine, attenti a limitare i contatti con gli altri, e la sera una ventina di persone che vanno avanti a giocare come se niente fosse, come immagini che arrivano da un altro pianeta o da un altro tempo. Riusciremmo ancora a esultare per una vittoria?