Il primo campionato trasmesso per intero su Sky, gli spot in tv, il ritorno ai Mondiali: stiamo vivendo il miglior momento del calcio femminile italiano, è evidente. Sarebbe sbagliato, però, pensare che questi recenti progressi abbiano cancellato ogni problematica del movimento. Solo quattro anni fa, il presidente della Lega Nazionale Dilettanti Felice Belloli definiva le calciatrici “quattro lesbiche” e si scagliava contro l’ipotesi di aumentare i fondi al calcio femminile. Nel 2014, il presidente della FIGC – il massimo organo di governo del calcio italiano – Carlo Tavecchio sosteneva più diplomaticamente che bisognasse “dare una dignità anche sotto l’aspetto estetico” alle calciatrici. Aspetto estetico, capito?
Oggi, fortunatamente, nessuno dei due ricopre più la carica di presidente, eppure un anno fa i campionati di A e B femminile si sono ritrovati al centro di una battaglia tra FIGC e LND su chi dovesse occuparsi dell’organizzazione dei tornei, durata tutta l’estate e risoltasi infine in favore della Federcalcio, ma solo dopo che le stesse calciatrici avevano deciso di scioperare ad agosto, ritardando così l’inizio dei campionati. Il punto è sostanziale: capire se, almeno a livello ufficiale, il calcio possa essere anche un mestiere per una donna, e non solo un passatempo.
Dal 2017, il calcio italiano ha iniziato per la prima volta a interessarsi seriamente anche del versante femminile, con alcuni club della Serie A che hanno aperto le porte alle donne, seguendo l’esempio della Fiorentina di due anni prima. Il caso più noto è però quello della Juventus, da otto anni dominatrice tra i maschi e da due anche tra le donne, un impegno che è stato salutato da tutti come un modello di sviluppo tecnico ed economico che altre società dovrebbero imitare.
Eppure, la Juventus rappresentà in realtà il rovescio della medaglia della nuova epoca del calcio femminile italiano. Squadra creata praticamente dal nulla nel 2017, ma con alle spalle un colosso del football, la Juventus Women è sbucata nella nuova Serie A letteralmente saccheggiando le vice-campionesse in carica del Brescia, che dal 2012 erano tra le squadre più vincenti in Italia. Sette delle migliori giocatrici del Brescia sono state trasferite alla Juventus – Sara Gama, attuale capitana bianconera; Cecilia Salvai, attuale vice-capitana; Valentina Cernoia; Martina Rosucci; Barbara Bonansea; Cristiana Girelli; Aleksandra Sikora – costruendo l’ossatura della formazione che ha vinto i due successivi scudetti, nonché della Nazionale.

Il Brescia femminile è nato nel 1994 per volontà di Giuseppe Cesari, e come molte squadre del “vecchio” calcio femminile aveva una partnership con una formazione maschile – il Brescia Calcio, che le ha consentito di usare la maglia biancazzurra – pur restando una società completamente separata. Nel giro di trent’anni, il club è diventato tra i più forti in Europa, fino a che la recente rivoluzione ha iniziato a comportare costi troppo alti per Cesari, ed è iniziato l’esodo. Infine, nel giugno 2018, il presidente bresciano annunciava la cessione del titolo sportivo al Milan – altra big del calcio maschile entrata nella nuova Serie A femminile – e la conseguente rinascita delle Leonesse come club di Eccellenza, l’ultima serie delle dilettanti.
Ma le Grandi che hanno fatto la storia del calcio femminile italiano stanno tutte condividendo, più o meno, sorti simili: nate come società dilettantistiche, costruite con passione, impegno, settori giovanili e pochissimi fondi, si ritrovano ora a competere ad armi impari in un campionato che sta crescendo a vista d’occhio grazie proprio al massiccio intervento dei grandi club maschili (l’Inter – legatasi all’omonima società a cui aveva in passato concesso i colori sociali, come avvenuto con i due Brescia – è stata recentemente promossa in Serie A, e dall’anno prossimo sarà in competizione per lo scudetto).
Il Tavagnacco, vincitrice della Coppa Italia nel 2013 e nel 2014 e mai sotto al sesto posto in classifica dal 2007 ad oggi, quest’anno s’è ritrovata relegata all’ottavo ed è stata eliminata ai quarti di finale di coppa. La Torres di Sassari, il club più titolato d’Italia, con quattro campionati vinti consecutivamente tra il 2010 e il 2013, si è sciolta quattro anni fa. Delle dieci società che hanno vinto la Serie A negli ultimi vent’anni, tre non esistono più del tutto, altre tre sono state relegate nelle serie minori, e solo una – il Verona – è stata rilevata da una formazione maschile. Le due retrocesse dell’ultima stagione sono state ovviamente squadre senza legami con club maschili, Orobica e Pink Bari.
Il risultato della pure giusta rivoluzione del calcio femminile italiano è che le squadre che hanno fatto la storia di questo sport quando era più importante, quando quasi nessuno ci credeva, spariranno paradossalmente nel giro di poche stagioni, incapaci di sostenere il peso economico dei nuovi campionati. Accanto a questo problema, si aggiunge ovviamente quello più noto degli stipendi, che restano molto più bassi di quelli dei colleghi maschi.
Si dirà: sono più bassi perché le calciatrici sono meno forti e meno seguite. Il che potrebbe forse essere vero se si parla del caso italiano, ma non quando ci si sposta in altre nazioni: la norvegese Ada Hegerberg, detentrice del Pallone d’Oro e oggi probabilmente la più forte calciatrice al mondo, guadagna 387mila euro all’anno; il suo connazionale Mohamed Elyounoussi, anche lui attaccante e quasi coetaneo, guadagna circa due milioni di euro. Con la particolarità che Elyounoussi non è certo la stella della Norvegia, che la sua nazionale non è particolarmente competitiva, e che lui milita nel Southampton, sedicesimo nell’ultima Premier League, mentre Hegerberg gioca nelle campionesse di Francia e d’Europa del Lione. Tanto che ai Mondiali 2019, Hegerberg non sarà in campo, avendo rinunciato alla Nazionale come forma di protesta verso la Federcalcio norvegese, rea di non dedicare abbastanza spazio al calcio femminile. E i paesi scandinavi sono considerati quelli dove questo sport è maggiormente diffuso e sostenuto.

Perfino negli Stati Uniti, il colosso del calcio femminile con tre titoli mondiali e quattro ori olimpici vinti dalla Nazionale, le giocatrici hanno fatto causa alla Federazione per le disparità di trattamento rispetto ai maschi, sia dal punto di vista dei salari sia da quello delle strutture di allenamento e delle condizioni di viaggio. Un paradosso, se si considera che la formazione femminile è indubbiamente la più forte del mondo, mentre quella maschile una delle più deboli, assente addirittura all’ultimo Mondiale. Alex Morgan, attaccante e stella degli USA, guadagna 450mila dollari all’anno; Will Trapp, mediocre centrocampista della squadra maschile, ne prende 550mila.
Il calcio, in fondo, è uno specchio della nostra società, in cui è risaputo che non esiste un’effettiva parità salariale tra maschi e femmine. Nemmeno una parità di opportunità, perché spesso i ruoli di responsabilità e dirigenziali sono appannaggio degli uomini. Delle dodici squadre che hanno disputato l’ultimo campionato di Serie A, sette avevano allenatori maschi e altrettante erano presiedute da maschi. Solo quattro di questi club hanno una forte presenza femminile nei quadri dirigenziali (Roma, Sassuolo, ChievoVerona Valpo e Pink Bari), con picchi negativi come Tavagnacco e Milan, con zero dirigenti donne. Delle 24 squadre del Mondiale 2019, appena nove sono allenate da donne. Per contro, vedere donne allenare club maschili è quasi un tabù.
Allargando la visione, il calcio al femminile riguarda anche il mestiere del direttore di gara, forse quello in cui, soprattutto di recente, in Italia si stanno notando i maggiori casi di discriminazione, in quanto più aperto al contatto con il calcio maschile: è sempre meno raro, infatti, che arbitre donne dirigano incontri maschili, più che altro in Serie D o nei tornei giovanili. Come Giulia Nicastro, ventiduenne che durante un incontro a Mestre è stata bersagliata da insulti sessisti da parte sia di un giovanissimo calciatore sia dei genitori dei ragazzi in campo. E casi del genere capitano più frequentemente di quanto si pensi. E a volte capita pure di peggio.
Il nodo che collega tutti questi aspetti, però, è che devono andare di pari passo con il miglioramento generale delle rapporto tra la società e le donne, anche al di sopra dell’ambito sportivo. Dove comunque le atlete soffrono una palese sottovalutazione e una disparità di trattamento fin dalle pagine dei giornali; la visione della donna sportiva che emerge dal mondo dell’informazione influenza il modo in cui lo spettatore guarda a queste atlete, a prescindere dal loro status giuridico di professioniste o meno.
Finché si continuerà a sostenere un’immagine della sportiva come “bella e brava” – e non invece brava e poi, dopo un bel po’, magari ma comunque irrilevantemente bella – lo sport femminile faticherà sempre a guadagnare credibilità e sarà sempre difficile vedere stadi pieni o fare numeri significativi nelle dirette tv: il che vuol dire che non si potrà mai ambire a grossi incassi, sponsor e diritti televisivi. È importante sottolineare i quasi 40mila spettatori per il match di campionato tra Juventus e Fiorentina, ma va ricordato che si tratta di numeri poco significativi, “gonfiati” dal fatto che la partita era ingresso libero.

In Spagna, per il match scudetto dell’ultima Liga femminile, Atletico Madrid e Barcellona si sono affrontate davanti ai 61mila spettatori del Wanda Metropolitano, stadio della formazione maschile dell’Atletico, stabilendo il record si spettatori. Ma, come ha spiegato al Guardian l’attaccante del Barça e dell’Inghilterra Toni Duggan, un giorno giochi un match-evento in uno degli stadio più belli del mondo, e quelli successivi in strutture fatiscenti e in contesti ancora disorganizzati, dove ad esempio ci si ritrova a dover disegnare il dischetto del rigore dieci minuti prima dell’inizio della partita o a non avere docce con acqua calda negli spogliatoi.
C’è però anche chi segnala che la presenza del calcio femminile in tv può avere l’effetto collaterale di impedire la crescita del pubblico dal vivo. Un problema che anche tra i maschi viene da tempo discusso, a causa di abbonamenti televisivi molto più convenienti di quelli allo stadio; ma se il calcio degli uomini ha conosciuto una crescita graduale che solo in un secondo periodo, e con tempi molto dilazionati, è approdato diffusamente in tv, in quello femminile la televisione vorrebbe essere usata come traino per portare la gente negli stadi.
I numeri degli spettatori in Italia stanno crescendo, come del resto in buona parte del mondo, pur restando ancora piuttosto contenuti. Infatti, al momento il più grande rischio che corre il calcio femminile è quello di trasformarsi in una bolla, con la crescita veloce ed esponenziale del movimento sostenuta però da fattori esterni e occasionali: può sembrare improbabile, ma basta guardare alla storia del campionato di calcio (maschile) statunitense, la North American Soccer League, che ha vissuto diverse ondate positive – sia come investimenti che pubblico – alternate a momenti di crisi che hanno portato alla bancarotta della lega nel 1984. E la stessa cosa è successa alla lega femminile nordamericana WPS, implosa nel 2012 dopo solo tre anni di vita, e rinata come NWSL un anno dopo.
Le ragazze di Milena Bertolini, quindi, sono solo una piccola parte del movimento del calcio femminile italiano, a sua volta solo una parte di un qualcosa di più grande i cui risultati vanno al di là dei gol segnati nelle singole partite. Questo Mondiale è un punto cruciale dell’intero movimento, ma per diventare un autentico trampolino di lancio ci vorrà un’impegno serio e costante nel tempo, andranno prese decisioni per fare sì che i grandi eventi – che si tratti di un Mondiale, una finale di Champions League o una sfida scudetto – non siano gli unici momenti di visibilità e interesse del calcio femminile.